M

Standard

Le piantine delle metropolitane sono la sua principale ossessione. Ne ha una di quella di Londra incorniciata in bagno e, come se non bastasse, la grafica con le linee e i pallozzi colorati gli ha ispirato più di una campagna di comunicazione quando si occupava con me di pubblicità e marketing. Ci occupavamo della promozione dei corsi di una scuola professionale del centro che acquistava spazi soprattutto sui mezzi e alle fermate dell’ATM. Me ne ricordo una, in particolare, che diceva “il tuo posto è qui” perché i pannelli venivano posizionati proprio sopra a un sedile della metro (quello a fianco della porta centrale del vagone) con una freccia verso il basso e non credo sia il caso di spiegarvi il gioco di parole tra posto a sedere/posto di lavoro. Da quando si è trasferito a Milano – vi parlo di una ventina di anni fa – è stato testimone del forte incremento che ha avuto la rete dei trasporti pubblici sotterranei della città. Ha assistito all’inaugurazione della gialla che da Maciachini è stata prolungata sino alla Comasina. Poi è stato il turno della lilla, con i suoi convogli senza conducenti come quella linea di Parigi di cui più di una volta è stato un fiero passeggero. Quando la prende, ancora adesso, cerca sempre di sedersi davanti come fa quando va al cinema, per godersi lo spettacolo in prima fila della velocità sotto terra. Negli ultimi tempi so che ha seguito con curiosità il perimetro del cantiere della M4, documentandone le fasi fino alla storica giornata dell’inaugurazione del primo tratto tra Linate e Dateo. Quella linea tratteggiata che osservava sulle mappe nei convogli – il tratteggio nella cartografia urbana significa proprio il work in progress – ora sarà unito, almeno per un pezzetto. Lo incontro spesso alla stazione di Repubblica, lavora lì vicino, intento a contemplare la mappa di Milano facendo congetture su una metropolitana circolare – una sorta di grande circonvallazione sotterranea ad anello – in grado di collegare tutti i capolinea esterni per agevolare chi, come lui, vive in periferia.

fenomeno di costume

Standard

– Maestro, presto corra! C’è bisogno di lei!

La bidella Esmeralda viene da qualche parte dell’America latina e non saprei dire altro perché è un tipo di geolocalizzazione antropologica che mi riesce sempre difficile. Per me dalla California in giù sono tutti uguali. Era quasi l’ora di scendere in mensa e in classe stavamo ammazzando il tempo in attesa del nostro turno con le solite richieste di ascolto dei miei bambini. Questo per dire che è inutile che mi scervelli a tentare di ricordare quale video di musica di merda stavamo seguendo alla LIM, anche se questa è stata la mia principale preoccupazione non appena mi sono lanciato fuori dall’aula per vedere che cosa stesse succedendo. Al momento la lista delle priorità vedeva al primo posto il rischio che, concluso il brano in questione, su Youtube partisse automaticamente il pezzo correlato e che le immagini contenute fossero sconvenienti per una scolaresca della primaria. Già me li vedevo i genitori a scambiarsi lamentele contro di me sulla chat di classe perché alimento l’immaginario erotico di quei mocciosi alle soglie della pubertà. Il punto è che la richiesta di aiuto sembrava così urgente che l’ultima cosa che mi è passata per la testa è stata quella di mettere in pausa la riproduzione.

Ho chiesto a Esmeralda di badare ai miei alunni e mi sono precipitato seguendo l’istinto. Ora, non ho un ricordo lucido di ciò che è successo ma l’impressione che ho a posteriori è di essermi trovato nel mezzo di un corridoio umano di gente che invocava il mio intervento e, a dirla tutta, io correvo in quello spazio lasciato dalla folla già vestito del costume da Superman. Mi è bastato quindi seguire il percorso per giungere a destinazione, e in quella manciata di metri ho appreso dalle parole di sgomento di bambini e colleghi tutti i dettagli della missione che mi era stato chiesto di compiere. Nessun insegnante aveva versato il caffè sulla tastiera del portatile di classe. Non c’erano fogli rimasti inceppati nella stampante. Non si trattava dell’ennesima telefonata della segreteria per informarmi di qualche genitore che aveva smarrito la password. Al contrario, questa era roba grossa: Fabio della seconda A è rimasto chiuso nel bagno.

