The National – First Two Pages of Frankenstein

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Meglio di un disco dei The National c’è solo un disco dei The National che smentisce le voci che li davano per spacciati, finiti, kaputt. Per alcuni è uno scenario che non si può eludere. Per altri sono solo un po’ giù di morale ma, a giudicare da questo “First Two Pages Of Frankenstein”, tutto sommato in gran forma. Io, al loro scioglimento, non voglio nemmeno pensarci. Che mondo sarebbe senza i The National?

Il giorno in cui i The National daranno forfait, i social saranno un luogo da evitare come la peste. Io spegnerò pc e telefono non tanto in segno di lutto quanto per tenermi alla larga dai coccodrilli di chi speculerà sulla caduta della band indie più influente nel panorama musicale di questo quarto di secolo.

Vi dico solo che ho perso il conto di quanti ellepì hanno pubblicato e da quanti anni sono attivi. Non saprei dire qual è il loro album che preferisco, con quale canzone li ho scoperti o quale sia il concerto che mi ha entusiasmato di più. Quante volte ho messo i loro dischi e di quali ho scritto la recensione. Sento un loro brano e faccio fatica persino a collocarlo cronologicamente, a ricondurlo all’album in cui è contenuto. I The National fanno parte di me, e se succede lo stesso per voi sapete bene a cosa mi riferisco. Come per il popolo di Springsteen o, in Italia, la fanbase di Vasco. In modalità differenti e su presupposti diversi, i The National sono i nostri beniamini per difendere i quali siamo pronti a farci esplodere. Dopo di loro, nulla sarà come prima.

Qualcuno tenterà di convincervi del contrario, alludendo a Matt Berninger che probabilmente si metterà al lavoro per il sequel di Serpentine Prison, o a Aaron Dessner che sarà sempre più richiesto come produttore dopo le fruttuose collaborazioni con Taylor Swift, Ed Sheeran, i Big Red Machine e gli svariati interpreti che beneficiano del suo approccio pessimistico e folk all’arrangiamento pop. O ancora al gemello Bryce, che ora vive in Francia e che continuerà ad approfondire le sue ricerche nel campo della musica classica e ai fratelli Devendorf, con i loro incastri ritmici unici al mondo prestati ai dischi altrui.

Abbiamo trascorso tutto questo tempo che è passato da quel capolavoro che è stato I Am Easy to Find divorati dall’angoscia. In mezzo c’è stata persino una pandemia mondiale che ha fatto piazza pulita di quel poco di ottimismo che sopravviveva tra le persone normali, figurarsi per gente incline alla depressione come i The National. Ma la materia prima di cui sono composti, a differenza di altre band di primedonne, ha fatto la differenza. Se i The National si scioglieranno, parole che non riesco nemmeno a pronunciare proprio come Fonzie quando doveva ammettere di essere in errore, sarà perché semplicemente si è consumata l’ispirazione. Nessuno scazzo, nessun battibecco tra musicisti adulti che hanno percorso insieme un lungo cammino, nessun desiderio di maggiore visibilità o di ripartizione dei ruoli o, peggio, questioni economiche. Solo e semplicemente vita che ha fatto il suo corso, un ciclo comune che investe in modo naturale gli esseri viventi.

È Matt Berninger stesso a confermare che ci sono andati davvero vicini, questa volta. Come mai avvenuto in precedenza, tra di loro si è diffusa la percezione che le cose fossero davvero giunte al termine. Poi è accaduto qualcosa che, se non fosse profondamente umano, diremmo che ha del miracoloso. La forza per continuare i The National l’hanno circoscritta all’interno della band. Ogni membro ha fatto da supporto per gli altri del gruppo e ha permesso ai compagni di viaggio una base di sostegno, una rete di solidarietà artistica e umana che ha contribuito a ribaltare la prospettiva. Un terreno fertile da coltivare con abnegazione, da cui hanno preso vita le nuove canzoni.

