Algiers – Shook

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Non dovremmo riflettere sul nostro peccato originale – quello di essere bianchi in un sistema economico, politico e sociale bianco – solo quando esce un nuovo disco degli Algiers. Il punto è che blues/rap e punk industriale, combinati insieme, li percepiamo ancora come una forzatura e ascoltiamo le loro canzoni permeati dal senso di colpa di non riuscire a considerarlo un genere a sé.

Siamo già al quarto disco ma, da quello che si legge in giro, si fa ancora fatica a non considerare ostico l’attrito provocato dalle graffianti melodie soul/black di Franklin James Fisher nell’istante in cui entrano in collisione con le basi così maledettamente noise/punk degli Algiers. Un approccio beffardamente recidivo che induce a una sola interpretazione: l’intento è far provare disagio all’ascoltatore. Mettere la gente in allarme. Farci evacuare dalla comfort-zone della trasgressione ordinaria.

Il punto è che anche il prodotto della musica più estrema, quando nella fase di confezionamento si mettono insieme cose differenti, risulta una sorta di miscuglio omogeneo, una soluzione in cui le sostanze sonore di partenza non si riescono più a distinguere. Per gli Algiers la cosa si fa più complicata perché siamo invece nell’ambito delle emulsioni: uno strato resta ben visibile in superficie e anche quando lo bevi – aggiungerei “soprattutto”, quando lo bevi – si distinguono perfettamente sul palato persino le quantità di gospel, di rap, di jazz, di R&B e i cubetti di spoken word. Non ci sono dubbi, da questo punto di vista. Nella discografia degli Algiers, “Shook” è probabilmente il più dissonante dei quattro, una scossa che fa tremare le ginocchia.

Non so a voi, ma per me questo non costituisce affatto un problema, anzi. L’apparente dicotomia tra bianco e nero è incisa a chiare lettere nel manifesto della band di Atlanta sin dall’omonimo disco d’esordio e se, a quasi dieci anni di distanza, siamo ancora a parlarne in questi termini, sarà per questa ragione che la loro musica, al momento, non teme concorrenza. Come loro, ci sono solo loro.

Smarchiamo subito gli onori di casa. “Shook” è un disco pieno di featuring così riuscite da far passare ai neofiti più sprovveduti gli Algiers come un collettivo, più che un quartetto. In ordine di apparizione c’è l’outro a parole di “Everybody Shatter” recitate da Big Rube, artista che poi ritorna a declamare il minuto e rotti di “As It Resounds”. Un paio di strofe e il rinforzo del ritornello di “Irreversible Damage” a cura di Zack de la Rocha. I contributi rap di Billy Woods e Backxwash ad aggiungere valore al capolavoro di “Bite Back”. I cori di Samuel T. Herring dei Future Islands e il rantolo di Jae Matthews dei Boy Harsher in “I Can’t Stand It”. I versi di LaToya Kent (una delle vocalist del collettivo Mourning [A] BLKstar) in “Born”. Il bridge in egiziano di Nadah El Shazly in “Cold World”. Il sax di Patrick Shiroishi e la voce di DeForrest Brown Jr. in “An Echophonic Soul”. La coda della traccia di chiusura “Momentary”, affidata ai versi di Lee Bains. Presenze così protagoniste da condividere la parte centrale della cover, insieme al titolo.

Ed è anche grazie a questo assembramento militante che “Shook” risulta un cupo progetto permeato di rabbia e di riscatto, di rivalsa ai soprusi. Non sorprende, se già sono gli Algiers in sé a essere un concept, prima che una band, con un nome che incarna la ribellione al colonialismo e il sacrificio per l’emancipazione. Percepirli al netto di questa dichiarazione d’intenti/fondante pregiudizio ne diminuirebbe la portata deflagrante. Dell’ottimo quarto lavoro colpiscono l’elettronica a tinte industrial, la chitarra sferzante e lo spazio che giustamente viene lasciato al gusto e alla tecnica di Matt Tong, batterista fuori dal comune cresciuto nei Bloc Party di “Silent Alarm”. E poi l’anima di Franklin James Fisher, la sua voce e le sue parole, il suo essere Algiers senza soluzione di continuità, le sue melodie profondamente soul.

La struttura delle canzoni è fuori da ogni convenzione. Prendete la ritmica e i cluster di pure onde sinusoidali su “Irreversible Damage”, la drum’n’bass de-costruita e pronta a compattarsi in velocissimo post-punk di “73%”, il rigore di “Cold World”, la trap tutta arpeggiatori e synth di “Bite Back” e il suo ritornello motown, il punk di “A Good Man” e quella promessa di muro di suono che viene mantenuta solo troppo tardi, il dub scombinato di “Something Wrong” con quel gioco di pitch che vira verso il basso e quel modo di suonare fuori tempo che mette alla prova anche i temperamenti più pazienti, i mille volti di “I Can’t Stand IT” e l’ossessività della proposta dei cori gospel che si sprigionano un po’ ovunque per sublimare negli accordi jazz di “Green Iris”, un brano con un finale che toglie il fiato, e in “Momentary”, la traccia conclusiva che ci fa ripartire da capo, dalle radici della tragedia della comunità afroamericana da dove tutto, Algiers compresi, è iniziato.