E mentre raggiungevo le bidelle – in servizio con Esmeralda – che mi attendevano all’ingresso dei servizi maschili, già pregustavo la mail che avrei mandato a valle di quell’intervento di salvataggio, indipendentemente dall’esito. L’elenco delle richieste di manutenzione inevase dal Comune ha raggiunto le due cartelle di Word, anzi, di Google Documenti. Oltre ai neon da sostituire e le protezioni dei termosifoni che vanno in pezzi ci sono anche diverse porte difettose, tra cui quella che probabilmente Fabio della seconda A non riesce più ad aprire dall’interno.

Intorno al bagno bloccato c’era già un capannello di curiosi, forse anche i giornalisti e gli inviati della RAI. Le avevano già provate tutte, ma per scrupolo ho tentato come prima cosa anche io con la forza, invano. L’intuizione è arrivata però in modo così tempestivo che, ancora oggi, non me ne capacito, di solito trovo sempre la soluzione sbagliata ma fuori tempo massimo. Ho percorso il corridoio a ritroso verso lo sgabuzzino delle bidelle per recuperare la scala in alluminio, fedele compagna di mille interventi alle lampade delle LIM e al router che più in alto di così non poteva essere posizionato, che ho calato dall’alto nel bagno dando istruzioni a Fabio della seconda A di metterla a terra in modo corretto evitando che scivolasse nel buco della turca.

Quando il bambino è salito, l’ho guidato a sedersi sul muretto che separa il bagno da quello ha fianco, ho riportato la scala dalla mia parte, sono tornato in quota, l’ho aiutato a scavalcare la porta e ho assicurato che fosse con i piedi ben in sicurezza sulla scala dalla mia parte per accompagnarlo a terra. Nel mentre, le bidelle che assistevano all’operazione lo hanno tranquillizzato in tutti modi anche se non ce n’era bisogno perché Fabio della seconda A non si è minimamente scomposto.

Anzi, forse quello da rincuorare ero io perché, proprio nella fase conclusiva del salvataggio, mi sono risvegliato dalla trance in cui ero piombato al momento in cui Esmeralda si era rivolta a me in classe. Fabio della seconda A scendeva con cautela da un gradino a quello inferiore e io pensavo a perché mi trovassi lì, a cosa era successo, al perché indossassi quella stupida tuta blu attillata con una esse sul petto.

come Anders in banca

Standard

Al maestro Tobia qualcuno (o qualcosa) staccò la spina all’improvviso. Ma, come per gli alimentatori dei portatili, una lucina rimase accesa per un paio di secondi durante i quali la testina del riavvolgimento cosmico si posizionò a caso proprio sul momento meno importante della sua vita.

Nessuna traccia quindi del primo bacio dato alla futura moglie durante la proiezione di Jules e Jim che, si sa, non è certo un’apologia della coppia ma che fino ad allora si era comunque dimostrato un film sufficientemente propiziatorio. Stessa sorte per l’indimenticabile istante in cui sua figlia gli aveva stretto l’indice con la manina pochi minuti dopo il parto anche se, dietro il vetro della nursery, qualche ora più tardi si era confuso nell’indicare la neonata giusta ai suoceri, tra quelle decine di culle e relativi contenuti tutti uguali. Nessun flashback di quando, durante una terribile pandemia che aveva costretto tutti a casa, era riuscito a far installare da remoto la piattaforma per la DAD ai genitori della sua alunna egiziana, quella che quando non faceva i compiti di matematica, per farsi perdonare, gli portava in classe i dolcetti preparati dalla mamma.

Contro ogni previsione, la pallina del giro finale di roulette si fermò sullo zero, il numero perfetto per un ricordo di questo rango. Il maestro Tobia è bambino e siede sul ciglio di un prato in cima alla collina su cui sorge la sua casa di campagna, all’ora del tramonto di un venerdì sera di luglio. L’erba è umida, gli insetti fastidiosi, l’aria sempre più fresca, è piena estate e non c’è una nuvola in cielo. Tobia scruta il nastro asfaltato della provinciale, giù nella valle, nell’attesa di scorgere la Ford Taunus marrone dei genitori che fanno ritorno dalla città per trascorrere il fine settimana insieme. Al suo fianco le due sorelle quasi adolescenti che chiacchierano di cose che non capisce, la nonna con lo scialle che lo intrattiene in dialetto, il cane Bill. Poi una forma familiare tra le tante automobili sbuca sul primo tratto di strada visibile. È un puntino colorato, piccolissimo e lontano, ma Tobia non ha dubbi.

