plastica

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C’è certa gente che sceglie la macchina per aspetti come il tettuccio trasparente. Vi confesso che per me è la priorità top, e, davvero, tutto il resto è optional. Il rischio, ora, è che mentre guido – specie se c’è bel tempo – mi venga da stare con il naso all’insù a godermi un punto di vista inusuale sul cielo sereno. Un ulteriore fattore di distrazione, come se non ne avessi già abbastanza, come se già non fosse sufficientemente faticoso combattere contro l’angolo cieco che è quel punto tra parabrezza e finestrino dove amano nascondersi i pedoni quando attraversano la strada e le auto che si approssimano alle rotonde. Ci sono persino detrattori del tettuccio trasparente di altro tipo e sostengono che, quando piove, fa un effetto parete in plexiglass dopo la doccia, avete presente? Ho soggiornato in appartamenti il cui proprietario aveva messo a disposizione, per gli ospiti paganti, uno di quegli attrezzi che usano i lavavetri ai semafori per asciugare le superfici trasparenti del box doccia al termine dell’uso. Non scriverò certo qui, in questo posto in cui mi leggono migliaia di persone, che non mi è mai passato per l’anticamera del cervello l’idea di dotarmi di uno strumento in grado di peggiorare l’esperienza d’uso di una delle abitudini più rilassanti della vita. Chi ha voglia, tutto bello pulito e profumato, di mettersi a fare le pulizie? Dobbiamo però partire da alcuni amari dati di fatto: piove sempre meno e, di conseguenza, al massimo il tettuccio trasparente della mia nuova Yaris raccoglierà i lasciti di qualche volatile. E, le docce, sempre per lo stesso motivo, a breve saranno giustamente dichiarate fuorilegge. Una delle domande che mi fanno i miei alunni durante l’ora di scienze riguarda proprio questo principio: gli insegnanti menano il torrone da sempre con il ciclo dell’acqua e allora come è possibile che di acqua ce ne sia sempre di meno? In quale fase del processo si trova la falla?

Un secondo spunto di riflessione sulla difficile relazione tra plastica è acqua può essere ricondotto alle cartellette con i buchi che si utilizzano nei raccoglitori con gli anelli. Nelle scuole italiane ce ne sono quasi più che bottigliette vuote da mezzo litro di acqua di plastica nel mare, ma impiegati di segreteria e docenti che non si arrendono mai alla dematerializzazione dei documenti continuano ad acquistarne, sui cataloghi di prodotti dedicati alla scuola più blasonati. Saprete meglio di me, tra parentesi, che non è che il personale scolastico può comprare come vuole su Amazon, vero? C’è tutta una procedura da seguire che talvolta si protrae per mesi rendendo l’acquisto, una volta portato a termine, superato.

Comunque l’impiego che si fa di queste cartellette è vario ma, nelle scuole come la mia in cui c’è personale coraggioso che si batte per abolire le fotocopiatrici, inizia a palesarsi un problema di inutilizzo e conseguente surplus. E sono sempre più comuni i cartelli di segnalazione manoscritti dal personale ATA e posizionati in esterno, collocati dentro una cartelletta di plastica con il bordo con i buchi, con l’obiettivo di proteggere il contenuto dell’avviso dalla pioggia. Pioggia che, anche se rara, finisce per introdursi dentro e ad annacquare l’inchiostro dei pennarelli con nuance sorprendenti. C’è anche chi sostiene che i raccoglitori con gli anelli siano pericolosi per gli alunni delle classi più basse, probabilmente qualcuno si è fatto male, in passato, o si tratta solo di una leggenda metropolitana come centinaia di altre che riguardano la scuola italiana.

le canzoni sono sempre lì

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Qualche centinaio di anni sarà sufficiente a dimostrarci – e confermarci – se l’avere tutte le informazioni sempre e subito a disposizione sia un bene o un male. Saremo esseri viventi con la mente atrofizzata o forse no. Liberi dal fardello del dover immagazzinare dettagli e procedure saremo iper-efficienti perché in grado di dedicare il 100% delle nostre risorse a mettere a frutto lo scibile umano e ad applicare tutto quello che in migliaia di anni abbiamo scoperto, interpretato e prodotto solo al momento in cui ci occorre. Al momento i contemporanei, lo sapete, si dividono tra entusiasti e detrattori. Di certo, in questa fase di trasformazione digitale, la coesistenza di antichità e modernità sembra sfuggirci di mano. I fenomeni che stiamo vivendo sono troppo diversi dai modelli che ci sono stati trasmessi nel passaggio di consegne dalle generazioni precedenti e applicare delle best practice non è per nulla facile. Il fatto è che i luoghi in cui conservare le informazioni e gli strumenti per consultarle sono sempre esistiti. Piuttosto è la portatilità del sapere che non riusciamo ancora a gestire. Oppure il modo lo abbiamo trovato ma la narrazione che ce ne fanno i nostalgici ci mette in difficoltà.

La percezione che abbiamo della musica trasmessa alla radio ha seguito lo stesso destino. Per anni abbiamo pensato che tutte le canzoni composte e pubblicate al mondo fossero lì dentro, da qualche parte, a disposizione di un intermediario che – per gusti propri o dinamiche commerciali imposte dalle case discografiche o altri complotti troppo elevati per essere compresi dalla massa – aveva il potere di riesumarle o lasciarle sopite sugli scaffali. Oggi ciascuno di noi ha a disposizione la propria radio personale che, come fanno i liceali con le versioni di latino che rintracciano nelle occasioni in cui ancora qualcuno chiede loro di mettere in pratica le regole di traduzione, evoca secondo un palinsesto il più in linea con i propri gusti. Il rischio è, come saprete, che manchi l’intermediario esperto in grado di ampliare le conoscenze dell’ascoltatore che, abbandonato a sé, finirebbe per non aggiornarsi più. Un rischio che abbiamo accettato di correre, sacrificando il richiamo dell’ignoto alla comodità. Il punto è che nell’abbondanza delle scorte – le piattaforme di streaming contengono qualsiasi rumore emesso dalla totalità degli esseri umani dalla loro comparsa sulla terra – non ci siamo ancora abituati al fatto che le canzoni sono sempre lì. Per questo ci sono ancora individui a metà strada di questo processo di cambiamento, persone che acquistano musica su supporti fisici (ma la stessa cosa vale per i libri o i film o per l’arte o per le cartine geografiche o anche solo le fotografie) per possedere le canzoni. L’equivoco è che la ricchezza consista ancora nella proprietà privata delle cose che ci piacciono per poterne disporne in ogni momento. Da qualche anno ascolto una stazione radio che è molto in linea con i miei gusti. Non ci sono speaker inutili ma è una infinita playlist piena di musica di cui sono in possesso e di altra tutta da scoprire. Non c’è molta differenza tra questo modello e Spotify, ma l’ascolto a sorpresa di un pezzo che amo è un piacere che continua a non avere confronti.