“Shook” è, ancora una volta, un disco pensato per risultare impegnato e impegnativo. È un tentativo di dare voce a un mondo abitato da oppressi che nessuno di noi, da questa parte del pianeta e attratto da questo genere di ascolti, è in grado di comprendere appieno. Rispetto alla nostra realtà, nei suoni e nelle parole, gli Algiers si confermano degli alieni. Io li adoro, ma riesco ad andare poco oltre la dimensione musicale. Se riuscite a goderveli così a fondo da lasciarvi condurre nella perfetta sintonia che i loro brani richiedono, sappiate che vi invidio moltissimo.

sopracciglia

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L’architetto che dirige i lavori di ristrutturazione del palazzo in cui si trova il mio appartamento – interventi esterni e interni legati al cosiddetto bonus 110% – ha spedito una e-mail a noi condomini con la quale non mi trovo per nulla in accordo. Siamo in ballo dal giugno scorso ma ancora ci troviamo in alto mare. Nel frattempo è successo di tutto: si sono allagati due appartamenti al quarto piano a causa della negligenza delle maestranze; la ditta che sta sostituendo l’ascensore ha toppato in eccesso l’ampiezza delle porte ai piani e hanno dovuto provvedere a ricostruire i muri; siamo già alla terza impresa incaricata di operai egiziani; il capo cantiere ha dato le dimissioni e anche il geometra; l’amministratrice non si è rivelata all’altezza della gestione di questa sequenza di complessità e ora, sapendo che vogliamo la sua testa, latita con gli aggiornamenti.

Così un mio vicino di casa ha sollecitato all’architetto un cronoprogramma ma la sua risposta – in sintesi – è l’ennesima riproposta di una narrazione che non sta né in cielo né in terra. Secondo lui dovremmo essere già contenti del fatto che si facciano dei lavori che rimoderneranno il nostro palazzo senza cacciare una lira e quindi, come direbbero i Maneskin, dovremmo stare zitti e buoni. Che poi non è vero, perché alla fine qualche migliaio di euro a famiglia l’abbiamo sborsato. Ma, detto fra noi, i soldi del bonus qualcuno glieli dovrà restituire a quelli che ce li hanno prestati, giusto? Intendo i miliardi di euro con cui abbiamo trasformato l’Italia in un cantiere, non è che ce li hanno regalati.

Li pagherà per noi anche mia figlia, che ha deciso di cambiare. Dopo vent’anni di capelli lunghi portati a cazzo si è fatta fare una frangetta prendendo, come esempio, Alice. La cantante, esatto. Quella di “Per Elisa”. L’importante, ha sottolineato quando mi ha messo al corrente del suo nuovo progetto di vita, era che le sopracciglia le restassero visibili perché le ritiene un dettaglio fondamentale per la sua personalità. Nel suo stato di agitazione con cui si accingeva a dare il via al nuovo corso (e se poi non sto bene?, mi ha chiesto sino allo sfinimento prima di uscire) mi ha ricordato i bambini della mia classe quando abbiamo annunciato loro che, da dopo le vacanze di pasqua, avranno un nuovo compagno.

Mi hanno stremato per ottenere maggiori dettagli ma io, ed è vero, non ne sapevo più di loro. La commissione che si occupa dei NAI non va tanto per il sottile e impone gli inserimenti senza chiederci nemmeno un parere. So solo che il nuovo bimbo, anzi, ragazzino, considerato che va per gli 11, viene dal Perù, ha appena raggiunto la mamma che lavora qui da quattro anni come badante, e non conosce una parola di italiano. Ma il meno pronto di tutti sono io, perché non so proprio da che parte incominciare, e meno male che insegno matematica. Spero che Google Translate sia efficace, ma a dirla tutta confido di più sui miei alunni anche se non tutti sono così inclusivi e accomodanti. Ne ho una che è problematica ma ha origini centramericane, quindi potrebbe tornarmi utile come mediatrice linguistica e forse, affidandole un ruolo così delicato, potrei prendere due piccioni con una fava.

Il nuovo alunno dovrò accoglierlo mercoledì prossimo alle 9 e anche questo è un problema perché, pur essendo in servizio, dovrò presidiare il laboratorio di informatica dove si svolgono le prove Invalsi della secondaria, in qualità di collaboratore tecnico. Ho già seguito due giornate di attività e avere a che fare con ragazze e ragazzi di terza media mi ha fatto impressione, visti simultaneamente dal basso della mia quarta primaria e dall’alto di genitore di una ragazza ormai quasi adulta e, ora, con la frangetta che le lambisce le sopracciglia.

Insomma, oggi sono rientrato a casa con tutto questo spleen addosso e mi sono ritrovato per l’ennesima volta intrappolato nei tubi innocenti intorno a quello che dovrebbe essere il posto più bello del mondo e il morale mi è sceso ancora più giù. Si sentono colpi di martello da ogni dove e quel poco di piacevolezza visiva che dà il mio balcone risulta tutt’ora privata dai ponteggi e dai teli anti-intrusione. Non passo più volentieri il mio tempo libero in casa. Anche tutti i miei dischi, nei quali trovo da sempre rifugio, giacciono sparsi sugli scaffali perché ormai il posto in cui conservarli è esaurito. Forse ne ho acquistati un po’ troppi, ultimamente. Io sono il primo a consigliare di non privarsi mai della musica che non si ascolta più perché, prima o poi, il desiderio si ripropone ed è facile pentirsi di aver dato via un pezzo della propria collezione. Ma lo spazio è quello che è. E anche il tempo, a pensarci bene.