Una delle prime cose che ti insegnano ai corsi di scrittura creativa è che, per imparare a scrivere, bisogna saper leggere. Matt ha superato il blocco compositivo proprio grazie all’incipit del classico noir di Mary Shelley, da cui è stato tratto il titolo del concept. I cinque nel frattempo hanno continuato a frequentarsi, a suonare dal vivo e a circondarsi del loro entourage popolato da intellettuali del calibro di Sufjan Stevens, Phoebe Bridgers e Taylor Swift a dare, più che un contributo artistico, un supporto morale. Amici che intervengono quando c’è bisogno. Forse sono questi i presupposti da cui è scattato quel qualcosa di cui non siamo al corrente ma a cui saremo eternamente grati. I The National sono tornati al punto di partenza, e lo hanno fatto al meglio delle loro possibilità.

Detto ciò, ecco tre cose fondamentali per comprendere appieno questo disco. La prima: First Two Pages of Frankenstein ha un’impronta fortemente cantautorale, nell’accezione che intendiamo noi in Italia. Più di ogni altro dei loro lavori precedenti, qui la band si è messa completamente al servizio delle liriche e del ruolo di Matt Berninger. Troverete pochissime aperture strumentali, code o soli. Le ritmiche sembrano volutamente defilate, pronte a togliere il disturbo e a sospendersi per rendere ancora più incisiva la narrazione dei testi e aumentare la meraviglia di trovarsi da soli con la voce e poco più.

Le parole, infatti – e questa è la seconda – mai come in questo disco sono importantissime. Decisive. Matt Berninger è unico nell’arte di fermare immagini di solitudine, di coppia e di solitudini di coppia nei suoi versi. Gli arrangiamenti del resto della band aggiungono valore alle canzoni, scavando nella materia tutti gli spazi funzionalmente ricavati per le liriche. Ed è qui che si sprigiona la magia. Dalle tracce prende vita una serie tv a episodi, una raccolta di racconti pervasi di realismo a fornire un’esperienza d’ascolto che non ha confronti. Troviamo tentativi di ricucire storie in bilico, seduti a bordo di una piscina. Ci sono liste di cose da distribuirsi in due quando ci si separa, compresi i dischi dei Cowboy Junkies e degli Afghan Whigs. Si intravedono pacchetti aperti di American Spirits e scorci di intimità, con amanti vestite solo da una maglietta dei New Order, un gatto in braccio e in mano un bicchiere di birra. Si percepisce l’ottimismo fuori luogo di quando non c’è più niente da fare. Si sente il rumore del mondo nelle notizie che scorrono sullo schermo touch di uno smartphone, e il silenzio tra persone che non hanno più nulla da dirsi. Si assiste a meccaniche dichiarazioni d’amore al tavolino a fianco, in un diner qualsiasi. Si controlla insieme l’elenco delle cose di cui possiamo fare a meno, e si può essere d’accordo su tutto ma non sull’importanza di un buon impianto stereo. E c’è un viaggio nella testa dello scrittore, quando fa cilecca e non ne vuole sapere di collaborare, complice l’immaginazione che non si schiera più dalla nostra parte. Sotto, gli echi delle raccomandazioni di Carin Besser, compagna di vita di Matt che, amorevolmente, gli ricorda che la mente non è sempre nostra amica.

Dalla loro posizione di band più rappresentativa dei nostri tempi, i The National – artisti più che maturi all’apice della loro carriera – avrebbero potuto manifestarsi con tutta la loro sicurezza e la loro maestria compositiva (cosa che alcuni di loro fanno già abitualmente per altri interpreti), dare alle stampe un disco ancora più caratterizzante dei loro lavori precedenti, e consacrarsi definitivamente per ciò che sono. Quello che traspare, invece, è la sincera ammissione della fragilità del loro equilibrio, in un momento in cui non sarebbe stato possibile nasconderlo. Fare finta di nulla sarebbe stato un fiasco. Ed ecco, quindi, la terza cosa, ma l’avrete capito anche voi, se mi avete seguito fino a qui. First Two Pages of Frankenstein è il disco migliore dei The National. Il migliore, almeno fino al prossimo.