abbastanza buoni

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Al mio supermercato preferito non è possibile utilizzare più di 8 buoni pasto elettronici a spesa. Una legge non scritta che contiene più di un paradosso. Il primo è che un lavoratore dipendente che beneficia di ticket restaurant (per la cronaca, in famiglia non sono io. Si è mai visto un insegnante di scuola pubblica ricevere dei fringe benefit? E poi la mensa della mia scuola non è niente male), cioè assegni pensati per consumare un pasto in pausa pranzo, possa utilizzarli per fare la spesa in un supermercato. Il secondo è che possa utilizzarne più di uno a scontrino per una cifra sovradimensionata per un pasto in un giorno lavorativo. Il terzo è che, anche considerando un conto così salato, vi sfido a trovare un lavoratore dipendente qualsiasi disposto a concentrare quasi la metà del suo budget per i pasti in un colpo solo. Chi è che va da Cracco a pranzo in un giorno feriale per farsi un’insalata e mezzo litro di minerale gassata? Il quarto paradosso è che non ci sia un sistema che controlli (e contestualmente impedisca) che il lavoratore impieghi il proprio ticket per fare la spesa. Certo, io potrei acquistare alimentari al supermercato da preparare e consumare in un locale adibito a cucina in ufficio, non fa una piega. Il quinto è che, con i ticket, al supermercato non possa acquistare alcolici. O, meglio, possa acquistarli ma in una giusta proporzione con il resto della spesa, il che significa che – è il mio caso, anzi, il caso dei buoni pasto che percepisce mia moglie da 7 euro ciascuno – non possa utilizzare 56 euro per scontrino solo di birra o vino. La quantità di bottiglie è a discrezione del cassiere o di un sistema automatico che qualcuno ha programmato nel software delle casse che associa i codici a barre dei prodotti al relativo costo. Un dato molto aleatorio e che varia a seconda non solo della catena ma anche del singolo punto vendita. Lo so perché, a ridosso del Natale, abbiamo dovuto consumare in fretta e furia decine di ticket in scadenza a fine anno e abbiamo girato tutti i centri commerciali della zona. Il sesto è che nessuno, alle casse, controlla se hai già utilizzato gli 8 buoni pasto per spesa in spese già portate a compimento nella stessa giornata o nello stesso punto vendita. Nel tour de force che ho descritto poco fa, abbiamo suddiviso la spesa in piccole spese da 7 euro per 8 buoni per volta. Pagavo, svuotavo le borse in macchina e rientravo per un altro giro. Ingenuamente ho chiesto a una cassiera se fosse possibile comprare così e questa, un po’ risentita, mi ha risposto di sì ma che non glielo dovevo dire, lei non voleva saperlo, e questo è il settimo paradosso, considerando che i sistemi per esercitare il controllo su un processo di questo tipo non mancano. E poi c’è l’ottavo, come gli 8 buoni pasto per volta. C’è una catena (al momento me ne risulta solo una) che permette di usare i ticket anche per prodotti non necessariamente alimentari e in un numero illimitato per spesa, ma poi applica un extra-costo in percentuale sulla spesa complessiva. Il nono, e poi ho chiuso, è il paradosso che li raccoglie tutti: il welfare da poracci fa acqua da tutte le parti. Mettete il corrispettivo in busta paga e lasciate scegliere al dipendente cosa farne.

i racconti del centodieci

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Ale e la Betta hanno litigato. Non c’è da stupirsi, tra vicini di casa è normale. Il condominio è uno dei pochi ambienti in cui è impossibile scegliere di chi circondarsi, un po’ come quando prenotiamo il posto sul Frecciarossa. Questo è il motivo per cui i ricchi comprano le ville isolate, ma se fossi miliardario preferirei un appartamento in uno di quei palazzi pazzeschi che hanno costruito a City Life. Vivere da solo non mi fa stare tranquillo. Ale invece ha venduto il suo trilocale – è praticamente il mio dirimpettaio – per comprarsi una casetta indipendente a qualche centinaio di metri da qui. Dice che, anche se sono solo in tre, oramai ci stavano stretti. In realtà se ne va perché è stufo delle dinamiche che si sono create da quando ci siamo messi in pista per ristrutturare il palazzo, fruendo dei benefici del 110%. La cosa strana è che Ale e la Betta erano della stessa fazione, qui nel condominio. Ma ne sono successe troppe, non ve le sto nemmeno a raccontare, e all’ultima assemblea hanno rotto. La notizia mi ha talmente scosso che me lo sono sognato. Chiamavo a casa di Betta, rispondeva suo figlio e chiedevo di parlare con il padre, anche se non vive più con loro. Il figlio ha poco più di vent’anni e sembra uno di quei trapper che salgono sul palco con la tuta stretta alle caviglie, il borsello e i capelli rasati sui lati. Anche lui ha una parlata come tutti i bulletti della periferia milanese, e mi metteva in attesa, probabilmente per chiedere qualcosa alla Betta. Poi, nel sogno, scendevo nel parcheggio sul retro e c’era Ale alle prese con il trasloco. Guidava una strana moto militare a tre ruote con vistose gomme da cross e un carrello a rimorchio colmo di mobili. Procedeva in retromarcia verso un prato in cui c’era un edificio in costruzione, ma i pneumatici slittavano per via dell’erba molto alta. Tutto intorno sembrava una di quelle foto dell’hinterland negli anni del boom economico che ogni tanto qualcuno pubblica in giro: ragazzini che giocano negli ultimi campi non edificati a ridosso dei quartieri dormitorio, il tutto in bianco e nero. Vi do un consiglio: se vi propongono di mettervi in ballo con il 110, rispondete di no, e per convincere i vostri condòmini vi autorizzo a leggere a voce alta i miei racconti alle vostre assemblee.