caduta libera

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Se avete presente il momento in cui la natura pesta a tavoletta l’acceleratore per far tagliare ai vostri figli il temuto traguardo della prepubertà con il miglior parziale possibile, potete immaginare cos’è un’intera classe intorno ai 10 anni e cosa comporta avere venti bombe ormonali a orologeria da disinnescare per evitare il peggio stipate nello stesso luogo. La primavera della quarta la riconosci dal fuggi fuggi generale di tutte le qualità sulle quali l’insegnante ha costruito l’equilibrio di un insieme eterogeneo di cuori e teste, strappando mocciosi ancora caldi di latte e biscotti Plasmon dalle braccia delle educatrici dell’infanzia e coltivandone talenti e attitudini fino a quel punto. Oggi gliel’ho detto: siete irriconoscibili. Sentono tutti la primavera e in un momento in cui sono estremamente sensibili alla primavera. Ho detto loro che probabilmente sono tutti innamorati, e dai risolini che sono scaturiti, ho supposto di aver colto nel segno.

Quelli bravi sono regrediti di un semestre. Quelli con lo spleen si mettono a piangere per un nonnulla. Quelli che avevano mal di pancia nei giorni di verifica stanno a casa. Quelli permalosi passano all’attacco e spezzano direttamente le matite in segno di ritorsione. I più distratti hanno preso il volo con destinazione iperuranio a cavallo di un unicorno. Chi chiedeva permesso dà gli spintoni. Quelli che in condizioni normali sfoggiavano la memoria di un protista vanno direttamente in trance dopo la prima campanella e non li riprendi più. I più simpatici ti viene voglia di chiuderli in bagno. I meno simpatici pure ma poi gettare via la chiave.

Per una fortunatissima coincidenza ho praticamente detto tutto quello che c’era da dire sugli argomenti del programma e, visto che potremmo salutarci qui e riparlarne a settembre (considerate che la scuola è già di per sé così, aprile e maggio sono poco più che due circoli ricreativi) posso permettermi di puntare sulle attività laboratoriali e tutti quegli approcci dall’altisonante nome in inglese di cui ogni insegnante si riempie la bocca per darsi un tono nelle conversazioni con chi svolge un lavoro normale. Questo, ripeto, è un lusso, perché posso fermarmi per stemperare i costanti impeti di sperimentazione privata e sociale, sdrammatizzare le reazioni fuori controllo o, agli opposti, tentare la rianimazione di un encefalogramma piatto al cospetto di prove che, solo prima di Natale, costituivano una abbordabilissima prassi. Il prossimo anno sarà peggio perché, come guscio di stati d’animo tormentati, al posto facce e corpi da bambini ci saranno entità aliene di difficile classificazione.

Per spaventarli un po’, stamattina gli ho ricordato che a settembre 2024, quindi tra poco più di un anno e mezzo, si troveranno alla secondaria. Mi hanno guardato con la stessa espressione che mi sono sentito in faccia mentre leggevo, qualche giorno fa, un articolo sui 50 anni di The Dark Side Of The Moon. Il pezzo era su una webzine di costume. Ho terminato la lettura e ho osservato sul frigo una vecchia foto in bianco e nero dei miei genitori poco più che ventenni negli anni cinquanta. A fianco c’è quella mia e di mia moglie quando ci siamo conosciuti. Ho pensato che sono entrambe foto storiche, anche se la mia è a colori, e che cinquanta anni corrispondono a mezzo secolo, e a mettere insieme anche solo una trentina di mezzi secoli si arriva quasi alla caduta dell’impero romano di occidente. Più o meno eh, era per darvi una data certa, il 476 dopo Cristo, avrete capito che non è questo il punto.

birdwatching

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Se cani e gatti non fossero le bestie che sono ma avessero la tempra per evolversi come siamo riusciti a fare noi, tra qualche secolo potrebbero studiare sui loro libri di scuola la nostra epoca contemporanea – i tempi di trasformazione digitale in cui viviamo e l’ossessività compulsiva con cui noi esseri umani usufruiamo dei social – come il loro umanesimo, che per ovvie ragioni non si chiamerà così ma canidesimo o felinesimo o chissà in quale altro modo. Senza contare che di certo non parleranno la nostra lingua, o magari saranno proprio le vocine ridicole e il lessico tutto vezzeggiativi, diminutivi e termini inventati con cui oggi noi esseri umani pretendiamo di avere un dialogo con i nostri animali domestici a influenzare lo sviluppo di un linguaggio tra cani e gatti e spero che, allora, l’umanità si sia già estinta per colpa della siccità, perché l’ultima cosa che vorrei è proprio che i nipoti dei miei nipoti possano assistere a cani e gatti che si esprimono in un idioma riconducibile al modo in cui ci rivolgiamo a loro mentre si strusciano per una scatoletta. Da sempre sostengo infatti che gli hacker russi, anziché ricattarci con video rubati grazie alle webcam di cui sono dotati i nostri portatili mentre guardiamo Pornhub, dovrebbero registrarci mentre parliamo da soli in casa ai nostri animali domestici per soddisfare le carenze di affetto e di considerazione in cui ci confinano i nostri simili.

