disordinati

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La narrazione che impone che i bambini debbano restare relegati nel loro mondo di unicorni e babbi natale vede entusiasti e detrattori anche tra le fila dei pedagogisti e psicologi dell’età evolutiva più titolati, figuriamoci tra la bassa manovalanza che finanziate con le tasse affinché si badi al babysitteraggio dei vostri figli mascherato da scuola pubblica.

Qualche giorno fa, in mensa, mi si è avvicinata Cecilia. Teneva le mani giunte al petto, come si fa nelle fasi parossistiche delle funzioni sacre. Le ha aperte solo al mio cospetto, mostrando tra i palmi un tovagliolo di carta inzuppato di sangue. “Maestro”, mi ha detto con quell’espressione che sa fare solo lei, siamo in quarta, come se dovesse improvvisamente ruotare la testa di 360 gradi, vomitare a spruzzo la pasta pasticciata e parlare al contrario secondo i migliori cliché dei film horror. “Maestro, mi è caduto un dentino”.

In un istante mi è passata davanti tutta la mia vita precedente come dicono che accada in punto di morte. Ho pensato a quando sedevo ai tavoli degli amministratori delegati per definire insieme le loro strategie di comunicazione o quando intervistavo i rettori degli atenei più innovativi per farmi raccontare le sessioni di tesi di laurea in videoconferenza con le università dall’altra parte del mondo. Un istante solo, e poi sono tornato a quella conversazione surreale, io di fronte a Cecilia e al suo dentino insanguinato. “Vuoi gettarlo via o tenerlo per la fata dei dentini?”, le ho rivolto la domanda cercando di mostrarmi il più serio possibile. “No, voglio tenerlo per la fata dei dentini”, mi ha risposto Cecilia, quasi risentita del fatto che pensassi che esiste al mondo qualcuno disposto a disfarsi di una parte di sé e compiere un sacrilegio di empietà senza confronti. Un immotivato sentimento di irriconoscenza a fronte del massimo di gentilezza che, in quel momento, mi sono forzato a dimostrare.

Mi ha punto sul vivo, così stavo per ricordarle che i denti da latte sono forse l’unica cosa che si separa dal nostro corpo e poi ricresce meglio di prima, una grazia di cui però ci è concessa una sola chance. Ma poi non me la sono sentita di mettere Cecilia di fronte alla realtà dei fatti. Anzi, avrei potuto sottolineare, arriverà un giorno in cui, se perdi un dente, dovrai lavorare diversi mesi per avere i soldi per rimpiazzarlo con uno fittizio. Ah Cecilia, dimenticavo: la fatina dei denti è una balla grande come questa mensa che ti hanno raccontato i tuoi genitori perché, a loro, l’hanno raccontata i tuoi nonni dopo che anche i tuoi bisnonni avevano fatto lo stesso proprio perché, come dicevo sopra, la corrente pedagogica da sempre più in voga è quella che vuole sviluppare una scenografia di realtà aumentata intorno ai nostri figli per rimandare il più possibile in avanti lo scontro con l’amara realtà reale degli adulti.

L’episodio del dentino di Cecilia è accaduto a ridosso della Giornata della Memoria e ha riaperto in me – come accade sempre nei giorni che precedono la ricorrenza da quando faccio l’insegnante – i soliti annosi dubbi. A che età possiamo iniziare a mostrare la ricca documentazione che ci testimonia gli orrori e le nefandezze dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani nei confronti di civili innocenti durante la seconda guerra mondiale? I bambini – quelli che frequentano le sale immersive dei cinema con il dolby surround per seguire complicatissimi film di supereroi intrisi di violenza, effetti speciali e in cui spesso non si va tanto per il sottile nell’ostentare la morte e il dolore – possono impressionarsi se esposti alle fosse comuni traboccanti di corpi straziati nei campi di sterminio? Per tenersi alla larga da situazioni pericolose – mi viene in mente il caso della collega che ha mostrato “Love Actually” a un pubblico di quinta elementare, bambini cioè che probabilmente conoscono già, grazie ai fratelli più grandi e agli amichetti più sgamati, la varietà delle categorie di PornHub – c’è tutta una letteratura pensata da gente più esperta di me e voi per traghettare i più piccoli dagli unicorni e babbi natale agli esperimenti sui corpi degli esseri umani del dottor Mengele.