badge

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I seggi elettorali si allestiscono nelle scuole perché è un vero e proprio format. In ogni buco di culo – passatemi il termine – c’è almeno un edificio scolastico, un immobile cioè di proprietà dell’amministrazione comunale o ente pubblico con una struttura adatta a ospitare le elezioni, una location dotata di ambienti sufficientemente ampi e spazi adatti a permettere alle persone di stare in attesa del proprio turno, il tutto con criteri di sicurezza approvati e consolidati. Almeno, questa è la mia opinione, ma mi sembra plausibile con un livello accettabile di credibilità. Ogni anno si vota per qualcosa, a volte ci sono elezioni più ravvicinate, sta di fatto che le scuole coinvolte – sono quasi sempre secondarie di primo e secondo grado – restano off-limits per un paio di giorni. Gli studenti sono contenti, i genitori no, i colleghi docenti così così. Di certo non si potrebbe votare nella sede di partito, o negli istituti religiosi come la Piccola Casa della Divina Provvidenza “Cottolengo” di Torino, che ha il solo vantaggio di consentire, a chi vi è stato assegnato, di incrociare uno scrutatore decisamente fuori dal comune.

Il Covid e l’esperienza dei centri vaccinali ci hanno però insegnato che non è complicato allestire hub temporanei per una funzione specifica. Pensate a un drive in elettorale, per esempio. Oppure le grandi palestre. Nel mio paesello ci sono diverse strutture sportive in cui si potrebbero ricavare numerose postazioni, a partire dal palazzetto dello sport. Prenoti il tuo turno in modo da non creare intasamenti e inutili code, vai, voti, ti mettono il timbro sulla tessera e torni a casa. Un sistema che consentirebbe di avere in anticipo anche i dati sull’affluenza.

Uno dei motivi per cui mi piace andare a votare è anche perché il mio seggio è ubicato nella scuola media che ha frequentato mia figlia. Aveva un team di docenti uno peggio dell’altro, tra cui diversi militanti di comunione e liberazione. Nonostante questo, rivivo con piacere quei momenti e mi piace pensare che il mio seggio, il numero 17, si trovi proprio nella sua classe. Magari l’urna la poggiano proprio sul sul banco. Pensate: forse, raschiando un po’ la formica, si intravede ancora il suo DNA.

Sono andato a confermare la mia preferenza per Maiorino domenica verso le 19. Il seggio era desolato, un ton sur ton con le desolanti previsioni sull’esito. Mia moglie ed io ci siamo messi a scorrere con il dito su un poster l’elenco dei candidati del PD per decidere chi indicare nella scheda. Accanto a noi c’era una giovane coppia sorridente con due figli piccoli che faceva lo stesso, ma nella colonna della Lega. Ho pensato che è incredibile perché sembrano persone normali come me e voi. Chissà qual è il meccanismo che li trasforma in bestie, a un certo punto della loro esistenza.

Per fortuna mi hanno salvato il Beppe e sua moglie, i rappresentanti di lista. Da quando la band che si ispira a loro è sulla cresta dell’onda, attirano le maggiori curiosità dei quattro gatti che si presentano all’appuntamento con il dovere civico. Li riconosci perché sfoggiano il badge con il simbolo del partito a cui sono iscritti e stanno lì ore e ore, oltre per funzioni di controllo, anche per rispondere a domande sulle modalità operative. Da me, gli esponenti del partito democratico che si prestano a dare la loro disponibilità sono sempre gli stessi. Una certezza. Ci sono sempre loro due accompagnati da un terzo ultrasettantenne, e sono gli stessi che poi li vedi mentre danno una mano a cucinare e servire ai tavoli della festa dell’Unità.

Vi confesso che non ho mai preso la tessera, ma ho deciso che se vince Elly Schlein alle primarie quest’anno mi iscriverò. Non credo che con la sua elezione cambierà qualcosa, inutile snocciolare qui tutti i motivi per cui siamo un partito di perdenti a vita, ma ci sono tutti i presupposti per dare un segnale, anche se non so di che cosa. Però sto diventando vecchio, come la media degli elettori del PD, sono un insegnante della scuola pubblica, e in generale tira una brutta aria.

Compiuto il mio dovere, ho scambiato due battute con il Beppe e sua moglie, i rappresentanti di lista del PD. Avevo dei dati sulle primarie (danno Elly Schlein favorita) che ho condiviso con loro. Non li ho visti sorpresi della notizia, e quando mi hanno risposto di tifare per Bonaccini ho capito il perché. E questo è il mio principale difetto: credo sempre che tutti la pensino come me, e quando scopro che non è così, davvero, non capisco come sia possibile.