I primi vent’anni degli anni duemila potranno quindi essere considerati una vera e propria età dell’oro a tutti gli effetti, per gli animali, in particolare proprio per cani e gatti ma non dimentichiamoci di panda, pipistrelli, lupi, cinghiali e tutti gli altri esseri viventi più selvatici per i quali creiamo laboriosi profili Instagram e TikTok, e sapete bene quanto sia time consuming starci dietro. D’altronde, basta non lavorare o non fare esercizio fisico che siamo pronti a qualsiasi passatempo. Ci sarà da qualche parte un registro o un file Excel universale dove sono conteggiate, con una funzione automatica, tutte le ore che perdiamo al computer o al telefonino per attività idiote (questo blog in primis), e che ci verrà mostrato quando saremo morti nell’aldilà che, a suo modo, non può che essere analogico.

E, tornando all’argomento di cui sopra, grazie ai social media sono infatti gli animali i veri protagonisti della nostra epoca, gli esseri viventi al centro dell’attenzione. Le conseguenze di questa folle idolatria, unite ai danni che gli algoritmi stanno provocando al nostro cervello, siamo certi che ribalteranno i piani della catena alimentare nel giro di qualche quarto di secolo e così i discendenti delle bestie che allietano le nostre solitudini digitali e che ci si addormentano in braccio sul divano – ma che fino a qualche decennio fa popolavano giustamente Autogrill, campagne suburbane e altri non luoghi ricettacolo del frutto di un senso delle priorità ad oggi considerato ampiamente superato – tra non molto avranno le loro ricorrenze (un giorno del ringraziamento per i primi cani che hanno espropriato il reparto cibi di un Arca Planet di periferia, o il primo gatto che ha cambiato la serratura dell’appartamento dei propri padroni) proprio grazie ai nostri canali Instagram e alle pagina acchiappaclic che divulgano le più bizzarre fake-notizie sul mondo a quattro zampe.

Ci saranno padri fondatori, eroi, semi-divinità e esseri umani da condannare per atrocità contro il genere felino, e probabilmente Jonathan Franzen sarà uno di questi. Secondo questo articolo pubblicato da “Rivista Studio”, Franzen, che è un appassionato osservatore di volatili, sostiene che “se lasciati liberi di scorrazzare, i gatti arrivano a uccidere tipo, tre o quattro uccelli al giorno” e pare che ne pensi peste e corna. Ai giorni nostri manifestare una scarsa sensibilità nei confronti di cani e gatti non è più ammesso, si rischia il linciaggio e, per gli scrittori, la damnatio memoriae. Franzen, quindi, sei avvertito.

filo di scozia

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In un articolo pubblicato sul mensile di settore Belle Époque, lo stilista australiano Josh Ebenezer Spalding ha collocato al quinto posto degli indicatori di benessere e qualità della vita i cassetti dei calzini provvisti di una luce a led tale da consentire la scelta la mattina quando fa ancora buio e, com’è naturale, sarebbe altrimenti difficile distinguere tra le paia nere e quelle blu notte. La sua intervista prosegue con un’accorata apologia della elasticità mentale di cui è ancora provvisto nonostante vada per gli ottanta. Quando l’ho letta, d’istinto ho mandato una e-mail alla redazione della rivista perché ci tenevo ad argomentare quanto il lavoro di noi insegnanti non scenda a compromessi, da quel punto di vista. Così ho cercato uno di quei tool online che servono per allestire in quattro e quattr’otto i diagrammi di flusso – avete presente? – perché una giornata come quella di ieri meritava ben più di un plauso di circostanza da parte di un sartucolo da strapazzo proveniente da un angolo del mondo in cui, a noi italiani, nessuno ha proprio nulla da insegnare se non come accudire animali dalle fattezze di topi giganteschi. Ho così collegato, lungo un articolato flusso di concatenazioni multi-lineari, cose come l’allestimento dell’auditorium per le prove dello spettacolo di musica, la stampa delle dime che mi occorrono per il progetto di stop-motion, un ritocco all’orario di alcuni specialisti, la ricezione alla consegna di materiale didattico che avevo ordinato su Amazon, i consueti aneddoti di cui mi beneficiano i colleghi nei corridoi e su per le scale (un fattore che rende la tempistica di ogni mio spostamento da un punto A a un punto B interno alla scuola imprevedibile) la scelta con il cuoco Matteo dei soggetti con cui illustrare le tovagliette della mensa in occasione del pranzo del giorno della pace, l’allestimento di un form sul Registro Elettronico per richiedere l’approvazione dei genitori all’uso di Canva per la scuola, una riunione con la Dirigente sull’organizzazione dei progetti legati al PNNR, tutto questo e molto altro spalmato nell’arco di una decine d’ore lavorative e a corollario delle attività scolastiche core business – passatemi il termine – e che hanno compreso lezioni frontali, lavori di gruppo, svolgimento e correzione di una verifica sulle frazioni dei numeri, l’avvio del progetto di stop-motion di cui sopra con conseguente spiegazione dell’attività e spartizione dei ruoli, per non parlare di Denis che dà i calci sotto al banco a Carmen e che Carmen – giustamente – gli restituisce, Simone che si mangia la gomma, Cecilia che si dimentica di una cosa nel giro di un paio di secondi, i problemi personali che è giusto che ci si confidi tra colleghi stretti e così via. Mogli e mariti degli insegnanti che si immolano al ministero dell’istruzione (merito giuro che non lo scriverò mai) sostengono che siamo degli insicuri che devono per forza rendersi indispensabili nei contesti in cui operano per ottenere l’approvazione altrui. Io, sinceramente, non lo so, ho chiesto alla redazione di Belle Époque un’opinione più strutturata.