Cartoni animati e film che declassano gli orrori del secolo breve a uno sfondo sul quale si dipanano storie che, di certo, si svolgono come conseguenza ma in cui le brutture che dovrebbero essere il nocciolo della questione sono ridotte al rango di chiose. Anzi, meno di chiose. Un posto che, peraltro, sarebbe già occupato egregiamente dal “Diario di Anna Frank” se non fosse che, di questo libro, non ne è mai stato tratto un film significativo, per non parlare di una serie Netflix (che, lasciatemi dire, sarebbe un prodotto di sicuro successo). Il passo successivo, voi mi insegnate, potrebbe quindi avere come testo di riferimento “Se questo è un uomo” alla secondaria di primo grado, seguendo una scala di propedeuticità della tragedia. Un palinsesto che svecchierebbe un po’ la retorica della Giornata della Memoria riportandone il focus sul fattore centrale che racconterei così ai miei alunni: l’umanità, a un certo punto della storia, un momento nemmeno troppo distante in cui i vostri bisnonni potevano scegliere da che parte stare, è impazzita, e ci sono tutti i presupposti che accada di nuovo.

In giornate come questa, insegnare materie dell’area logico-matematica può costituire una fortuna ed esimere il docente dall’esporsi in rischiose prese di posizione. La collega di religione ha mostrato un cartone disponibile su RaiPlay (che peraltro avevo già fatto vedere io in seconda), quella di italiano si è occupata di alcune letture sul tema. Io ho preferito riportare i miei alunni con i piedi per terra e ho dato loro un’informazione incontrovertibile: la shoah non è stata una favola, la vita non è affatto bella.

Da lì ho collegato – era l’ora di musica – la storia del “Quatuor pour la fin du temps” per tornare a essere marginale all’orrore dei campi di sterminio e mettermi al riparo da eventuali genitori elettori di Fratelli d’Italia, che facendo un calcolo della percentuale considerando due persone per 19 alunni, nella mia classe dovrebbero essere almeno una dozzina. Il “Quartetto per la fine del tempo” è l’apocalisse in musica, composta da uno che aveva capito come sarebbe andata a finire a ridosso dell’apocalisse degli uomini. Ho proposto quindi l’ascolto di qualche minuto della composizione di Olivier Messiaen. Date le premesse – li avevo già traumatizzati a sufficienza con i più cruenti aneddoti su Auschwitz – non è volata una mosca. I miei bambini – come immagino i vostri – sono davvero sorprendenti. Ho chiesto poi l’impressione che ne avessero avuto e qualcuno ha colto perfettamente lo spirito del brano: un’esecuzione senza tempo (intendevano il ritmo) e, soprattutto, molto disordinata.

l’ultimo ballo

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Non riesco a risalire al momento in cui qualcuno ha preso la traccia di “Under Pressure” dei Queen e David Bowie – che poi è l’unico brano dei Queen che mi piace proprio grazie al fatto che c’è David Bowie – lo ha svuotato di tutti gli strumenti e ne ha pubblicato la celebre versione a cappella. Ora che entrambi i cantanti non ci sono più risulta struggente e allarmante allo stesso tempo, ed è un’operazione che ci restituisce la consapevolezza dell’umanità della musica in quanto eseguita attraverso il corpo ma, allo stesso tempo, di quanto il risultato di un processo fisico (quello del canto non pensato per una corale) suoni straziato se privo di altri strumenti di contorno. Di questo take ne ha fatto un uso magistrale la regista Charlotte Wells nel finale di Aftersun e non vi spoilero altro, se non il fatto che il film è un capolavoro, una storia che vi lascerà senza fiato e vi cambierà il modo di vedere certe cose, soprattutto se siete genitori, anzi, padri di una figlia femmina. Io ne so qualcosa. L’ho visto qualche sera fa sdraiato sul divano insieme a lei e non vi nascondo che i pianti e i singhiozzi di entrambi sono durati per tutti i titoli di coda fino a quando abbiamo deciso di passare da MUBI (il canale streaming a pagamento su cui potete trovare il film, il cui abbonamento vi straconsiglio) a qualcosa di più leggero in tv per ricomporci e darci un po’ di dignità. Siamo persone adulte, ormai. La novità è che da quando si è iscritta a scienze politiche c’è stato un bel salto in avanti, rispetto al liceo, in termini di miglioramento della qualità della vita, la mia e la sua. Niente più verifiche senza soluzione di continuità per lei e niente più stress e levatacce alle sei del mattino per me. Sono persino riuscito a convincerla, qualche giorno fa, ad accompagnarmi a fare la spesa. È stata mia figlia a cercare qualche ricetta nuova che spezzasse la routine di quello che si mangia in famiglia, così ci siamo lanciati di una spesa contestuale, pratica a cui non sono abituato in quanto io compro in base alle offerte scegliendo prodotti che, a prezzo pieno, non acquisterei mai. Da quando ho imparato a cavarmela con risultati sorprendenti in cucina abbiamo smesso di concederci piatti già pronti e di arrenderci ai cibi industriali. Considerata l’eccezionalità, all’ingresso del supermercato ci siamo addirittura fatti un selfie che abbiamo condiviso con mia moglie nel gruppo whatsapp di famiglia. Lei Aftersun non l’ha visto, non ama i film in lingua sottotitolati (nemmeno io ma ho fatto un’eccezione). Nonostante questo siamo comunque una bella squadra.