maxirata finale

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Salvatore alla fine ha deciso di tenerla. La vita, dico. Alla fine Salvatore ha deciso di tenerla. La formula gli era stata prospettata come la più adatta al suo profilo di essere umano: hai un bene che ti godi a spanne per un’ottantina d’anni, sempre che non ti capiti qualche incidente. E se sei uno che non ama i cambiamenti, gli aveva detto il venditore della concessionaria, non ti verrà mai in mente di restituirla dopo appena quattro anni come fanno tutti oggi. Versano un acconto – poche lire -, pagano una rata sostenibile per 96 mesi e poi la riportano indietro, tanto il contratto prevede la supervalutazione garantita dell’usato. A quel punto scelgono che fare. Possono sostituirla con un nuovo modello e ripartire da capo e continuare a fare così per tutto il resto del tempo che gli rimane. Una sorta di leasing, per chi ci tiene ad avere sempre una nuova possibilità. Oppure versare la maxirata finale e diventare proprietari. A Salvatore, invece, la vita serviva per il motivo per cui tutti, bene o male, ne abbiamo almeno una, nuova o usata che sia. Si era informato, aveva simulato tutti gli scenari possibili, ma poi era giunto alla conclusione che tanto valeva comprarla subito, come si faceva una volta. Come avevano fatto i suoi genitori, i suoi nonni, e tutte le generazioni di persone che si erano avvicendate prima che qualcuno si inventasse che era necessario dare una svecchiata. Le ha tirato il collo – dovreste vedere le cifre sul cruscotto – ma poi, a quella che doveva essere l’ultima revisione, non se l’è sentita di darla indietro per un nuovo modello, considerando che il destino di quel catorcio era segnato. I parametri europei non lasciano scampo, e il rischio era di non poter più mettere il naso fuori di casa senza beccarsi una contravvenzione. Le rate le aveva finite da un pezzo, e un po’ ci si era affezionato. L’ha messa nel box e l’ha tirata a lucido, con l’impegno a metterla in moto e concedersi qualche sgasata la domenica mattina come fanno quei fanatici con le auto d’epoca che le muovono solo per partecipare ai raduni. A quell’età, Salvatore non ha bisogno di altro. Ha stampato decine di foto, i momenti in cui a bordo della sua vita insieme a lui ci sono le persone più importanti con cui ha condiviso un pezzo di cammino, e si è fatto preparare qualche album da uno di quei siti in cui puoi impaginare le immagini come preferisci. Poi va giù in garage e si siede sul sedile del passeggero, quello che per la maggior parte della sua esistenza è stato occupato da una persona molto importante. Si accende una sigaretta, mette le sue canzoni preferite, e ripercorre, foto dopo foto – senza fretta di arrivare – tutti i giorni che gli va.

Festival di Sanremo 2023, le pagelle della terza serata

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Se bazzicate i palasport dove giocano le partite della massima serie di volley femminile non vi sarà sfuggito il sottofondo musicale a corollario del meraviglioso spettacolo agonistico. Si sentono svariate hit e tormentoni – che capiscono solo gli appassionati della pallavolo – durante il riscaldamento e nei momenti di fermo del gioco. A ridosso del campo è facile scorgere una sorta di MC che mette canzoni e stacchetti, più o meno sempre la stessa roba in ogni partita e indipendentemente dalle squadre che giocano. Servono per scaldare il pubblico e per dare quel valore aggiunto che la musica conferisce a ogni cosa. La playlist delle partite di volley comprende quasi obbligatoriamente la sigla del celebre cartone “Mila e Shiro – Due cuori nella pallavolo”, come se non bastassero già i cori degli ultras a ridurre i gradi di separazione tra il Festival di Sanremo e la Lega Volley Femminile. Nel corso del suo monologo, Paola Egonu ha citato proprio quell’anime come punto di partenza della sua carriera. Ecco, se stasera ho deciso di fare ancora le ore piccole davanti al Festival è solo per lei. Ne approfitto così per dare un secondo ascolto alle canzoni, potrei confermare o ribaltare con il mio voto il risultato. L’importante è crederci.

Durante la sigla iniziale Morandi accenna un passo di drum’n’bass, vi giuro che l’ho colto in flagrante. Da solo, sul palco, snocciola un po’ di facts and figures su Amadeus che, a onor del vero, se li merita tutti. Però, cari lettori, con voi voglio essere onesto. La canzone di Tananai l’ho ascoltata più volte, oggi. Ieri sera mi sono addormentato proprio a ridosso della sua esibizione ma mia moglie mi aveva assicurato che non fosse male. Ho visto il video e sono giunto alla conclusione che, in effetti, è davvero la migliore e spero che Tananai vinca. Ben mi sta. La prossima volta imparo ad addormentarmi sul più bello. Confronterò poi i giudizi di oggi con quelli delle precedenti serate per vedere se, come dicono in giro, sono davvero un cialtrone. Così, per darmi un tono, vi faccio notare che la scenografia, dall’alto, sembra un po’ il Guggenheim di NYC. Aggiungo – non lo avevo ancora detto – che ho una passione smodata anche per Ema Stokholma – un paio di volte fa capolino – che parte dalla voce e si dirama per tutto il resto.

Paola e Chiara: chi ben comincia è a metà dell’opera. Ma la canzone mi si conferma nella sua bruttezza, e solo ora mi arriva il link con gli anni 90 e con la trasmissione Furore di Alessandro Greco. Potrebbe davvero essere sul serio la sigla di un programma trash. Prendono un paio di stecche e, verso la fine, mi viene in mente che lavoravo in un ufficio ubicato a fianco di una palestra (nei pressi di Piazza della Repubblica) in cui, dicevano, ci fosse la possibilità di incontrarle. Io non le ho ma incontrate, forse perché in quella palestra non ci ho mai messo piede.

Mara Sattei, che poi è la sorella di Tha Supreme, quando canta noi boomer non capiamo una mazza. Probabilmente sono quelle frequenze che colgono solo i più giovani. O forse basterebbe fare un corso di dizione e aumentare di una tacca il microfono. Il pezzo tuttto sommato non è male.

Rosa Chemical: il fratello minore di Achille Lauro stasera indossa un completo geisha con braccia finte alla Elio e le storie tese e un dolcevita in vinile rigido rosa confetto. Quando il mondo si tatua le sopracciglia, lui si tatua le basette. In quota a quelli che fanno le rime equivoche con cose del tipo “Sono un bravo cristiano/ma non sono cristiano” (vedi sotto alla voce Tananai).