 

apparizione

Standard

Sollevai gli occhi dal libro avvertendo un presagio, e mossi lo sguardo verso la porta che si spalancò in perfetto tempismo un istante dopo. La sua figura si delineò in controluce sulla soglia e tutti tacemmo. Giravano diverse leggende su di lui. Dicevano che bastasse il suo avvicinarsi e tutto tornava in vita, altri giuravano di aver assistito a veri e propri miracoli, solo con un suo tocco. Si sapeva quanto fosse sfuggente anche se bastava invocarlo e si manifestava dove c’era bisogno. Il suo compito era proprio quello: essere presente sempre, ovunque e simultaneamente, anche se era uno solo, anche se era solo lui. Si mosse, e in pochi passi raggiunse la postazione. Il silenzio era totale così, quando si sporse leggermente in avanti, si sentì distintamente il rumore dei tasti. Control, alt, canc, invio. Il pc di classe si riavviò, la LIM si riaccese, la lezione della maestra era salva, e l’animatore digitale svanì nel nulla, proprio come era apparso.

arriva la bomba

Standard

Ordine scolastico che vai, puzza che trovi. Nelle classi medio alte della secondaria le ragazze ci danno già dentro con i profumi da profumeria, cosa che manda fuori di testa non pochi compagni di classe, e si gioca un campionato a sé. Nel biennio dicono si stabilizzi l’odore degli ormoni, lo stesso che alla secondaria di primo grado impesta le aule insieme alla puzza di piedi e agli effluvi dei post-bambini la cui igiene non è ancora delle più accurate, con picchi da paura dopo le ore di motoria in quelle scuole all’antica in cui non è prevista la doccia a coronamento delle attività sportive. Le finestre restavano spalancate anche con temperature sotto allo zero già in tempi non sospetti, molto prima che qualcuno in Cina decidesse di mordere senza ritorno un pipistrello e l’aerazione della classe si prefigurasse come una procedura obbligatoria.

Alla primaria, al netto di qualche studente precoce, che è molto più frequentemente una studentessa precoce, il monopolio è ancora di tutte quelle creme da bambini che, a noi romanticoni, ci inducono alla malinconia di quando i nostri figli erano in quella fascia evolutiva. Unguenti, balsami protettivi contro questa o quella allergia, ammorbidenti scaccia-pidocchi per i capelli più ingrovigliati, prime essenze dalle fragranze naturali volte all’affermazione della femminilità in erba. Un paradiso olfattivo per un tripudio dei sensi, almeno fino a quando qualcuno tira la bomba.

Alla primaria tirare le bombe in classe è ancora ammesso. La bomba alla primaria è un fenomeno che si può manifestare per svariati fattori e, a differenza degli studenti più grandi, nessuno lo fa per mettersi in mostra. Dare aria al corpo è considerato ancora un atto liberatorio che, a differenza degli stimoli che portano alla produzione di materia solida o liquida, non comporta l’impiego di un ambiente dedicato. Già in terza si studia lo stato aeriforme che non ha colore né forma, quindi i colpevoli non sono da biasimare, soprattutto perché è molto frequente che la causa sia un disagio fisico, il preludio a qualcosa di grave o di più impegnativo. E poi non tutti ancora si sanno controllare come gli adulti, almeno questa è la lezione che ho imparato perché, da me, ogni tanto capita. Qualcuno tira la bomba e nessuno dice niente, come se quell’atmosfera letale fosse la normalità.