dove si balla

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Mio cugino Piero e io – avremmo avuto dieci o undici anni – avevamo allestito il campo del Subbuteo sul tappeto nell’ingresso della casa dei nonni e ci stavamo dando dentro con le rispettive squadre. Io le acquistavo scegliendole non certo per il prestigio sportivo quanto per la maglietta. Per questo avevo schierato la nazionale del Perù, avrei dato qualunque cosa per poter indossare quella elegante casacca bianca con la banda rossa diagonale. Quella domenica pomeriggio, però, non sapevo di aver condannato i miei mini-calciatori al sacrificio estremo. La vista di nonno Pietro, in quanto a efficienza, era scesa ai livelli del resto della sua testa. Cercando di raggiungere frettolosamente il bagno si era reso protagonista di un’invasione di campo vera e propria e buona parte delle compagini della partita si erano disintegrate sotto la suola delle sue pantofole da casa.

Ho ripensato a quel gigante e alla sua strage involontaria degna di una storiella di Jonathan Swift proprio ieri. Ero in quella che io chiamo aula di musica (un’aula normalissima ma ubicata al secondo piano con tutte le altre aule vuote in cui porto la mia classe quando c’è da fare caciara), seduto come un prof dell’Attimo Fuggente su un banco sotto la LIM, con il pc al mio fianco a mettere su Youtube i brani che i miei bambini a turno sceglievano per ballare. Non avevo notato due flaconi con nebulizzatore di disinfettante sul banco a fianco e, quando inavvertitamente li ho fatti cadere nel cestino della spazzatura sottostante, mi sono spaventato per il rumore inaspettato. I miei alunni si sono messi a ridere, vedendomi così sbigottito e quasi sgomento nel cercare di capire la dinamica di quanto successo. Sono stati loro a spiegarmi l’accaduto e non l’ho presa bene. Com’è possibile che non avessi notato i flaconi dietro di me? Eppure  è così. Invecchiare significa perdere pezzi. La mia sicurezza quando guido, mentre cammino e in svariate altre attività banali e quotidiana vacilla, per non parlare del divario tra l’elasticità e la velocità di pensiero e di intuito dei miei alunni rispetto alla mia. Mi sento pieno di dubbi e capita spesso che chieda a loro di dire e fare le cose di cui non ho certezza durante le lezioni, con la scusa di farli partecipare attivamente.

L’unica cosa che continuo a sapere di sicuro è che hanno gusti musicali davvero di merda anche quando si tratta di compilare insieme una playlist per fare quattro salti a scuola. Sto mettendo in pratica un programma che copra varie dimensioni del rapporto con il suono: dopo la musica nella testa e le emozioni che ci fa provare in relazione a quanto abbiamo intorno (un cavallo di battaglia della didattica della musica alla primaria, che poi, a conti fatti, lascia il tempo che trova); dopo la musica nelle mani con quattro sessioni di drum circle in cui ci siamo spellati palmi e dita come forsennati su tamburi anche se, così piccoli, ottenere anche un singolo istante tutti a tempo è impossibile, terminate le vacanze di Natale sono passato alla musica nella pancia e come ci fa muovere, il cui senso era – come direbbe quel trapper con gli occhiali scuri – “fottitene e balla”. Questo perché li vedo, i miei bambini, mentre ascoltiamo la loro musica di merda seduti al banco che smaniano per scatenarsi muovendo le braccia a ritmo o imitando qualche gesto dei loro beniamini.