Gianluca Grignani: stasera sembra ancora di più un mix tra Califano e quell’attore che faceva quei film tipo “Sapore di mare” di cui mi sfugge il nome ma stateci. Morandi mi conferma che è un brano dedicato a suo padre. Canta come se non dovesse finire la canzone ma dimenticarsi prima le parole o scoppiare in lacrime in anticipo sulla fine. E infatti si blocca ma è per un problema tecnico e deve ricominciare. Un abbattimento ignorante della quarta parete, uno dei miei peggiori incubi.

Poi scende la divina Paola, che da giorni me la immagino indossare una stola con scritto “Pensati opposto”. È bellissima e bravissima, ma non riesco a essere oggettivo con lei.

Levante: dopo il sogno eretico di Caparezza ecco il suo sogno erotico. Confermo la difficoltà di decifrarne i segnali. Vuole troppo essere Florence Welch (quella di Florence and The Machine). La canzone non è brutta, le scarpe che indossa sono molto peggio.

Tananai. Come ho detto prima, canta la canzone la più bella di questa edizione. Dice “eravamo da me abbiamo messo i Police era bello finché ha bussato la police”. Questo modo sfacciato di usare le rime equivoche senza vergogna dei giovani d’oggi ha dell’incredibile. Io spero che vinca lui.

Lazza: vestito malissimo, peccato. Al secondo ascolto mi piace di più di prima. “Primo in classifica ma a me non importa, mi sento l’ultimo come persona”, è un inno all’autodistruzione. Cenere siamo e cenere sanremo, che è un po’ la versione millenial de “La fenice” di Santandrea, ma scommetto che non se la ricorda nessuno. I fiori alla mamma gli valgono il primo posto nella vita.

LDA: non può pagare il fatto di essere il figlio di Gigi D’Alessio, però un po’ sì dài. Lo sarà per sempre, c’è poco da fare. Il suo sangue ricadrà su di loro. dicevano. C’è poco da fare, la canzone è comunque pessima.

Rage against the Maneskin: ricordo solo che Pitchfork gli ha dato due. Che sfortunato, Tom Morello.

Madame: Ama fa una sinossi della canzone e mi accorgo di non aver capito un cazzo. Ci riprova con gli stivaloni e il taglio alla Alice di Per Elisa ma, ormai, ci siamo abituati. Me la ricordavo più bella, la canzone. Ora ho Tananai nella testa e non sono più oggettivo.

Sangiovanni Morandi: “Fatti mandare dalla mamma” è così vecchia che ora si intitola “Fatti mandare dalla nonna”. Forse il momento più nazionlapopolare della storia della tv italiana. In confronto, le magliette militari di Zelensky sono genuine. Per fortuna è una canzone pensata con tempi di radio edit risicatissimi, quindi dura il minimo necessario.

Annalisa: un’altra come Giorgia. Voce pazzesca prestata a canzonette indegne. Ma non è in gara.

Ultimo: non vorrei ripetermi ma purtroppo, al momento, non è ultimo in classifica. Riesce a farmi addormentare ma non si ripeterà l’effetto Tananai.

Nel frattempo sono le undici e non siamo nemmeno a metà gara.

Elodie: non si capisce perché arriva sudata sul palco anche senza aver ancora mosso nemmeno un dito. L’inizio sembra “C’est la ouate” che, al netto della storia narrata dal testo, suona come un aut aut.

Mr. Rain: torna Jim Carrey con i suoi pinguini che però sono bambini. La bambina che era scoppiata in lacrime alla prima serata, alla seconda tiene botta. Vivo con il terrore che qualche collega, a scuola, un domani lo proponga come canto per qualche giornata della pace o dei calzini sbagliati. Ci vuole poco a travisarne l’intento. Vi prego, fatelo per me, non votatelo.

Oh no, tocca di nuovo a Giorgia. Ci sono poche canzoni così sgradevoli e cominciano tutte con il piano finto del DX7. Provate ad ascoltarla con attenzione. Fa la veterana – può permetterselo – ma preferisco la freschezza dei debuttanti.

Colla Zio. Acc, li avevo rimossi. Mi fanno venire voglia di ballare anche se non capisco perché siano così in tanti per una canzone che ne basterebbe uno. Sicuramente i peggio vestiti.

Ed ecco il predestinato. Marco Mengoni ancora più Village People di martedì scorso. Proprio senza ritegno, ma la canzone mi piace di meno. Peccato, avrei potuto salire sul carro del vincitore.

Gue Pechegno: ho messo il mute per non sentirlo tanto lo disprezzo, e ho scritto apposta male il suo nome d’arte. Il silenzio mi ricorda però che perderò la serata finale: ignaro delle date del Festival, ho accettato l’invito a una cena per i sessant’anni di un caro amico e non posso tirare il pacco.

Colapesce e Di Martino: sublimi ma solo per non sentire il peso delle aspettative. Saranno primi e l’ho già detto di altre due canzoni. Vedremo. Ah ma lo splash è quello che ha fatto Salmo? Mica avevo capito.

Monologo di Paola Egonu: boh, io la amo.

Coma underscore Cose: pare che si sposino e di questo ne sono felice. Perché allora cantano l’addio? Anche questo ha l’aria di un brano di cui sentiremo parlare fino allo sfinimento. Piace anche a me, pensa un po’. Quello che mi disturba della loro musica è che fanno ‘ste melodie elementari su ‘sti giri di accordi elementari. A furia di semplificare il pop, che cosa resta?

Restano ancora undici canzoni, ed è mezzanotte. Non so se ce la faccio, anche perché da qui in poi c’è poca roba che mi interessi.

Leo Gassman in canottiera: ma puoi? Sarà anche manzo, ma che razza di tamarro. Non ricordo cosa ne avessi scritto, so solo che la canzone mi piace meno di prima. Però colgo lo zampino dei pinguini-cosi-là perché la metrica ricorda il pezzo su Ringo Starr.

Cugini di campagna: cantano la ventiduesima lettera, così dicono, mentre io credevo c’entrasse la macchina da scrivere. Sono contrario agli anziani sul palco, sono patetici e non sopporto che si tolga spazio ai giovani. Per fortuna la mano artistica della “Rappresentante di lista” rende superfluo l’interprete. Lì, avvolti in quei costumi glitterati, potrebbe esserci chiunque. Il fatto è che non mi ci vedo ad ascoltare gli autori di “Anima Mia” nel 2023.