vedi altre date

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Ho notato solo ora che, dopo aver trascinato l’omino giallo di Google Street View in un punto di Maps coperto dal servizio – cioè che diventa blu poco prima di lasciarlo cadere sulla via oggetto della vostra curiosità – è possibile visualizzare la stessa porzione di luogo nel corso degli anni in cui sono stati effettuati i diversi rilevamenti. Vi sarà capitato, almeno una volta nella vita, di incontrare la Google Car che percorre in lungo e in largo tutti gli anfratti dei quartieri in cui abitate. La mappatura viene effettuata con cadenze di qualche anno, e non sempre in modo uniforme. Sono numerosi i casi in cui è possibile percorrere virtualmente una via in pieno agosto per poi trovarsi, all’isolato successivo, circondati dalla neve (casistica oramai impossibile, considerando che non nevica più). Qualche anno fa ero stato immortalato mentre correvo, nei pressi di casa. Le immagini erano state poi aggiornate ma, grazie al servizio “vedi altre date” – il pulsante si trova nel box in alto a sinistra – ho ritrovato quel cimelio di venti chili fa. Ho ancora gli stessi pantaloncini ma gli auricolari, da allora, ne ho cambiati decine. Ho fatto così, subito dopo, un salto sotto casa dei miei genitori e, proprio nel parcheggio di fronte al loro portone, tornando al 2010 ho rivisto la Lada Niva di mio papà che lasciava sempre lì ferma perché già non riusciva più a guidare. Ogni tanto scendeva, la metteva in moto per qualche minuto, giusto per non lasciar scaricare la batteria. Fino a quando, non potendo nemmeno più muoversi, aveva chiesto a Remo, il panettiere della via, di usarla ogni tanto. “Google vedi altre date” possiamo quindi considerarlo il servizio più vicino alla macchina del tempo perché, a differenza dei ricordi che i social network o i sistemi di archiviazione fotografica ci propongono ogni mattina, siamo comparse e spettatori passivi di un disegno pensato da una intelligenza superiore. Oppure, ancora meglio, siamo sullo sfondo di un divertissement di qualche Auggie Wren che lavora a Mountain View.

a misura duomo

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Mia moglie è così ossessionata dalle cavallette che riesce a localizzare un esemplare anche a decine di metri di distanza. Si tratta di un superpotere che si manifesta solo con le cavallette. Sarebbe bello, per dire, che ci riuscisse anche con le banconote smarrite per strada. Qualche giorno fa è riuscita a distinguere da lontano una cornacchia dalle centinaia di altre – se ne vedono a bizzeffe, qui in pianura – solo perché nel becco teneva una cavalletta e ci giocava come fanno i predatori con le prede. Le concedeva l’illusione della libertà per poi riafferrarla e sbatacchiarla in giro con quella crudeltà che solo chi è in alto nella catena alimentare può permettersi. A mia moglie capita di percepire anche le cavallette immobili che stazionano mimetizzandosi sui muri esterni dei palazzi. Il suo terrore è talmente fuori controllo che probabilmente sublima in capacità divinatoria e paranormale.

A me succede la stessa cosa ma con gli ingenui tentativi – provenienti da fonti riconducibili a tutti gli orientamenti partitici – di screditare Milano e l’operato di Beppe Sala. I casi sono due: o ce ne sono veramente tanti e non c’è tg o sito o social network che ne parli, oppure è la stessa dinamica che risveglia l’istinto di mia moglie di sopravvivenza alle cavallette e mi è impossibile evitarli.

O, meglio, è una cosa che mi fa talmente rabbia che vedo malafede ovunque. Credo sia difficile trovare, in Italia ma anche fuori da qui, una cosa che funzioni bene come Milano e i milanesi. E ve lo dice un ligure, uno che quando torna nella città di origine nel weekend non può permettersi di farsi un giretto in auto in riviera per non rischiare di rimanere imbottigliato tra i milioni di lombardi che vengono a farsi un bagno. Uno che ha trascorso un pranzo di Pasqua di qualche anno fa da solo in auto perché, in tutta Varazze, non c’era un parcheggio libero che gli consentisse di raggiungere il resto della famiglia che aveva lasciato al ristorante poco prima con le ultime parole famose: “il tempo di lasciare la macchina da qualche parte e vi raggiungo”.