clic

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Marzo, aprile e maggio sono i mesi che preferisco. Dev’essere questo il motivo per cui, ogni anno, finiscono subito. Ed è sempre la stessa storia: trascorro l’inverno che li precede a segnarmi da parte tutte le cose che farò a marzo, aprile e maggio. E devo scrivermele perché gennaio e febbraio sono così due rotture di palle senza confronti, con le loro centinaia di settimane interminabili, che finisce che me ne dimentico e poi, a marzo, aprile e maggio, accade che, come l’anno prima, non faccio nulla di quello che avrei voluto e loro volano via, il tempo di un clic. Vorrei star fuori la sera a godermi il sole che tramonta tardi ma mi addormento sul divano. Passo il pomeriggio a lavorare al computer quando potrei pedalare lungo i viali con quell’inconfondibile profumo di alberi in fiore. Sbrigo cose in mattinata quando sarebbe invece bello uscire presto, prendere l’auto e passare la giornata fuori porta. Ogni volta mi dico che vorrei trovare un modo per fermare tutto e dire alla primavera di aspettarmi. Aspettatemi, marzo, aprile e maggio. Finisco di scrivere questa cosa per voi e vi raggiungo.

hasta la victoria siempre

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Io con le lingue sono un vero disastro. Già mi agito a conversare in italiano con le altre persone, potete immaginare il mio stato d’animo al cospetto di uno straniero. Mi fa stare talmente a disagio che ho anche sviluppato e brevettato una nuova fobia, la paura delle lingue straniere, che poi ho scoperto che esisteva già, come tutte le cose che pensiamo di sperimentare o anche solo dire per primi. Il punto è che il nome di questa paura, xenoglossofobia, fa ridere, e non rende l’idea del terrore che si prova quando non c’è verso di farsi capire o, peggio, di comprendere il prossimo. Quindi possiamo chiamarla solo paura delle lingue straniere e basta. Decido io, una piccola rivincita al tiro che mi ha giocato il destino. Ho un bambino spagnolo in classe, da qualche settimana, che parla solo spagnolo. A onor del vero è talmente sveglio che se la cava alla grande, con i compagni e con noi, e in questo breve periodo di esplorazione della nuova vita in Italia ha già imparato diverse frasi. Io, invece, no. Sono al punto di partenza. E non credete a quelli che vi dicono che lo spagnolo è facile e intuitivo. Il mio alunno è peruviano e parla velocissimo e tutto attorcigliato. Io uso Deeplo in classe per tradurgli le cose più importanti e lui ride perché l’intelligenza dei traduttori artificiali non è poi così aggiornata ai bambini di oggi. Ho fatto però il calcolo delle parole che so nella sua lingua e ho capito che non farò molta strada. Posso incitarlo come si sentiva nei cartoni di Speedy Gonzales o far leva sul suo orgoglio cantandogli qualcosa degli Inti Illimani o, al massimo, del Sergente Garcia o di Manu Chao, ma qui le cose iniziano a complicarsi. Non conosce nulla dei miei punti di riferimento musicali in spagnolo e, anzi, quando gli ho chiesto che musica gli piacesse non ha saputo rispondere, ma forse perché non ha capito la domanda.

una festa

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Ho fatto il pianista di piano bar, ho dato ripetizioni di latino, e poi ancora il musicista nelle orchestre di liscio, il cameriere, il galoppino di redazione, il musicista a tutti gli effetti, l’insegnante di musica, il turnista in sala di incisione, l’educatore, il programmatore software, il progettista software, il copywriter, l’insegnante di scuola primaria. Ho avuto fortuna, sotto questo punto di vista. Dal secondo anno di università a oggi non ho mai subito un solo giorno il disagio di essere senza lavoro, di non avere un reddito, di non arrivare a fine mese. Certo, ho attraversato momenti di difficoltà – lavoravo in un’agenzia scoppiata insieme alla prima bolla Internet – e c’è stato un periodo in cui ho dovuto barcamenarmi tra tre attività diverse per mettere insieme uno stipendio decente e oggi, a cinquantasei anni suonati, potrei guadagnare un po’ di più, almeno come riconoscimento di anzianità per tutto quello che ho fatto in passato. Ma va bene così. Prima della laurea vedevo la vita come un buco nero. I tempi però erano ancora ricchi di opportunità, tutto sommato. Oggi mi sembra molto più complicato e non saprei da dove iniziare. Per me la festa dei lavoratori è una festa del ringraziamento. Non so a chi, ma grazie per tutto il lavoro che mi è stato concesso.