Olly: chi era, più? Vestito da gangster ai tempi del proibizionismo, mi colpisce perché ho completamente rimosso la sua canzone. Poi parte ed ecco l’autotune che individuo come la causa che me lo ha reso inviso. Fa quel genere che fa Blanco e fanno tutti, per accontentare il mercato. Come biasimarli. Ha il codice 20. Dai che ci siamo quasi.

Anna Oxa torna sul palco con un altro look post-apocalisse, uno di quei costumi che usano nei film catastrofistici americani quando in un futuro distopico il mondo è bello che finito e i sopravvissuti vagano per trovare di che sopravvivere. Tenete conto che tutto sarà contaminato, quindi bisogna andarci piano e eh? Come dite? Ah, Anna Oxa. Una merda. Il pubblico però va in delirio.

Articolo 31 in rosso: provate a cantarci sopra una dei numerosi tentativi di tormentone a tavolino dell’estate di J-Ax, avrete delle sorprese.

Per Ariete provo a leggere il labiale. Peccato il microfono davanti alla bocca. Canzone da biennio delle superiori, non oltre.

Sethu: ho capito: è David Zed con il costume da cantante di Amici in pausa pranzo.

Shari: non ce la faccio più, la promuovo, magari così finisce velocemente. Eppure ha un suo perché. Non ricordo in che posizione sia, qualunque sia merita di più. Dai che ne mancano tre.

Gianmaria De Filippi: la somiglianza con la madrina della tv spazzatura è inquietante e mostruosa, giusto per richiamare il titolo del suo brano. Lo trovo un artista interessante sin dai tempi di xFactor, ma chissà se penserei la stessa cosa se non avesse coverizzato i CCCP.

Modà: no, vi prego, a quest’ora non credo di riuscire a sopportarli. Cambio canale ma vi prometto che torno su RaiUno per l’ultimo concorrente che non mi ricordo assolutamente chi sia. I Negramaro dei poveri, ma devo averlo già detto. C’è il rischio a qualcuno piaccia.

Will: ultimo ma non quanto Ultimo. E canta “Stupido”, ma non quanto ultimo. Codice 28, per chi volesse votarlo. Ah no, non potete, ormai è tutto chiuso. Ha un’escalation nel pre-ritornello in linea con l’aggressività tipica della sua età. Inutile al cazzo.

Giunti alla fine, con fatica, un vero critico musicale o un giornalista dovrebbe attendere la classifica provvisoria. Ma io non sono una testata di quelle serie così spengo tutto, tanto la leggerò tra poche ore, a colazione.

Festival di Sanremo 2023, le pagelle della seconda serata

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Quindi, tanto quanto le schermaglie a chi ha l’ego più lungo tra Bugo e Morgan, anche Blanco che ha dato in escandescenze era tutta una messinscena. La seconda serata si apre allo stesso modo con cui il Festival ci aveva lasciato la sera prima: Gianni Morandi che scopa. La battuta sulle pillole che gli dà sua moglie, dopo quelle per l’ipertensione, aggiunge un quadruplo senso al doppio già scontato. La gara alle brutture non canore non finisce qui. La sofferenza del bambino tutto azzimato della fiction ricorda quei programmi di altri tempi quando ai minori imponevano la cravatta, un po’ come i piccoli fans in quella gag di Drive In. Poi è stata la volta delle cariatidi Albano, Morandi e Ranieri ed è stato tutto un bravi ma basta. Figli, anzi, nonni di un paese sempre rivolto all’indietro. L’unica speranza esaudita era che Ranieri cantasse “Se bruciasse la città”, vetta inarrivabile della canzone italiana, oppure che Albano intonasse i delfini che vanno a ballare sulle spiagge. Ma poi che senso ha presentarli tutti e tre insieme se poi cantano quasi tutto separatamente? Comunque, va avanti tutto liscio fino a un inatteso regalo. Parte Felicità di Albano e Romina Power.

Dove c’era Pelù oggi ci sono Nek e Renga con i cappotti di Piazza Italia, premesso che ho tanti amici che vestono Piazza Italia. D’altronde anche gli interpreti mediocri hanno diritto a cantare fino a quando avranno l’età di Albano. Su Fedez, come vedete, non spendo nemmeno una parola.

I Black-cosi-là senza Fergie non hanno ragione di esistere e suonano un repertorio moscissimo. Piuttosto, avrei invitato come ospiti gli Smiths. Per una volta, è il monologo a fare la differenza, ad abissale distanza da quello di ieri. Però poi si fa una certa e la gente vorrebbe andare a letto perché domani si torna tutti a lavorare. Prima del meritato riposo, finalmente, ecco i giudizi della serata.

Will: sguardo allampanato alla Ian Curtis, un pezzo che gli somiglia perché è stupido, appunto. L’ennesimo sangiovannese da scuola primaria o, come si dice, pop generazionale, ma io sono fieramente vecchio e mi fa cagare. Forse il miglior candidato ad arrivare ultimo. Anzi, ultimo solo dopo Ultimo.
Modà: parto prevenuto e confermo al termine della canzone che, in Italia, Jovanotti a parte, poche cose siano un insulto all’intelligenza come i Modà. “Mettici un bacio veleno con ghiaccio”. Il pezzo è tutto un’attesa di quando Kekko urla alla Negramaro. Tamarri senza gloria.
Sethu: lo pronunciano come se fosse una domanda. Sei tu? Ma no, non sono più io. Si presenta con una cuffia in testa a forma di capelli di Big Jim. Ha tutta la giacca strappata e i pantaloni a punta, ma in fondo è un blanchista come tutte le altri giovani promesse non mantenute della nuova musica di merda italiana che non vogliono prendersi la responsabilità di risultare personali.