Sarà una combinazione o il frutto del mio superpotere, ma ogni sera mi imbatto in improbabili reporter aggirarsi tra i clochard di via Pisani, riprese semi-occultate di risse a colpi di machete o bottiglie rotte in Stazione Centrale, video amatoriali di borseggiatrici malmenate in metropolitana, parchetti adibiti a supermarket di droghe di ogni tipo. Per non parlare delle lamentele sulle piste ciclabili che sottraggono parcheggi alle vie dello shopping, sui prezzi delle case private e dell’incuria dei quartieri popolari, sulla gentrificazione delle periferie, sulla movida, sull’attitudine ingiustificata alla grandeur, sul rebranding dei quartieri a partire dai nomignoli che qualche esperto di marketing applicato all’urbanistica ha coniato. Poco fa ho letto addirittura che Tortu va più veloce dei treni della linea rossa. Un gioco il cui obiettivo è facilmente smascherabile: i fratellisti d’italia e i leghisti rosicano per un modello organizzativo che ci invidiano in tutto il mondo e che loro sono solo capaci di mettere in pratica con le ronde nazi-padane e a cucchiaiate di olio di ricino. E, dalla parte opposta, non va giù il fatto che a sinistra possa affermarsi un sistema che coniuga, in modo efficace, sostenibilità e imprenditoria. Non so in quale città italiana abitino, tutti questi detrattori. Non so in quale posto più pulito, più civile, più ricco di servizi, più curato e più organizzato vivano, e sono contento per loro. Perché per me, che vengo dal terzo mondo, Milano resta tutt’ora una meraviglia, grazie anche alla gestione di Sala. Qui ho costruito la mia famiglia, qui ho avuto opportunità professionali, qui spero di invecchiare serenamente.

doppio live

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Se c’è in sala qualche non-proprietario di gatti, vorrei chiedergli com’è svegliarsi al sabato e la domenica dopo le sei del mattino. La narrazione che ci facciamo noi che dovremmo avere una sorta di pensione di invalidità – pagata grazie alle decine di migliaia di euro che abbiamo speso in scatolette puzzolenti (spesso vomitate e poi ri-mangiate per poi essere ri-vomitate) e interventi chirurgici presso cliniche veterinarie senza scrupoli – dicevo che la narrazione che ci facciamo noi proprietari di gatti è che tanto, durante la settimana, ci saremmo svegliati comunque con la sveglia mezz’ora più tardi. Ma il sabato, chissà come dev’essere quella sensazione di intorpidimento fisico che non provo più da quando ero giovane e felice non-proprietario di gatti del cazzo in casa, che consiste nello svegliarsi alle dieci del mattino, con il sole già alto e l’hinterland operoso che già impenna con il tosaerba nel giardino delle villette a schiera o fa la coda alle bancarelle del finto mercato contadino.

Questa mattina, poi, ho percepito quel rumore di motore termico in folle che emette la mia gatta di merda per attirare l’attenzione, unito alla sensazione di nasino umido sulle palpebre e sulle guance, proprio prima della scena finale di un sogno pazzesco. Mi trovavo con la mia collega di team a zonzo in un brocantage parrocchiale. L’allestimento era rigoroso, con tutte le cianfrusaglie ordinate per genere su tavoloni centrali, in una enorme sacrestia presa d’assalto da nostalgici curiosi e da antiquari senza scrupoli. Il successo dell’iniziativa mi faceva desistere dall’idea di trovare qualcosa di interessante, laddove qualcosa di interessante per me, anche in sogno, consiste in dischi in vinile e giradischi di valore a un prezzo stracciato. Fino a quando il sogno prende una svolta: in una stanzetta seminascosta noto due contenitori traboccanti di trentatré giri. Malgrado le copertine che riconoscono avvicinandomi non siano di mio interesse – noto un inesistente disco dei Van Halen dal titolo “77”, che a freddo interpreto con il fatto che anche nel sogno non mi venisse in mente un analogo titolo numerico che poi è “1984”, quello di “Jump” per intenderci, e che comunque anche in sogno non acquisterei mai, considerata la mia intolleranza all’hard rock – decido comunque di spulciare tra i vinili. Estraggo dagli scatoloni qualche disco dal prezzo molto interessante che metto da parte e poi ecco la vera perla della spedizione: un doppio live dei Cure risalente al tour di Wish. Ha una curiosa cover gatefold a specchio con un’etichetta adesiva che riporta il prezzo di 29,00 euro, le dimensioni sono circa 10 pollici, e nella parte interna riporta stampate le copertine della discografia della band di Robert Smith esistente al momento della pubblicazione di quel bootleg. Ricorda certe buste delle ristampe economiche di una volta, con il catalogo dei titoli a disposizione.

Noto però uno dei volontari dell’iniziativa di beneficienza sistemare le cose lasciate alla rinfusa dai visitatori durante la giornata. Mi avvisa che, al giro successivo di riordino, il mercatino chiuderà. Mi affretto così alla cassa ma mi accorgo di aver lasciato i vestiti e lo zaino in una cassetta di sicurezza, come quelle dei guardaroba fai da te dei musei, all’ingresso dell’oratorio. Mi precipito di corsa attraversando il cortile per recuperare il portafogli e rivestirmi. Come le scene oniriche delle serie tv più blasonate, l’aria è costellata da una specie di nevischio che non si capisce se sia innocuo come nel sottosopra di “Stranger Things” o tossico come in “Chernobyl”.

Trovo i miei jeans su un appendiabiti e, mentre li indosso stando in equilibrio a fatica (non ero proprio in mutande ma indossavo, al posto dei pantaloni, una specie di tuta bianca di carta leggera che usano quelli che verniciano le automobili), chiedo alle due attempate dame di San Vincenzo che presidiano la reception le chiavi della cassetta di sicurezza che, ovviamente, non hanno. Le chiavi restano ai visitatori come è giusto che sia. Mentre mi allontano le ascolto biasimare gli adulti dei tempi che corrono per l’inadeguatezza della loro capacità di stare al mondo, commentando la mia richiesta. Mi volto e rispondo loro che almeno, ora, nessuno muore più di appendicite, che non so cosa voglia dire e non è nemmeno riconducibile a una sequenza di numeri da giocare al lotto.