Ma la scuola, almeno la mia, è esposta al rischio di un ordigno ancora più devastante, micidiale il doppio di quella bomba lì. Ho un’alunna che va a casa a pranzare tutti i giorni e, al rientro, bastano pochi minuti che l’aula si saturi di miasmi di aglio misto a odore di fritto. Io non so quale sia la dieta che seguono tra le mura domestiche, e che praticano con così meticolosità da osservarne le linee guida ogni giorno, almeno in quei tre in cui sono di servizio io in mensa e, al rientro, vengo accolto da tutta la tradizione gastronomica della sua famiglia che sublima nell’ambiente didattico, l’anima di un popolo che fuoriesce attraverso i respiri dei suoi rampolli. Le ore pomeridiane ormai hanno un marchio di fabbrica che si riversa tra i banchi e i libri e la LIM, i lavori di gruppo, le tecniche di flipped classroom, la pedagogia di ultima generazione. Una forza invisibile che si deposita su tutte le superfici reali e virtuali ma di cui, e non smetterò mai di sorprendermi, nessuno dei compagni si accorge. Anni di frequentazione dei fast food e di tutto quello schifo che resta appiccicato ai vestiti probabilmente hanno incartapecorito le loro superfici olfattive, o magari stare alla larga dagli olezzi sconvenienti – indipendentemente da quale bomba si tratti – non costituisce ancora una convenzione sociale da rispettare. Ci vivono in mezzo ancora con naturalezza come piccole bestiole per le quali gli odori corporei più forti altrui rimandano in modo innato alla sicurezza del branco. Una sorta di protezione animale, un tratto utile a far fuggire a gambe levate i più feroci predatori. Da questo punto di vista, anzi di odorato, non sono pochi i colleghi che rimpiangono la FFP2 obbligatoria.

glocal

Standard

Se scartabellate su youtube troverete decine di spezzoni video con le gag di un comico genovese che si burla, giustamente, del bizzarro modo in cui si esprimono i savonesi. A Savona coesistono tre lingue: l’italiano con la còcina, la tipica cadenza genovese, laggiù dal flavour un po’ meno brasileiro ma più basso-piemontese probabilmente per il fatto che il lido savonese, con tanto di cargo all’orizzonte e ciminiera Tirrenopower di sfondo, soddisfa da sempre le modeste aspettative vacanziere mordi e fuggi estive dei cuneesi, che riversano sulle strade della riviera di ponente la loro discutibile idea di conduzione automobilistica (soprattutto se muniti di Golf bianca). Una parlata, per di più, il cui effetto è in grado abbattere qualunque slancio di erotismo nei momenti intimi ma che è invece funzionale nei contesti ufficiali e che viene sfoggiata, senza il mimino sforzo di adeguamento agli standard di pronuncia nazionali, da chi ha studiato e dagli intellettuali del posto.

Poi c’è il dialetto savonese, che è un genovese a tutti gli effetti ma con qualche variante locale caparbiamente difesa in onore dell’antica rivalità con il capoluogo reo, secoli or sono, di aver rinchiuso i miei ex concittadini in una fortezza, di aver simbolicamente ridotto in altezza qualche torre pretenziosa in eccesso e di aver interrato il porto tanto che, ancora oggi, non sono pochi quelli che, in visita alle imparagonabili bellezze turistiche della Superba, portano con sé da Savona qualche pietra da restituire alle acque della suggestiva area expo di Renzo Piano.

Infine c’è l’italo-savonese, che è come la lingua che si pratica nel resto della penisola ma farcita di modi di dire che capiscono solo i savonesi e che i locali più presuntuosi – praticamente quasi tutti – ritengono sia intesa ovunque, motivo per cui non si pongono minimamente il dubbio che chi non mastica l’idioma in questione perché originario di altri posti possa comprenderne il senso. Si tratta di un fenomeno strettamente derivato dalla comprovata auto-centralità dei savonesi, veri campioni di campanilismo estremo, che pensano, come dice il comico di cui sopra, che tutto il mondo sia Savona. Mia moglie – che è di Milano – oramai non fa più caso alle volte in cui mia mamma o mia sorella (ma anche se girelliamo per i negozi, su tutti quelli di pasta fresca che a fronte di un conto di 40,02 € di ravioli ti battono sul pos – quando funziona – rigorosamente 40,02 €) si rivolgono a lei nominando certe vie del centro come se si trattasse di toponomastica nota a livello internazionale, per cui una via Guidobono o una via Niella hanno uguale dignità di via Montenapoleone, piazza di Spagna, Time Square e Carnaby Street.