Detto fatto. Su diciannove c’erano solo due irriducibili a far da tappezzeria, mentre tutti gli altri – maschi e femmine indistintamente – si dimenavano scomposti e forsennati ciascuno con il proprio approccio: chi voleva far ridere gli amici, chi voleva mettere a frutto il corso di hip hop, chi voleva far colpo su qualcun altro, chi si è lasciato prendere dal giusto spirito e si è lasciato andare. Io sorteggiavo il dj che, di volta in volta, proponeva una canzone. Malgrado alcune fossero assolutamente imballabili, la prima lezione non è stata per niente male. Il problema è che i bambini di oggi, lo saprete meglio di me, sono cresciuti dai genitori con la bulimia da sorpresa continua, decontestualizzata e ingiustificata. Per questo, già alla seconda lezione l’esito non è stato dei migliori. L’attenzione si è dispersa già al terzo brano, si sono formati gruppetti di alunni che parlavano o tentavano mosse per i fatti loro, è aumentato il numero di chi non se la sentiva di lanciarsi in pista, con l’aggravante che la scaletta è stata vergognosa.

Non mi ero preparato a questo colpo di scena, visto l’esito della lezione precedente, ma a scuola l’imprevedibilità è all’ordine del giorno e, se fossi un insegnante con più esperienza, dovrei saperlo bene. Così, quando la ruota del sorteggio è capitata su di me, per recuperare l’attenzione e ristabilire le good vibe dell’ambiente ho pensato di mettere qualcosa di coinvolgente, toppando miseramente. Ho scelto un bel pezzo tamarro di David Guetta e Sia di qualche anno fa, dimenticando che “di qualche anno fa”, per gente di nove e dieci anni, significa prima che nascessero e che il tasso di obsolescenza della EDM è elevatissimo. Come se non bastasse, ho confuso il pezzo. Volevo mettere “She Wolf (Falling to Pieces)” ma, nella fretta, ho messo “Titan” che è altrettanto carino ma ha molto meno pathos. Il feeling si è rotto immediatamente e, per tornare a nonno Pietro, mi sono sentito come lui quando ci metteva i suoi 45 giri di liscio nel mangiadischi per farci divertire ignorando che, dopo l’esibizione di Anna Oxa a Sanremo, niente sarebbe stato più come prima.

in ristampa

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So che ci sono servizi di newsletter o di condivisione contenuti tramite mailing list che permettono di selezionare l’opzione digest e ricevere così un aggiornamento periodico, anziché ogni volta in cui c’è qualcosa di nuovo. La vita è un po’ così. Non si riesce a stare dietro a tutte le cose che ci piace (o che dovremmo) fare quotidianamente, se non con una frequenza se possibile ancora più ristretta, quindi ben venga dilazionare con tempistiche più ampie. Un approccio che suona un po’ come una resa, ma la ragione da sempre è dalla parte di chi si accontenta. Il mio amico Fulvio ed io abitiamo in due città distanti e da tempo ci vediamo sempre solo un weekend a luglio. Mi ospita due o tre giorni e ogni volta l’impressione è che sembra sia trascorsa solo una settimana dall’incontro precedente. Questo perché – e ci abbiamo provato – ci risulta impossibile organizzarci e frequentarci con una maggior continuità. Un po’ come i viaggi che si fanno durante le ferie estive: una persona mediamente benestante come me può permettersi una vacanza lunga all’anno. Questo per dire che, a cinquantasei anni e a essere ottimisti, mi restano una trentina di viaggi e altrettanti fine settimana da Fulvio. La vita, vista dal fondo verso il presente, sembra ancora più striminzita e non ha nulla da spartire con il panorama a perdita d’occhio che si contempla da qui, per questo è meglio rimettere il binocolo dal verso giusto. Si notano più cose belle. Ho conosciuto una persona che, se possibile, è ancora più gentile di me. Mi ha definito cintura nera di un argomento che condividiamo e che è tutt’altro che un’arte marziale. Non avevo mai sentito una metafora così spregiudicata e, se fossa stata espressa da un altro interlocutore, ne avrei frainteso la componente adulatrice se non un carico di aspettative per un impiego a suo vantaggio di una mia (riconosciuta) inclinazione. Nulla a che vedere con quello a cui sta lavorando, da settimane, il mio alunno preferito. Disegna a memoria i profili dei continenti, quindi i confini degli stati che lo compongono, e poi – almeno questo con l’aiuto di Internet – riempie ogni paese con i colori della relativa bandiera. Un’enciclopedia della concentrazione – e della solitudine – a cui dedica ogni momento libero in classe. Ma, si sa, le cose belle hanno una data di scadenza. Il mondo non è infinito (spero di non aver spoilerato nulla) e il corso di scrittura creativa che ho potuto frequentare grazie alla carta del docente è terminato. I corsi di scrittura creativa sono meglio della psicanalisi e creano dipendenza, forse perché creano aspettative, alimentano l’ego, ci danno la possibilità di leggere le minchiate che scriviamo a qualcuno al di fuori della nostra bolla. La scuola a cui ero iscritto, insieme all’attestato di frequenza, mi ha offerto uno sconto del 10% per farne un altro, che è un po’ come quelli che regalavano la droga pesante per fidelizzare la clientela dei consumatori di erba. So già come andrà a finire, questa volta. Ho davanti a me almeno una trentina di corsi di scrittura creativa e non voglio perdermene nemmeno uno, anche se, come vedete, non è che servano a molto.