Petite Noir – MotherFather

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Petite Noir ritorna sulle scene dopo cinque anni di assenza con un disco magnifico. “MotherFather” – fusione di maschile e femminile in un solo genere artistico in grado di esprimere tutto – è pervaso da una straordinaria ecletticità stilistica a corredo di una poetica ispirata e una spiritualità profonda.

Se nessuno vi ha ancora introdotto a Petite Noir, potete cominciare recuperando la discografia precedente a questo nuovo disco, tanto si fa in fretta: l’EP The King of Anxiety e il sorprendente esordio sulla lunga durata, l’album La vie est belle/Life Is Beautiful, pubblicati a qualche mese di distanza l’uno dall’altro nel 2015. Due dischi a cui ha fatto seguito il mini-LP La Maison Noir/The Black House, uscito nel 2018.

L’aspetto che colpisce di più è l’attitudine di Petite Noir a mantenere l’originalità compositiva indipendentemente dagli stili a cui le sue canzoni sono riconducibili. Una qualità palindroma, passatemi il termine, nel senso che non si corre il rischio di sbagliare a pensarla al contrario: modelli eterogenei di musica che calzano in perfetta naturalezza con la sua poetica e la sua estetica di gran classe. Per questo, rimasto a digiuno delle sue produzioni per cinque anni, ho avuto tutto il tempo per riflettere sul fatto se si possa considerare (non paragonare, sia chiaro) Yannick Diekeno Ilunga – questo il suo nome completo – a una sorta di David Bowie panafricano. Con MotherFather, la sua ultima produzione, anche Petite Noir si conferma infatti un musicista alternativo non condizionato dalle proprie origini e dal proprio passato, totalmente libero e pienamente consapevole di sfuggire a qualunque categorizzazione.

Di sicuro, è raro trovare una personalità artistica fuori dagli schemi e così marcata da risultare inconfondibile, qualunque accompagnamento abbia sotto. Il fatto è che nella musica di matrice africana (potremmo usare l’aggettivo black se, nell’accezione a cui siamo più esposti, non costituisse quasi una esclusiva della cultura americana) Petite Noir non teme confronti. Ovunque, nel suo repertorio, riconosciamo le radici electro-afrobeat di ultima generazione e un timbro unico, a sostegno di un miscuglio che suona come una specie di r’n’b dagli echi post-punk, con chitarre ai confini con il metal e atmosfere dalle tinte scurissime. Abbinamenti che ci rendono perfettamente il concetto di noirwave, la definizione che Petite Noir ha coniato per dare delle coordinate a quello che fa, in un impeto di lucidissima e più che giustificata autoreferenzialità.

I genitori di Petite Noir hanno origini congolesi, uno dei cinque posti più poveri della Terra con l’aggravante di una società tramortita da un primitivo conservatorismo ultracattolico. Petite Noir però è un privilegiato. Il mestiere del padre gli permette di nascere a Bruxelles. Da lì crescerà in Sudafrica per poi finire col vivere tra Londra e Parigi. Un cittadino del mondo a tutti gli effetti che non può che suonare la musica del mondo, uno stile la cui traduzione letterale – world music – in questo caso può trarre in inganno e risultare riduttiva.

D’altronde i confini del continente africano coincidono con quelli del mondo stesso, se consideriamo la diaspora e la dispersione a cui vecchie e nuove schiavitù hanno costretto i popoli nati laggiù, nel corso della storia. Spostarsi altrove è stato il destino di molti, ma gli africani sono forse gli unici a cui non è stato permesso di colonizzare nulla. L’aver fortemente condizionato la musica degli ultimi due secoli – magra consolazione, lo so – ha comunque favorito il raggiungimento di una meritata e indiscutibile egemonia, quella sonora (e ritmica, va da sé) sul resto del mondo.

Si ritorna così al punto di partenza, e cioè che Petite Noir è una delle cose più interessanti nel panorama artistico attuale, che MotherFather si candida a disco dell’anno e che se, invece, non lo conoscete e dovete cominciare da qui, fatelo con la traccia #7 del nuovo album, “Simple Things”. Un brano che condensa i cardini dell’arte compositiva di Petite Noir: voce piena che si alterna al falsetto; sound che mescola elettronica a jazz, qui grazie alla sezione fiati diretta dal trombettista Theo Croker; successione di accordi che potrà risultare utile a orientarvi con dimestichezza nel resto della sua produzione. E, poco prima, troverete un secondo featuring a impreziosire l’album, la cantante zambiana Sampa The Great, che presta il suo rap a un’altra perla di questo disco, “Blurry”, uscita come singolo un paio di mesi fa e riconoscibilissima per l’intro in chitarra lo-fi.