Ci sono poi certe espressioni che lasciano chi le ascolta – e che ha la fortuna di non vivere lì – con un vistoso punto interrogativo dipinto sul viso. Vi scrivo giusto le prime che mi vengono in mente ma spero di tornare su questo vocabolario per aggiornarlo ogni volta che mi ricorderò qualcosa, al netto di certe riduzioni grammaticali – che altrove suonano come veri e proprio strafalcioni – del calibro di “andare a spiaggia” o “ho lasciato la moto dal comune” (nel senso di ho parcheggiato lo scooter nei pressi del municipio) o “prendo la corriera”, quando ci si affida al servizio di trasporto pubblico urbano. Gli autobus, per intenderci.

  • Quando qualcuno si rivolge a te coprendoti di insulti o, comunque, in modo verbalmente acceso si dice “me ne ha dette d’appendere” o “da pendere”, a seconda della vulgata, una formula che io ho sempre visualizzato con l’essere oggetto di così tanti appellativi spiacevoli che, per alcuni di questi, è stato necessario appuntarli da qualche parte – come si fa con i post it – per leggerli con calma in un secondo momento.
  • Se devi metterti d’accordo per incontrare qualcuno e occorre verificare la sua disponibilità nell’orario proposto, si dice “ti mette bene”. Per esempio: “Ci vediamo lunedì? Ti mette bene?” che può essere tradotto con “come sei messo lunedì?”.
  • Se vuoi negare un servizio o un favore a qualcuno perché sconveniente per te, o magari perché con la persona in questione non scorre buon sangue, si usa l’espressione “nei denti” accompagnata spesso dal gesto: si mette la mano di taglio e la si batte due o tre volte contro gli incisivi, tenendo la mascella ben serrata ma con le labbra aperte. Un esempio? “Se Tizio mi chiede ancora la macchina, dopo tutte le volte che l’ha usata senza mettere benzina, gliela presto ancora nei denti” (e qui si fa il gesto).
  • Una ramanzina accalorata e particolarmente estesa si traduce con l’espressione “leggere la vita” che io intendo come un cazziatone unidirezionale talmente lungo in grado di, appunto, corrispondere a un monologo dettagliato della storia dell’esistenza del destinatario sin dal giorno di nascita. “Dopo l’ennesimo voto insufficiente a scuola i miei mi hanno letto la vita” è un esempio sufficientemente calzante.
  • Se non stai bene puoi dire di essere “malpreso”, un termine inesistente nel dizionario della lingua italiana ma utile anche per connotare una cosa fatta male o un esito negativo. Un aggettivo piuttosto diffuso: qualche anno fa, nel corso della puntata su Savona di un programma RAI dedicato alle città di provincia a cura di Concita De Gregorio, un giornalista del posto lo ha usato con disinvoltura durante il suo intervento, come se fosse la più normale delle cose e chiunque fosse in grado di capirne il significato.

compagni di scuola

Standard

Quando ho cambiato lavoro per fare l’insegnante pensavo che mi sarei trovato in un ambiente composto da persone di sinistra e comunistoni. Vivevo nel mito dei docenti ipersindacalizzati, dell’Unità letta in classe, degli scioperi e delle manifestazioni sotto la sede del Provveditorato e del Parlamento. Non so se invece sia capitato solo a me ma nel mio istituto comprensivo, nel migliore dei casi, c’è gente che si fa gli auguri per gli onomastici e bazzica gli oratori mentre, nel peggiore, ho colleghe che vanno in pellegrinaggio a Medjugorje, partecipano alle veglie di preghiera per Formigoni e postano le news dalla convention di Rimini. In occasione delle festività cattoliche le chat sono tutto un batti e ribatti di gif sacre con citazioni del vangelo annesse e, nei momenti più cupi, è facile che ci si rivolga direttamente al padreterno bypassando le funzioni strumentali, lo staff a supporto della dirigente, il vicepreside, la dirigente stessa, il provveditorato, il ministro dell’istruzione e persino sua santità. C’erano persino i novax, quelli contrari al greenpass e tutto quell’underground della disinformazione lì. Il reggente nominato prima dell’attuale preside era un militante ciellino e, quando era nata l’esigenza di attribuire il nome a un plesso della scuola dell’infanzia che ne era ancora privo, aveva proposto al consiglio d’istituto nientepopodimeno che un cardinale locale. Un prelato che poi, a cercare informazioni in rete, non ne usciva proprio uno stinco di santo. Nella mia scuola non stento a credere che la percentuale che supporta il governo in carica – e che sposa in toto i venti di restaurazione che spirano da qualche tempo – sia elevata, e spero che da voi non sia così. Ma basta leggere gli esiti delle recenti politiche e fare due calcoli per capire che, comunque, un sacco della gente che incontriamo per strada –  e che quindi ci ritroviamo al nostro fianco sul posto di lavoro – sta dall’altra parte. Questo vale anche per le famiglie dei miei bambini. A parte i musulmani e il mio dva cinese, gli altri non sono esonerati da religione e frequentano il catechismo con l’obiettivo di smarcare tutte le tappe dei sacramenti. Lavoro in un piccolo paese di provincia con un elevato tasso di immigrazione dal sud, forse il motivo è quello. Magari chi insegna in città beneficia di più della secolarizzazione.