lapidario

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A scuola il tempo passa in fretta. Basta giungere indenni alle vacanze di Natale che, in quattro e quattr’otto, ti ritrovi a cantare “è finita la scuola” sulla melodia di “Seven Nation Army” varcando l’ingresso, anzi, l’uscita per l’ultima volta prima dei cinque mesi di vacanze estive stipendiate che spettano a noi insegnanti. La velocità della scuola si percepisce in diversi dettagli. Due ore di lezione all’insegnante durano una manciata di minuti. I bambini che giocano scalmanati in classe negli intervalli post-mensa al chiuso in inverno riducono la lunga pausa dopo mangiato al tempo impiegato per sorseggiare un caffè. Al termine delle corpose e piene giornate del lunedì e martedì, quelle che cominciano alle otto e trenta e si prolungano fino alle otto di sera a causa degli incontri di programmazione didattica con i colleghi e organizzativi con gli altri dello staff della dirigente, ci si ritrova di venerdì sera, con un bicchiere di prosecco in una mano e una tartina salmone robiola erba cipollina e pane di segale nell’altra. Il guaio è che, trascorso nemmeno un ciclo completo dalla prima alla quinta, sei già carne avariata da pensionamento. Tutta questa frenesia, che attenzione mica è colpa nostra, rende impercettibili certi dettagli come Axios che, a valle di una migrazione nel cloud, si perde chissà dove i voti e i giudizi di metà corpo docente o Marco Giulio che si scompiscia dalle risate mentre sei voltato alla LIM, pardon, verso la Touchboard a cercare di disegnare un triangolo equilatero a mani nude perché il suo vicino di banco Nicolò imita i movimenti più esilaranti del balletto di Mercoledì. Ma, con la scansione temporale che vi ho riassunto prima, nessuno sa quando sarà Mercoledì perché, ripeto, è facile che di certi giorni, a scuola, non ci si accorga nemmeno.

giustificazione

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L’autonomia è un aspetto fondativo della scuola italiana in entrambe le accezioni sia di autonomia dei singoli istituti sia libertà di insegnamento dei singoli docenti. Per questo dobbiamo andarci piano quando parliamo – a me scappa sempre – di scuola come organizzazione, nel senso di azienda, un luogo cioè in cui le individualità professionali (ciascuna con le proprie peculiarità) concorrono a una finalità comune. Sia chiaro: tutti noi lavoriamo per fornire a bambini e ragazzi la più efficace esperienza didattica possibile per consentire a chiunque, secondo una logica inclusiva, di raggiungere gli obiettivi definiti nell’offerta formativa. Il punto è che in una struttura così articolata e capillare ogni cellula fa quel che vuole, e mi riferisco a chi sta dietro alla cattedra (modello didattico, approccio alla materia, stile di insegnamento eccetera eccetera) a seconda di svariati fattori. I primi che mi vengono in mente sono: attitudine alla professione, carattere, background esperienziale, background formativo, umore, serenità interiore, buon senso, condizioni economiche, ambiente, colleghi, appagamento nella vita privata, rancore accumulato, condizioni fisiche, condizioni psicologiche, capacità di avviare, coltivare e gestire relazioni interpersonali, buon senso, curiosità, disponibilità a mettersi in gioco costantemente, flessibilità, resilienza, pazienza, carisma, attitudine al comando, attitudine a mettersi al servizio di altri, capacità di riconoscere gli ambiti operativi dei vari stakeholder, disponibilità a sottoporsi a perpetuo aggiornamento, e molto altro.