MotherFather è frutto di un percorso a ritroso che Petite Noir compie lungo le sue esperienze personali con il razzismo, sperimentato sulla propria pelle durante la sua infanzia a Johannesburg, e con il tema della separazione nell’amore. In dieci canzoni il disco esalta il paradosso della musica, un linguaggio sofisticato e intimo per tradurre nella piacevolezza dell’ascolto anche gli stati d’animo più scomodi e controversi. Pensate infatti a che significato possa avere la fusione in un concetto indistinto (MotherFather, appunto) dei due poli ai lati opposti della vita: se c’è un creatore è maschio e femmina e entrambi i genitori allo stesso tempo, altrimenti che senso avrebbe. Fondamentali anche “Numbers” (la mia preferita) e “Finding Paradise”, due momenti a ridosso di un sound e di una poliritmia riconducibile all’afrobeat, mentre la struggente “Love Is War” e l’effimera “Play” riportano il mood del disco alla libertà espressiva a cui l’artista ci ha educati.

Nel suo nuovo lavoro, Petite Noir si inabissa con determinazione verso scomodi e graffianti richiami ai suoni più ruvidi, per poi risalire con disinvoltura e sublimare in rarefatte atmosfere rituali, tra trance e preghiera, liberandosi dai canoni dell’artificiosità per sposare una purezza senza confronti, consolidando il suo approccio trasgressivo e dimostrando che nella musica nata nell’Africa del terzo millennio si può trovare di tutto perché tutto, davvero, proviene da lì.

perché la bambina?

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I morti di largo Augusto non erano cinque soltanto; altri ve n’erano sul marciapiede dirimpetto; e quattro erano sul corso di Porta Vittoria; sette erano nella piazza delle Cinque giornate, ai piedi del monumento.

Cartelli dicevano dietro ogni fila di morti: Passati per le armi. Non dicevano altro, e tra i morti c’erano due ragazzi di quindici anni. C’era anche una bambina, c’erano due donne e un vecchio dalla barba bianca. La gente andava per il largo Augusto e il corso di Porta Vittoria fino a piazza delle Cinque Giornate, vedeva i morti al sole su un marciapiede, i morti all’ombra su un altro marciapiede, poi i morti sul corso, i morti sotto il monumento, e non aveva bisogno di saper altro. Guardava le facce morte, i piedi ignudi, i piedi nelle scarpe, guardava le parole dei cartelli, guardava i teschi con le tibie incrociate sui berretti degli uomini di guardia, e sembrava che comprendesse ogni cosa.

Come? Anche quei due ragazzi di quindici anni? Anche la bambina? Ogni cosa? Per questo, appunto, sembrava anzi che comprendesse ogni cosa. Nessuno si stupiva di niente. nessuno domandava spiegazioni. E nessuno si sbagliava.

C’era, tra la gente, il Gracco. C’erano Orazio e Metastasio; Scipione; Mambrino. Ognuno era per suo conto, come ogni uomo che era nella folla. C’era Barca Tartaro. Passò, un momento, anche El paso. C’era Figlio-di-Dio. E c’era Enne 2.
Essi, naturalmente, comprendevano ogni cosa; anche il perché delle donne, della bambina, del vecchio, dei due ragazzi; ma ogni uomo ch’era nella folla sembrava comprendere come ognuno di loro: ogni cosa.
Perché? Il Gracco diceva.

Una delle due donne era avvolta nel tappeto di un tavolo. L’altra, sotto il monumento, sembrava che fosse cresciuta, dopo morta, dentro il suo vestito a pallini: se lo era aperto lungo il ventre e le cosce, dal seno alle ginocchia; e ora lasciava vedere il reggicalze rosa, sporco di vecchio sudore, con una delle giarrettiere che pendeva attraverso la coscia dove avrebbe dovuto avere le mutandine. Perché quella donna nel tappeto? Perché quell’altra?
E perché la bambina? Il vecchio? I due ragazzi?