zucche e meloni

Standard

Oramai il culto del travestimento all’americana, quello della festa di Halloween, per intenderci, in questi tempi di stretta alleanza atlantica si è fortemente radicato e finalmente nessuno più si lamenta della meticolosa stravaganza che si sfoggia in giro e del contrasto con la sobrietà che una celebrazione di morti e santi – secondo le linee guida della religione che va per la maggiore – imporrebbe. Oserei dire che Halloween fa parte della nostra tradizione tanto che i più piccini, che non hanno mai vissuto che cosa si celebrava durante il regime comunista spazzato via dalle ultime elezioni, ben se ne guardano da mettere l’osservanza del rito in discussione né più né meno di un natale o una pasqua qualsiasi. La maestra Fiorella l’ho vista uscire da scuola venerdì con tutti i suoi nanetti di prima con il volto coperto da una maschera a forma di zucca, o meglio jack o’lantern, come si insegna nell’ora di inglese, costruita durante le lezioni di arte insieme alla riproduzione di disegni di pipistrelli, ossa di morto e altri amabili resti macabri a tema. Ma da quello che mi è passato in rassegna sui social non ci si concia più solo da rampolli degli Addams. Negli USA si emulano personaggi di ogni tipo, per questo da noi la kermesse dei cosplayer di Lucca, che si tiene simultaneamente in questo ponte che, pur essendo decadente, per fortuna non crolla, è la più appropriata. Ho visto foto nelle mie timeline di amici, conoscenti e celebrità che seguo truccati e travestiti in modo sorprendentemente realistico, e che ci siano persone che dedichino così tanto tempo e cura per celebrare un culto pagano mi riempie di ammirazione e invidia. Io non saprei da che parte iniziare: sono ignorantissimo in fantascienza, fantasy e supereroi, gli unici fumetti che ho letto sono quelli di Topolino e in più mi trovo già grottesco a sufficienza nella mia versione naturale. Ma non è certo per questo che in classe io, di Halloween, me ne stavo quasi dimenticando. La settimana a ridosso del ponte era agli sgoccioli e mi restavano poche ore a disposizione, così ho pensato di leggere una riduzione di “The Canterville Ghost” in lingua originale, una storia che trasmette un po’ di goticità, in modo che nessuno poi, a casa, potesse avere qualcosa da recriminare sul fatto che, in piena restaurazione, non santifico le feste.

generazione generatore

Standard

Quando faccio la solita cernita in classe dei generi conosciuti dai bambini raramente c’è qualcuno che cita la techno. Trap e rap sono i primi due a essere smarcati, e a ruota i più spregiudicati si assicurano, nei successivi tre o quattro interventi, pop, rock, metal, musica classica e jazz.  In mezzo a questo brainstorming c’è sempre qualcuno che prende cantonate, che poi sono sempre le solite: musica italiana, musica romantica, musica strumentale, musica dei cartoni animati, che tutto sono tranne dei generi musicali, ma alla techno non ci arriva nessuno. Mi è successo ancora venerdì: una collega si è presa il Covid – a cosa servono, tanto, le mascherine – ed è toccato a me sostituirla proprio nell’ora di musica. Siamo andati a fondo fino al punk e al reggaeton, per dire, ma di techno nemmeno l’ombra ed era un problema, perché volendo spiegare cos’è il ritmo avevo in playlist un paio di brani dal flavour inequivocabilmente cassa dritta. Il punto è che i trenta-quarantenni di oggi, che sono i genitori dei bambini che ho per le mani a scuola, sono nati e cresciuti con la techno ma probabilmente non la praticano più. Mi sorprende, quindi, quando leggo che ci sono ancora centinaia e migliaia di persone che partecipano ai rave party. Nei servizi dei tg di questi giorni si sentiva come sottofondo quell’indiscutibile marchio di fabbrica in quattro quarti, artificiosi e così spediti che, per stare a tempo, finisce che è meglio stare fermi. Non a caso, nel capannone della disco-rdia un sacco di gente stava lì, imbambolata e attonita, con il bicchiere in una mano e la siga tra le dita dell’altra, rapita a scrutare il suono guizzare impalpabile tra le vestigia dell’archeologia della logistica che fu. Non è la prima volta, né sarà l’ultima, che la folla si raduna in massa al richiamo della musica discutibile.