Intanto sono le dieci e si sono esibiti solo quattro concorrenti, segnale che si faranno le ore piccole anche stasera.

Articolo 31: la narrazione è sempre la stessa. L’autobiografia dalla periferia in amicizia fino al successo e fino a quando si litiga e ci si lascia e ci rimette insieme per Sanremo. Che palle. Già non reggevo la retorica degli 883, figurati questi. E non è cambiato nulla, da allora. J-Ax sempre stonato, l’altro che fa finta di schiacciare qualche pulsante. Il risultato sfiora la sufficienza, ma solo perché mi hanno preso per sfinimento.
Lazza: comincia come un pezzo di Moby e continua ancora meglio. Ottima produzione, solito rap trito e ritrito ma al momento è la canzone più interessante, al netto dei tatuaggi sulla faccia.
Giorgia: mamma mia, quanta inutilità. Che brutto essere interpreti così brave di canzoni così insignificanti
Colapesce e Di Martino: superlativa, non vincerà ma venderà tantissimo (io però faccio il tifo per loro)
Shari don’t like it, dev’essere la tipa dei Flintstones a giudicare da come è vestita tutta a macchie con l’aggravante che ci manda affanculo. Canzoncina per niente brutta, in quota grazie mille e emozionatissima.
Madame in stivali da pesca, non proprio a suo agio con il vestito. Pezzo originale anche se una tacca sotto rispetto a doveseifinitoamore del 2021. In quota logopedista, con l’incedere tunza tunza il suo songwriting ci perde, altrettanto il flow. Da alta classifica, comunque.
Levante: niente male il colpo d’occhio, la versione femminile di Mengoni in pelle. La base electro spacca, il testo un po’ meno. Ma lei mi sembra un po’ esaurita, quasi più di Anna Oxa.
Tananai: mi spiace, mi sono addormentato. Dice mia moglie che non è stata niente male ma non le credo
Rosa Chemical: anch’io ne avrei evitato l’esibizione, ma solo per risparmiarci un po’ di musica di merda, e poi la giacca strappata e rattoppata con gli spilloni l’abbiamo già vista addosso a qualcun altro. In quota alle canzoncine movimentate con balletto, a metà tra Achille Lauro, la scimmia nuda balla e Elio e le Storie Tese. Di sicuro, fonte di ispirazione per le polemiche di domani.
LDA: mai sentito nominare, ma sono un boomer. Poi scopro che è figlio di Gigi D’Alessio e questo spiega tutto. Probabilmente l’unica ballad terzinata del festival, per di più penalizzata da problemi tecnici. Ne avremmo fatto volentieri a meno.
Con Paola e Chiara vestite a specchio con tutta una roba sberlucciante in faccia sembra che il tempo si sia fermato agli anni novanta. Invece è già quasi l’una, e dopo l’ennesimo pezzo imbarazzante finalmente posso lavarmi i denti e andare a nanna. Se domani non salto la terza serata è solo per Paola Egonu.

 

Festival di Sanremo 2023, le pagelle della prima serata

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Una delle cose più fastidiose dei festival condotti da Amadeus è che tutti i cantanti in gara lo chiamano Ama che si vede che lo fanno per passare l’idea che Amadeus metta chiunque a proprio agio, ma ai tempi in cui tutti si chiamano Amo’ sembra una pratica un po’ zarra. Io, se fossi in lui, chiederei a chi mi chiama Ama se abbiamo mai mangiato insieme o se sono stato il fidanzato di sua sorella.

Quest’anno il Festival è carico di aspettative perché la gestione Ama comincia a ripetersi da troppo tempo e questa reiterazione di una formula che funziona alla fine, lo sappiamo, smette improvvisamente di funzionare. Potrebbe avergli staccato la spina quel Blanco che, in una sola sera, è passato dai fasti della vittoria alla precedente edizione – una fama che lo ha portato persino a esibirsi di fronte a sua santità – al farsi prendere a fischi dal pubblico in sala per aver distrutto a calci un costoso addobbo floreale.

Il vero fuori programma è stato il supereroe Mattarella, comparso a inizio serata come a una prima della Scala qualsiasi per poi defilarsi non sappiamo quando, speriamo prima di quella scena patetica. Benigni lunghissimo sulla costituzione ma necessario – domani sentiremo tuonare qualche fratellista d’Italia – e l’inno italiano, in onore del capo dello stato, in piena restaurazione nazi-onalista melonifera.

Doveroso nominare la Ferragni, che dovrebbe essere imitata 24×7 dalla Guzzanti perché sembra la Guzzanti quando imitava Moana Pozzi, e il cameo di un Pelù destinato a vincere in ogni scenario la palma del più tamarro di tutti, a ex aequo con i suoi Bandidos.

Spero abbiate notato le sciure acchittate in modo inqualificabile dietro a Amadeus quando ha presentato i Pooh e converrete con me che gli stessi Pooh dovrebbero diminuire le tonalità dei loro brani, lo fanno gli U2 non vedo perché non dovrebbero farlo anche loro.  Facchinetti, nei momenti di panico in cui pensi che gli venga una sincope, ogni tanto fa un urletto come quelli che hanno la Tourette. Pallosissimo invece il monologo della Ferragni, e spero che non abbiano costretto Mattarella a sorbirsi quella roba. Dicono che si sia accomiatato molto prima.

Ecco allora qualche nota sulle canzoni in gara della prima serata.