Il vecchio era ignudo, senz’altro che la lunga barba bianca a coprire qualcosa di lui, il colmo del petto; stava al centro dei sette allineati ai piedi del monumento, non segnato da proiettili, ma livido nel corpo ignudo, e le grandi dita dei piedi nere, le nocche delle mani nere, le ginocchia nere, come se lo avessero colpito, così nudo, con armi avvelenate di freddo.

I due ragazzi, sul marciapiede all’ombra di largo Augusto, erano invece sotto una coperta. Una in due, e stavano insieme, nudi i piedi fuori della coperta, e in faccia serii, non come i morti bambini, con paura, con tristezza, ma serii da grandi, come i morti grandi vicino ai quali si trovavano.
E perché loro?

Il Gracco vide, dov’era lui, Orazio e Metastasio. Con chi aveva parlato, nella vigilia dell’automobile, di loro due?
Con l’uno o con l’altro, egli aveva parlato tutta la sera, sempre conversava con chi si incontrava, e ora lo stesso parlava, conversava, come tra uomo e uomo si fa, o come un uomo fa da solo, di cose che sappiamo e a cui pur cerchiamo una risposta nuova, una risposta strana, una svolta di parole che cambi il corso, in un modo o nell’altro, della nostra consapevolezza.

Li guardò, dal lato suo dell’angolo che passava attraverso i morti, e una piccola ruga venne, rivolta a loro insieme allo sguardo, in mezzo alle labbra di quella sua faccia dalle tempie bianche.
Orazio e Metastasio gli risposero quasi allo stesso modo. Come se lui avesse chiesto: E perché loro? Mossero nello stesso modo la faccia, e gli rimandarono la domanda: E perché loro?
Ma c’era anche la bambina.
Più giù, tra i quattro del corso, dagli undici o dodici anni che aveva mostrava anche lei la faccia adulta, non di morta bambina, come se nel breve tempo che l’avevano presa e messa al muro avesse di colpo fatta la strada che la separava dall’essere adulta. La sua testa era piegata verso l’uomo morto al suo fianco, quasi recisa nel collo dalla scarica dei mitragliatori e i suoi capelli stavano nel sangue raggrumati, la sua faccia guardava seria la seria faccia dell’uomo che pendeva un poco dalla parte di lei.
Perché lei anche?

Gracco vide passare un altro degli uomini che aveva conosciuto la sera prima, il piccolo Figlio-di-Dio, e fu un minuto con lui nella sua conversazione eterna. Rivolse a lui il movimento della sua faccia, quella ruga improvvisa in mezzo alle labbra, quel suo sguardo d’uomo dalle tempie bianche; e Figlio-di-Dio fece per avvicinarglisi.
Ma poi restò dov’era. Perché lei? il Gracco chiedeva. E Figlio-di-Dio rispose nello stesso modo, guardandolo. Gli rimandò pure lui la domanda: perché lei?
Perché?, la bambina esclamò. Come perché? Perché sì! Tu lo sai e tutti lo sapete. Tutti lo sappiamo. E tu lo domandi?
Essa parlò con l’uomo morto che gli era accanto.
Lo domandano, gli disse. Non lo sanno?
Sì, sì, l’uomo rispose. Io lo so. Noi lo sappiamo.
Ed essi no? la bambina disse. Essi pure lo sanno.

Vero, disse il Gracco. Egli lo sapeva, e i morti glielo dicevano. Chi aveva colpito non poteva colpire di più nel segno. In una bambina e in un vecchio, in due ragazzi di quindici anni, in una donna, in un’altra donna: questo era il modo migliore di colpir l’uomo. Colpirlo dove l’uomo era più debole, dove aveva l’infanzia, dove aveva la vecchiaia, dove aveva la sua costola staccata e il cuore scoperto: dov’era più uomo. Chi aveva colpito voleva essere il lupo, far paura all’uomo. Non voleva fargli paura? E questo modo era il migliore che credesse di avere il lupo per fargli paura.

Però nessuno, nella folla, sembrava aver paura.
Aveva paura il Gracco? O Figlio-di-Dio? Scipione? Barca Tartaro? Non potevano averne. O poteva averne Enne 2? Non poteva averne. Allo stesso modo ogni uomo ch’era nella folla non aveva paura. Ognuno, appena veduti i morti, era come loro, e comprendeva ogni cosa come loro, non aveva paura come non ne avevano loro. Avrebbe anche potuto essere stato con loro, la sera prima. Poteva anche conversare col Gracco.