Non è raro trovare quindi qualcuno che fraintende questa complessità per una condizione in cui una volta chiusa la porta dell’aula ognuno fa quel cazzo che vuole. Da docente mi dissocio da affermazioni di questo tipo, ma per qualche minuto – giusto il tempo di giungere all’ultima riga di questo post – facciamo pure finta che sia così. D’altronde non puoi mettere d’accordo decine di migliaia di prof di italiano sul territorio nazionale – per fare un esempio – e imporre per statuto di fare questo, questo e quest’altro canto dell’Inferno anziché quello, quell’altro e quell’altro ancora. A volte non si riesce nemmeno quando ci si trova a programmare gomito a gomito un percorso comune. Come valuteresti Carletto che ha recitato a memoria “L’infinito”? È meglio usare come esempio di moltiplicazione 35×7 o 46×8? È impossibile misurare gli aspetti rarefatti che costituiscono l’essenza dei lavori che hanno a che fare con cultura, sviluppo intellettivo e altre amene caratteristiche degli esseri umani, almeno fino a quando cose come ChatGPT non si ribelleranno a chi le ha inventate e ci scaraventeranno fuori dal pianeta Terra.

Al numero uno della classifica di questi modi di sentire la scuola difficili da conciliare c’è la percezione dei compiti a casa da parte delle famiglie, soprattutto nella variante compiti delle vacanze. Io ne do pochissimi nel weekend perché i miei bambini li metto sotto durante le lezioni e preferisco che si godano il tempo libero per quello che è. Nelle vacanze invece richiedo un impegno maggiore perché, per chi è rimasto un po’ indietro, il rischio dell’effetto tabula rasa al rientro è un dato di fatto. Questo per dire che ho calcato un po’ la mano per la pausa natalizia che terminerà tra qualche ora. Poco fa il papà di uno dei miei alunni di maggior talento mi ha scritto per chiedermi “di moderare le eventuali richieste di espletamento dei compiti assegnati ai ragazzi”. Mi ha quindi ricordato che “il periodo di vacanza è pensato per lo svago, il relax e la famiglia”, aggiungendo che si aspetta che, nell’immediato rientro, “nulla venga richiesto se non una condivisione delle esperienze passate”. Ora chiedo a ChatGPT la migliore risposta da mandargli.

l’ultimo post sui Litfiba

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Tornerei indietro nel tempo solo per convincere i Litfiba a pubblicare nel live “Aprite i vostri occhi” l’intera scaletta del concerto al Tenax di Firenze registrato per l’occasione il 12/5/87 e non invece, come è avvenuto nell’amara realtà, solo i dieci miseri brani presenti, undici se consideriamo separatamente il medley che raccoglie “Vendette” e “Luna”. La tracklist dell’esibizione è ovviamente stata più corposa, come nel resto delle tappe di quel tour (ho ancora il biglietto del concerto del 17 febbraio a Genova a cui ho assistito). Mi sono chiesto diverse volte perché sia andata così. Probabilmente un doppio live sarebbe stato troppo dispendioso, o poco adatto al mercato, o forse al momento della lavorazione non tutte le tracce sono state ritenute di qualità sufficiente a una loro pubblicazione su un disco ufficiale che non suonasse come un bootleg. Dico questo perché l’assenza di “Eroi nel vento” da “Aprite i vostri occhi” è una ferita aperta che ancora grida vendetta. Avrete capito che “Eroi nel vento”, come per miliardi di altri estimatori della band di Pelù, è un brano che amo a dismisura. È una canzone che mi piace così tanto da rendermi faticoso l’ascolto della versione ufficiale in studio presente su “Desaparecido” (che poi dei Litfiba è il mio ellepì preferito, io sono della corrente che già con “17 re” ha iniziato a dissociarsi) perché la presenza della drum machine al posto della batteria mi infastidisce. Qualsiasi esecuzione live infatti può confermarvi il tiro superiore che la ritmica di Luca De Benedittis conferisce a “Eroi nel vento”, ma va detto che l’algida e diafana estetica wave di quegli anni prediligeva giustamente atmosfere più rarefatte e poco rock che solo l’apporto dell’elettronica poteva assicurare. Non credo infatti che la batteria programmata e utilizzata in studio sia stata scelta a compensazione di limiti tecnici degli strumentisti, anche se leggendo in giro sembra trattarsi di una teoria diffusa. C’è chi sostiene che non è vero e che nei brani di “Desaparecido” la batteria abbia suoni sintetici ma sia suonata da un essere umano. Da fonti dirette so che persino in “17 re” è stata utilizzata una macchina programmata (a parte per la traccia “Ferito”) ma non ve lo posso provare quindi la mia opinione vale quanto la vostra. Comunque fatevi un regalo. Cercate su Youtube un’esecuzione dal vivo di “Eroi nel vento” del periodo a cui mi riferisco e ditemi che ve ne pare. C’è questa