medio

Standard

La regola per ascoltare canzoni in classe proposte da loro è che nei testi non debbano esserci parolacce. Ognuno deve studiarsi bene le liriche del brano che intende condividere con i compagni e con il maestro per sincerarsi che non ci siano passaggi poco adatti al contesto, pena il divieto di scegliere musiche per due settimane. Poi succede che qualche parolaccia salta sempre fuori perché ci sono termini che alcuni – e probabilmente di conseguenza anche le famiglie che hanno alle spalle – non considerano inappropriati. Fottere, per esempio. Abbiamo ascoltato insieme “Soldi” di Mahmood almeno una decina di volte e quando si ripresenta quel passaggio lì la classe si divide tra quelli che si sorprendono che la didattica ammetta espressioni così colorite e quelli che invece non se ne sono mai accorti o, addirittura, non sanno cosa significhi. Anche nella versione non censurata di “Zitti e buoni”, altro tormentone degli scorsi anni, c’è una parolaccia grossa come una casa. Il punto è che toccarsi i coglioni e fottere, nel senso di fregare, sono vocaboli sconci ma per modo di dire. Ai miei alunni, esposti ai peggio turpiloqui in famiglia, tra gli amichetti del parco e sui social, dico sempre che le parolacce fanno parte della nostra vita e che sta a noi capire il contesto in cui si possono o non si possono dire e si possono o non si possono ascoltare. Nell’arte sono all’ordine del giorno. Ricordo loro che quando è il mio turno di proporre canzoni scelgo sempre un brano diverso di Caparezza e anche lui, ogni tanto, qualche parolaccia ce la mette, e quando succede ribadisco quello che penso.

La cosa che mi fa sorridere è che, al netto della loro infima conoscenza della lingua inglese che risente del fatto che – a differenza delle passate generazioni – ascoltano pochissima musica angloamericana, quando qualcuno propone successi non in italiano fanno a gara a segnalarmi che, nel brano trap o rap in questione, ci sono parolacce in inglese. A ogni selezione chiedo anche se il video si può vedere o no, per lo stesso motivo di contesto, e quando mi indicano l’alternativa alla clip ufficiale che quasi sempre è il lyric video, ecco stagliarsi ben visibile un fuck ogni tre o quattro parole.

Fuck è una parola che tutti riconoscono come scurrile ma, se poi chiedi il significato, nessuno ha assolutamente le idee chiare. Sono quindi giunto alla consapevolezza che il modo più efficace di insegnare le lingue straniere sia insultare il prossimo o imprecare tutto il tempo. Proprio per questo dovremmo dare meno importanza alle parole e non condannarle ingiustamente. Non è vero che le parole sono importanti. Quando le scriviamo sono segni che lasciano il tempo che trovano, anche se si dice che restano. Quanto le diciamo durano un millesimo di secondo e, se siete un po’ sordi come me, è facile anche che ve le perdiate, le sconcezze altrui. Qualche giorno fa Nicolò ha mostrato il dito medio ai compagni che non lo volevano in squadra. Mi sono arrabbiato moltissimo perché invece il gesto si impone come espressione della ragione o dell’istinto ma in ogni caso si fissa per sempre nell’idea che gli altri hanno di te. Ho detto a Nicolò, la prossima volta che succede, di mandare tutti affanculo. La parolaccia è un petardo che esplode, ronzano le orecchie ma tutto torna come prima, pochi attimi sono sufficienti.