Torno di corsa al mercatino perché voglio recuperare in fretta, prima che chiuda, le chiavi della cassetta che deve avere per forza la mia collega, pagare i dischi e tornare a casa ad ascoltare il bottino inatteso di quella giornata, anche se so che in tutto mi costerà non meno di sessanta o settanta euro e che mia moglie avrà da ridire, ancora una volta, sui soldi che spendo in dischi. Non sono ancora rientrato nella sacrestia quando mi assale il dubbio, il vero plot twist del sogno: forse il disco live dei Cure l’ho lasciato nella stanzetta, che è un comportamento sconsigliatissimo nei mercatini, oltre che dal comune buon senso. Se trovate un disco che vi interessa, ricordatevi di estrarlo dal contenitore e proseguire la ricerca tenendolo con voi, anche se non siete sicuri che alla fine lo acquisterete. Se lo rimettete a posto o, come credo di aver fatto io nel sogno, lo appoggiate sopra alla fila di dischi nel contenitore, sicuramente qualche altro interessato se ne approprierà. E, manco a dirlo, succede proprio così: tra i dischi che ho chiesto ai volontari alla cassa di tenermi da parte per precipitarmi a recuperare il portafoglio, il doppio live dei Cure non c’è. Corro nella stanzetta dei vinili ma lo zelante inserviente che mi ha messo fretta ha già riordinato i titoli rimasti fuori posto. Dovrei rimettermi a scartabellare tra le centinaia di copertine – sempre che invece, nel frattempo, qualcuno non se ne sia accaparrato – ma non c’è più tempo. Nelle bancarelle dell’usato difficilmente i dischi sono collocati in ordine alfabetico. Il mercatino chiude e la mia gatta ha fame.

E tutto torna. Mentre, in piedi al lavandino della cucina, cerco di limitare la nausea da puzza di scatoletta alle sei del mattino, riconduco il disco del sogno a quelli che ho cercato – per puro passatempo – in rete durante il corso di formazione online che ho seguito ieri, nel tardo pomeriggio. Fare della formazione è un’arte perché il grafico che riporta la curva dell’attenzione di chi sta ad ascoltare è sacrosanto e comprovato ed è importate aver pronto qualcosa di completamente diverso per ravvivare l’interesse di chi ti segue. Ne so qualcosa io che mi dilungo ben oltre i venti/trenta minuti regolamentari con i miei bambini portandoli allo stremo. E, ironia della sorte, il corso in questione è dedicato al rapporto tra arte e scienza. Ho deciso di iscrivermi perché, tutto sommato, mi sento riconducibile alla categoria degli artisti che detestano la scienza, essendo troppo complicata e faticosa da studiare, figuriamoci da insegnare, cosa che purtroppo sono costretto a fare. Il fatto è che in questi giorni, a scuola, stiamo trattando la riproduzione delle piante, e proprio mentre la spiegavo ho condiviso con la classe la considerazione di quanto questa fondamentale funzione sia un’arte a tutti gli effetti. Pensate a come ci accoppiamo noi esseri umani. Per le piante sarà altrettanto piacevole? La struttura dell’apparato dedicato, la polpa del frutto che protegge i semi ma che è stata pensata così buona per far sì che poi vengano sparsi attraverso le nostre feci, la messinscena delle api che si impiastrano di polline, sono altrettanto appaganti? Ma anziché trattare di queste cose, lo specialista che teneva il corso ci dimostrava l’esatto momento della storia e della filosofia in cui arte e scienza si sono separate, che ha (o è) coinciso con l’esatto momento in cui il corso si è giocato la mia attenzione. Ho aperto una scheda di Chrome e mi sono messo a cercare dischi che vorrei acquistare tra Amazon e negozi di dischi online tra i quali paragono i prezzi. E pensare che i dischi live io nemmeno li compro. Non mi piacciono proprio.