che riporta a un fantomatico concerto al Tenax del 14/3/87, tappa che non risulta dagli archivi della band e che, di conseguenza, potrebbe essere proprio la versione omessa su “Aprite i vostri occhi” di due mesi più tardi. La migliore, per me, è la versione suonata in diretta al programma di RaiDue “DOC”
ma, con tutti i tour che hanno fatto prima della svolta tamarra di “Pirata”, chissà quanti se ne trovano in giro.

Ora, come avrete letto in giro, sembra che i Litfiba abbiano definitivamente gettato la spugna, ma il mondo è pieno di artisti che dichiarano di ritirarsi dalle scene e poi ci ripensano, e come biasimarli. Io da sempre sogno un ritorno sulla cresta dell’onda che unisca il suono dei Litfiba degli esordi con il mio desiderio più grande. Una ri-edizione dei primi due album tale e quale ma con le tracce di batteria registrate da musicisti in carne e ossa. Lo scrivo qui, tanto sognare non costa nulla.

sfumature di verde

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Il grande magazzino di mobili e prodotti per la casa ha cambiato il suo “angolo delle occasioni” in “angolo della circolarità” ma, al netto dell’operazione di greenwashing e nei fatti, è possibile trovare ancora la cosiddetta seconda scelta. Ieri ho fatto incetta di piatti a un euro, ma c’era chi valutava di adattare alcune assi in legno a esigenze diverse rispetto a quelle per cui sono state messe in commercio. Gli inservienti li riconosci perché hanno una vistosa scritta sulla schiena, un invito all’empatia che ti fa venire voglia di rivolgerti a loro anche solo per sapere come si chiamano e come stanno, come si sentono alla mercé di quella bolgia. Provo a chiamarli “Hey!” ma c’è troppa confusione e non si gira nessuno. Noi però siamo allenatissimi. Siamo freschi reduci da una visita all’Artigiano in Fiera a ridosso del Natale, a cui è seguito un pomeriggio intensivo al centro commerciale più esteso di Europa, e ora non temiamo più nulla. Bisogna prenderlo com’è: un parco divertimenti a tema, dedicato alla vita quotidiana e al ménage domestico. Lo riconosci dai diversi giochi che si inventano i bambini a seconda dell’ambiente. La scrivania con il computer diventa un ufficio di collocamento. La cameretta con il letto con il soppalco l’Himalaya e le sue vette da conquistare. Peccato che, quando eravamo piccoli noi, i mobilifici erano inviolabili come i luoghi di culto e quando il circo Aiazzone era sulla bocca di tutti eravamo già troppo grandi. Ma qui, la cosa che mi piace di più è il crogiolo di tipologie di famiglie che, metro alla mano, prende le misure alla vita che gli aspetta. Dai singoli appena sbarcati nella metropoli alle coppie assortite in tutti i gusti fino ai nuclei più numerosi, gente come noi che – a differenza dei parvenu che si spostano in SUV da un artigiano all’altro del distretto del mobile alla ricerca del singolo pezzo di design – non può permettersi il lusso ma che non vuole rinunciare al gusto. Noi, come sempre, ci riempiamo il carrello di stupidaggini, cose da nulla a cui solo lo scontrino in cassa conferirà una sostanziosa dignità commerciale. Le solite candele, un paio di contenitori in plastica trasparenti, forchette e cucchiai, gli appendiabiti in plastica. E poi, dopo, le immancabili chips da sgranocchiare in auto durante il viaggio di ritorno, per ungere per bene il volante mentre ripercorriamo la lista delle cose che, pur convenienti, abbiamo lasciato lì.