Il Gracco conversava, infatti, con ognuno.
Era dinanzi ai morti, uno incontrava la sua faccia, e a lui veniva, nel mezzo delle labbra, quella piccola ruga. perché, tu dici? Questo il Gracco diceva: Perché, tu dici?
Perché? l’altro diceva. certo che lo dico. Non debbo dirlo?
Puoi dirlo se lo vuoi, diceva il Gracco.
E la donna? l’altro diceva. Lo dico sì. Perché la donna?
Oppure: Perché la bambina?
Oppure: Perché questi due ragazzi?

Diceva allora il Gracco: E quest’uomo no? Perché quest’uomo?
Era un uomo alto, di cui non si vedeva la faccia. Si vedevano le sue gambe, forti, coi lunghi muscoli di uomo nel fiore degli anni, le scarpe ai piedi messe senza le calze, e, per il resto, in mutande e camicia. Aveva scuri i polsi, e le mani chiuse di uno che stia stringendo i denti. Ma sulla faccia gli era stata gettata una giacca.
Perché era come per nascondere un tradimento che gli si fosse fatto, a lui nel fiore degli anni, peggiore che agli altri. perché quest’uomo? diceva il Gracco.
E quello che parlava con lui: già. Perché?

Il Gracco lo diceva di ognuno dei morti. Gli veniva la ruga in mezzo alle labbra, guardava, e quello guardava allo stesso modo. Ogni uomo morto era come la bambina. Una cosa si sapeva per tutti i morti, e se si cercava una risposta nuova, parole che cambiassero il corso della nostra consapevolezza, non si poteva chiedere che perché per tutti insieme.”

Elio Vittorini, “Uomini e no”.

lombroso

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A scuola è successa una cosa che ha dell’incredibile. Qualcuno ha rubato una fotocamera 360 per la realtà immersiva dall’attrezzatura pronta per essere collocata nel laboratorio stem. Siamo riusciti finalmente a organizzare la formazione per i colleghi, la scorsa settimana. Per allestire il set della parte pratica del corso, ho messo in carica i visori e quando ho aperto la scatola della fotocamera dentro era vuota. La scuola è un porto di mare, purtroppo. Quest’estate hanno cablato tutti i plessi del mio comprensivo e a novembre hanno sostituito otto vecchie LIM con altrettanti modernissimi schermi touch. Se ho ricondotto il furto a questi due episodi è perché il dispositivo è talmente anonimo e da addetti ai lavori che solo uno del settore poteva rubarlo. Con tutta la tecnologia consumer che abbiamo a scuola – a partire da tablet e pc – più facilmente rivendibile, la sparizione di apparecchiature specifica restringe i sospetti sulle uniche persone in grado di riconoscere che il contenuto della scatola dalla sagoma di un telecomando non era, appunto, un telecomando. Se poi volete un parere personale, i tecnici che si sono occupati degli interventi nella mia scuola avevano qualcosa di losco ma, come potete immaginare, potrei anche essere stato io. Di certo non i miei colleghi – poco avvezzi alla realtà virtuale e mista – per non parlare dei bambini della scuola, la fotocamera non assomiglia né a un iPhone e tantomeno a un pallone. Mi sono improvvisamente ricordato di chi potrebbe essere il colpevole – uno di quelli che portava su per le scale i proiettori smontati per ammassarli nell’aula ripostiglio dove riponiamo tutto quello che non serve all’istante – proprio ieri pomeriggio, e unicamente perché a Milano esiste Via Lombroso e non so se si tratti proprio di quel Lombroso che matchava facce a tendenze criminali. Ma la vergogna per il rigurgito di pregiudizio che mi è fuoriuscito dai pensieri è stato sovrastato all’istante dal fastidio di ritrovarsi in mezzo alle migliaia di persone convenute nello stesso posto in cui mi trovavo io e per lo stesso motivo. Gli ex-macelli di Via Lombroso erano una delle principali mete delle iniziative del Fuori Salone, aspetto che si evinceva dalla coda all’ingresso che non aveva nulla da invidiare da quella da più di un’ora che avevo dovuto sopportare pazientemente qualche settimana fa fuori dai cancelli dell’Allianz Cloud per la partita di coppa tra Vakifbank e Vero Volley Monza. A Milano siamo in tanti e abbiamo tutti le stesse idee simultaneamente. Posso quindi confermare di esser stato al Fuori Salone non più di dieci minuti. Mi sono allontanato dalla folla, ho mangiato un gelato spaziale alla Gelateria Marchetti e ho trovato rifugio al Coin, dove sono tornate di moda le sedie con le strisce di plastica colorata e persino la gente che non era nata quando c’erano le sedie con le strisce di plastica colorata sorridevano toccando le sedie con le strisce di plastica colorata.