chopin

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Siamo riusciti a confermare lo specialista di musica/teatro dello scorso anno, un tipo fuori di testa che ci sa fare con i bambini, ha un metodo efficace e propone una formula inclusiva anche con i casi più complicati. E poi è proprio bravo. Ha dei capelli assurdi e in segreteria lo chiamano “Chopin”. La mia dirigente non è molto d’accordo nell’affidare progetti a specialisti esterni di materie di cui dovrebbero occuparsi gli insegnanti, forti delle loro competenze. Sostiene che se deleghiamo la didattica agli insegnanti madrelingua, agli esperti di motoria e a quelli di musica, noi che ci stiamo a fare, senza contare che si paga tutto due volte. Mi trovo abbastanza d’accordo con lei, ma c’è un vizio alla base dei progetti scolastici. Agli insegnanti della primaria si richiede di essere onniscienti ma, superato il livello delle nozioni standard che bene o male siamo tutti in grado di trasmettere a terzi, è difficile che si trovino concentrate in ogni singolo docente le specializzazioni che richiediamo agli esperti esterni. La formazione entry-level ongoing a cui siamo soggetti non ci renderà mai attori, atleti e musicisti, tantomeno inglesi di nascita. Ci vorrebbero al limite corsi professionali, anni di scuole di teatro, di allenamento e di studio della musica, il tutto a nostre spese. Piuttosto, il messaggio da passare è che i progetti con specialisti verticali esterni sono l’eccezionalità e devono essere considerati come tali. Quello che sa fare Chopin, per dire, non sarei in grado di farlo nemmeno io che ho una preparazione extra in musica non richiesta dalle mie mansioni. Malgrado questo, ogni anno è sempre la solita solfa: si propongono i progetti, si approvano, si pubblica il bando, si procede alla selezione e finalmente comincia il corso anche se, nel frattempo, è quasi primavera. Come tutte le cose, il fuso orario della scuola è diverso da quello del buon senso. Basterebbe proporre e approvare i progetti per il successivo anno scolastico ad aprile, a maggio si pubblicano i bandi, entro la fine di giugno si procede alla selezione e all’inizio dell’anno scolastico si può partire con tutti i crismi. Che poi è anche fuori dal mondo che, ogni anno, per gli stessi progetti, si debba pubblicare un bando. Non avete idea di quante volte nessuno presenta la domanda, non chiedetemi il perché. Non capisco perché, se mi trovo bene con Chopin, non possa confermarlo in automatico fino a quando mi stufo. Quest’anno, per dire, il progetto CLIL inglese se l’è aggiudicato un’organizzazione che ci ha mandato un’insegnante russa che ha vissuto negli Stati Uniti. Dovreste sentire il suo accento cockney come lascia a desiderare.

rose

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Il teatro è pieno e qualcuno ha portato persino un mazzo di rose per l’attrice protagonista. Noto un uomo vestito da serata a teatro consegnare i fiori in biglietteria, con la preghiera di recapitarli in camerino al termine dello spettacolo. È troppo giovane per essere l’attempato ammiratore col cappello che qualcuno ha ascoltato, poco prima che si spegnessero le luci, confessare la sua smodata ossessione alla coppia di vicini di posto. Ha sostenuto di non essersi perso una replica della rappresentazione e pare si sia preso persino una diffida per questa sorta di stalking d’altri tempi. D’altronde, se non può avvicinarsi all’attrice che vorrebbe sposare oltre una certa distanza, in platee grandi come quella probabilmente ha qualche opportunità di soddisfare la sua brama senza rischiare problemi legali, scegliendo le ultime file – o, meglio, la galleria – acquistando i biglietti on line. Quando vengo a conoscenza di cose come questa ripenso a Cristina, una ragazzina di cui ero pazzamente innamorato in seconda media. C’era il suo indirizzo comprensivo di numero di telefono sull’elenco della Sip, così trascorrevo molto del mio tempo libero appostato dietro un angolo in prossimità di casa sua nella speranza di incontrarla. Ero pronto a farmi trovare casualmente lì ma, malgrado la mia abnegazione, l’evento non si è mai verificato. Forse Cristina non usciva mai di casa, forse mi vedeva dalla finestra e se ne guardava bene, forse era un caso di omonimia del padre a cui era intestato il numero di telefono e non abitava lì. Chissà se queste pratiche ossessivo/compulsive sono ancora in auge, tra i metodi di corteggiamento dei giovanissimi, oppure ci sono analoghi sistemi, ma molto più efficaci, da mettere in atto sui social. Meno male che oggi lo stalking è stato giustamente demonizzato come tutti i comportamenti un tempo ammessi e considerati sopportabili, a partire dal bullismo fino alle sigarette sui treni e nei locali pubblici, per non parlare del servizio militare obbligatorio su cui posso vantare un’altra esperienza personale discutibile. Facevo l’università e avrei voluto evitare la leva optando per il servizio civile ma, come un pollo d’altri tempi, presuntuoso com’ero ho fatto tutto da solo sbagliando la procedura. Sono stato spedito senza tanti complimenti al centro addestramento reclute di Salerno ed è lì che sono venuto a conoscenza delle musicassette “Mixed By Erry”. Poco prima della libera uscita, malgrado la presenza dello spaccio autorizzato come in tutte le caserme, veniva lasciato entrare un furgone nel piazzale dell’alzabandiera. In mezzo a prodotti contraffatti di ogni tipo, le cassette “Mixed By Erry” e le sigarette di contrabbando erano tutto sommato gli articoli meno tarocchi di tutti. Ricordo che, tra una traccia e la successiva, prorompeva al doppio del volume l’annuncio “Mixed By Erry”, registrato con quell’enfasi tipica da DJ mescolata a qualche effetto sonoro dozzinale. Ho scoperto che sta per uscire un film dedicato alla storia delle cassette “Mixed By Erry” che ha, nella colonna sonora, una canzone di Liberato. Non credo che, comunque, lo vedrò. A differenza del teatro, e delle attrici che ricevono le rose in camerino, dei film e delle fiction italiane non doppiate non si capisce una parola. Mi chiedo dove vadano a finire, tutti questi dialoghi. Magari c’è un cimitero, un po’ come quelli degli elefanti, dove i copioni biascicati e spesso privati delle ultime sillabe delle parole vanno a esalare l’ultimo sospiro, uno di quelli che gli attori cinematografici italiani considerano alla base della recitazione. Sarà per questo che i teatri sono sempre pieni e i cinema no.