cocci

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Se avete figli che potrebbero essere miei alunni è bene che sappiate che una raccomandazione che noi insegnanti della primaria diamo ai bambini è di non portare da casa cose di valore, sofisticate o a cui tengono molto. Per i giochi o gli accessori scolastici non è tanto un problema di alimentare l’invidia dei compagni, quanto che è facile che qualche compagno possa danneggiare l’oggetto o, peggio, che il proprietario lo smarrisca in giardino durante l’intervallo lungo. Quindi è meglio che smartwatch, bigiotteria o regali preziosi restino sotto la responsabilità dei genitori tra le mura domestiche perché io non ne voglio sapere niente, e consolare i bambini per la separazione dal regalo rotto o perso appena ricevuto è straziante. Il rischio più grosso però è che quello che hanno portato da casa caschi giù dal banco e finisca in mille pezzi. Voi non avete idea della frequenza con cui la forza di gravità attrae in modo inappropriato cose sul pavimento delle aule delle scuole italiane. Le mie lezioni sono costellate da tonfi e altri rumori di materiale non strettamente didattico che si frantuma sulle piastrelle e il punto è proprio che la fisica è la più acerrima nemica della tecnologia. Un banalissimo temperino in metallo, uno di quelli classici con i due fori uno più grande e il secondo più piccolo, se cade fa rumore e stop. Il maestro fa una battuta, se è già il ventesimo di fila al massimo si indispone un po’. Il bambino lo raccoglie e lo ripone sul banco, pronto per precipitare giù alla successiva inadempienza del maldestro proprietario. Oggi però vanno di moda temperamatite super-accessoriati in plastica delle fogge più disparate: coccodrilli, supereroi, unicorni parlanti, turbomacchine espandibili, vere e proprie stazioni orbitanti dotate di serbatoio trasparente in cui si depositano i resti di matita durante le operazioni di ripristino della punta che, appena toccano il suolo, esplodono in mille frammenti, sporcando il pavimento e causando danni incalcolabili. Il proprietario ci resta male, tutti gli altri scoppiano a ridere, e poi tocca a me deludere il bambino. “Mi spiace ma non si può aggiustare”, oppure “io non ne sono capace, prova a chiedere alla mamma o al papà” o ancora “te lo avevo detto che era rischioso tenerlo lì”. Il punto è che più lo sviluppo di questi prodotti tende alla raffinatezza, maggiori sono i pezzi in cui l’accessorio si frantuma in caso di incidente, e le espressioni dei bambini delusi da questa dinamica e orfani del progresso sarebbero da immortalare come monito per le generazioni future.

mammiferi

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Ci sono persone che hanno il dono di ricavare della melodia anche da rumori che non ricondurresti mai alla musica intesa come bellezza o arte che ci fa stare bene, e mi riferisco a cose come le sirene delle ambulanze che sfrecciano in strada con quel fenomeno acustico per cui, allontanandosi, scendono di un semitono o il bip bip bip delle apparecchiature di monitoraggio che si trovano negli ospedali. Ricordo invece la frenetica cassa dritta del battito del cuore che si percepisce durante un’ecografia e quanto mi sia sembrata più verosimile alla vita quell’involontaria techno rispetto alle immagini di ciò che l’ecografo – che erroneamente avevo definito scanner per deformazione professionale, facevo il copy in un’agenzia di comunicazione e lavoravo a stretto contatto con i grafici che, per digitalizzare la carta, ne facevano ancora ampio utilizzo – trasmetteva sul monitor. Una massa informe di pixel in movimento e in scala di grigio in cui avremmo potuto distinguere il naso, le braccine, i piedini e persino l’eventuale pistolino che poi non c’era perché si trattava di una bambina. Dicevamo di sì e sorridevamo come quelli che fanno finta di capire le battute e ci fidavamo di quello che sosteneva il dottore perché l’importante era che tutto andasse per il meglio. Ma stiamo parlando di quasi vent’anni fa. Chissà oggi, con la realtà virtuale, com’è migliorata l’esperienza di gravidanza degli aspiranti genitori.