Anna Oxa: si presenta sul palco con il rossetto sui denti, la canzone è una vera merda e ti chiedi che cazzo abbia da urlare. A me sembra che dica “portatemi i sali” ma potrei sbagliarmi. Con i capelli così sembra una maga di una storia di Paperon de Paperoni ma non la trovo in rete quindi stateci.
Gian-Maria De Filippi: è alto e secondo me vince lui. In quota a quelli che salutano alla fine il pubblico con grazie mille come quando la cassiera al supermercato ti fa lo sconto dei centesimi per non dare il resto in monetine.
Mister Rain sembra Jim Carrey che canta la milionesima canzone con quel giro di accordi. Un brano di una bruttezza devastante, lui è vestito da AB Normal che canta “Puttin’ on the ritz”. Nel testo dice che due gocce di pioggia salvano il mondo dalle nuvole, e ditemi voi che cazzo significa. Si porta sul palco un surrogato dell’Antoniano e fa piangere persino una bambina del coretto. Una merda. Anzi, meno che una merda.
Marco Mengoni: conciato come uno dei Village People, presenta una canzone banalissima come tutta la sua produzione a parte il capolavoro melodico/armonico che è “L’essenziale”. Poi questi pezzi che a metà partono con la cassa in quattro dopo esser stati delle lagne hanno rotto il cazzo.
Ariete: il pezzo è carino, lei è carina, lei è senza voce, non ha ancora fatto un percorso dal logopedista come auspicavo dopo averla sentita al primo maggio, nel pezzo manca qualcosina, mi sono segnato “Parlami d’amore” dei Negramaro ma non ricordo già più perché
Ultimo: si conferma l’ultimo tra tutti, nome omen quasi più degli zero assoluto, una merda assoluta e ultima
Coma_cose in versione “Me contro te”, mi è venuto un po’ di diabete.
Elodie: il pezzo si chiama come il voto che Pitchfork ha dato al disco dei Maneskin, è strano perché ha un ritornello brevissimo, le resta una piuma impigliata sul microfono. Vorrei metterle un voto alto ma non saprei quale e quanto e soprattutto dove, perché qui non li sto mica mettendo.
Poi non c’è due di Elodie senza i tre cuori di Gassmann, in quota agli inutili di Sanremo come un Zarrillo comune, quelli bellocci che cantano canzoni che, terminato il festival, non si sentono più e tra vent’anni li faranno vedere agli speciali sulle meteore.
Cugini di Campagna: onesta, forse la migliore al momento e mi preoccupa ammettere che nel 2023 io possa aver scritto che i Cugini di Campagna hanno una dignità. Si sente l’impronta “ciao ciao” della RDL. Peccato per loro, vestiti come dei teletubbies da sera che rendono tutto molto poco credibile. Belli però i synth a tracolla customizzati Fiorucci, ne fanno una specie di Devo da Canzonissima.
Grignani: non ho mai capito che problema avesse e non l’ho capito nemmeno stasera, anzi non si è capito proprio niente se non che c’entrava con suo papà. Potrebbe vincere, anzi, speriamo vinca lui, mette tenerezza.
Olly: lo vedi e non promette niente di buono. Sa di autotune e di tutta quella merda pop che ascoltano i miei alunni, la giacca rosa con la canotta sotto è qualcosa di osceno e negli acuti sembra Blanco prima del floricidio. Però, almeno, lui si comporta da uno umile.
Colla Zio: che tipi assurdi, canzone divertente quanto sembrano divertirsi loro e cioè un botto. Cioè, voglio dire, poteva andare molto peggio.
Mara Sattei me la ricordavo gnocca e #ineffetti sale sul palco seminuda. Il pezzo è di coso lì dei Maneskin il che, dopo il 2 di PItchfork, mi fa venire voglia di spegnere subito. Nella prima strofa non si capisce una parola ma forse perché è l’una e non capisco perché non comincino il festival alle sette di sera così uno può andare a dormire alle 23. Il brano è in quota cantanti brave con canzoni inutili, tipo Annalisa e, anni fa, Giorgia.

Finalmente posso andare a coricarmi.

l’asse nella manica

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Non sapevo che il sellino da bici, quello con il buco pensato per evitare problemi a chi percorre lunghe distanze con continuità, si chiamasse comunemente sella antiprostata. Ammetto l’efficacia della semplificazione del concetto, ma è una vulgata che non rende giustizia al prodotto, perché allora un anticomunista è uno che si fa da parte per evitare che un partito di sinistra possa avere dei problemi seri? Non sono un appassionato di ciclismo e, a dire la verità, non sapevo nemmeno che esistessero, ma mi è bastato vedere la bici da passeggio di una delle collaboratrici della mia scuola per capire il motivo per cui una superficie destinata ad accogliere morbidamente una seduta dovesse essere priva della sua parte centrale. Il fatto però che una sella antiprostata fosse montata su un modello da donna mi ha confuso ancora di più, ammetto però che la mia conoscenza limitata della ricerca in campo ciclistico potrebbe essere all’oscuro degli analoghi benefici sull’apparato riproduttivo ed escretore femminile. In realtà, un bidello uomo ora lo abbiamo, finalmente, e anche lui viene in bici al lavoro, ma la sua la conosco benissimo e ha il sellino tutto intero. Le sue colleghe si lamentano un po’ di come pulisce. Dicono che, in quanto uomo, non ha attenzione per i dettagli. Malgrado sia più giovane di me e anche ben piazzato, se c’è da rimettere nei cardini la porta in legno dell’auditorium che qualche buontempone delle medie ha divelto per fare uno scherzo, chiamano ancora il sottoscritto. E proprio mentre mi precipitavo a risolvere questa emergenza ho notato al piano terra la collaboratrice Nunzia, il vero boss della scuola, tutta presa dalla lettura di un tomo piuttosto corposo. La cosa mi ha sorpreso. Nunzia trascorre molto tempo seduta alla cattedra in corridoio, e quando non cerca ricette sullo smartphone si dedica all’enigmistica. Ma, fino a quel momento, non l’avevo mai vista con un libro in mano. Così, quando mi ha mostrato la copertina in risposta alla mia curiosità, ho capito quanto le storie sulla famiglia reale inglese potessero avvicinare tutti alla cultura. Completa il quadro la collaboratrice (Assun)Tina. Lei non sopporta il mio collega di sostegno perché sostiene che faccia la pipì sull’asse del water del nostro bagno e non pulisca mai. Non so come faccia a distinguere la sua pipì dalla mia o da quella del bidello che non usa il sellino antiprostata. Ho confessato però a Tina che io mi siedo come fanno le femmine, e lei mi ha guardato come se la stessi prendendo in giro.