le basi

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A quelli della mia generazione che hanno solo la terza media – oggi non sarebbe più ammissibile – invidio il fatto di non avere gli strumenti per provare la sensazione degli incubi sugli anni del liceo e sull’esame di maturità. La mia esperienza più recente risale a un paio di notti fa. Nonostante fossi piombato in classe da un’altra scuola – se non da un’altra vita – la prof di matematica pretendeva, già a partire dal primo giorno, che fossi allineato sul programma (alla faccia dell’inclusione) mettendomi alla prova con un astruso problema di geometria. C’era quel triangolino rettangolo che fuoriesce come uno scampolo di stoffa ai lati del trapezio isoscele, avete presente? Io sapevo benissimo come calcolare la misura della base ma il punto non era quello perché il teorema di Pitagora negli incubi e con la realtà sottosopra non dimostrava un bel niente. C’erano altre cose di cui tener conto che a scuola, almeno in quella che conosco io, nessuno te le insegna. Occorreva infatti tirare in balli vari i fattori economici e sociali per trovare una soluzione e la cosa mi ha mandato in confusione, proprio come accadeva allora. Il mio compagno preferito era invece in carne e ossa, o almeno quello che mi ricordo di lui, tutto vestito di rosso come il pesce che sfoggia nella foto del suo profilo Facebook, ma nessuno – tantomeno lui – sembrava in grado di potermi aiutare. In classe, nel nostro banco vero o onirico che sia, siamo tutti soli al cospetto della valutazione. Poco prima avevo addirittura trascorso un’intera ora angosciato del fatto di non aver studiato anche se, quando ti trasferisci ed è il primo giorno, i docenti sono tenuti a essere più indulgenti. Il senso del tempo, a scuola, è distorto, ma questo anche nella vita vera. Per i docenti vola in un attimo, per i ragazzi dev’essere un incubo. Le ore di matematica non finiscono mai.

Daughter – Stereo Mind Game

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Il ritorno dei Daughter è la colonna sonora dell’equivoco di fondo dei tempi che corrono: viviamo a distanza nella speranza di rincontrarci ma ci facciamo bastare l’idea di farlo. Ci appaga di più e ci protegge dalla paura di rimanere delusi.

Potrebbe essere la trama di una di quelle serie tv in cui ci piace affogare compulsivamente il nostro senso di inadeguatezza alla vita contemporanea. In un presente distopico la musica è materia a tutti gli effetti, ma in forme che non riusciamo a cogliere. Si trova in quello che mangiamo, nell’aria che respiriamo, nelle cose che vediamo. Le persone più sensibili hanno qualche effimera reminiscenza o poco altro. “Io ti ho già visto da qualche parte”, si dicono quando si incontrano, e si allontanano fischiettando il solo di “Smells Like Teen Spirit”. “Dove ho già percepito questo odore?”, pensano con il naso per aria, senza però mettere a fuoco nulla di concreto, ma che c’entra qualcosa con i Massive Attack. Osservano il panorama sfuggente dal finestrino di un treno in corsa, provano una sensazione di già sentito ma non riescono a isolarla a fondo, forse un video dei Chemical Brothers. Solo un gruppo di nerd, una specie di setta ai margini dell’economia, riesce a separare sottobanco la musica dal resto e a organizzarla in canzoni attraverso dispositivi (a corde, a fiato, a tastiera) di cui solo loro si tramandano la tecnica. Conoscono anche il segreto di fermarla e fissarla su un supporto ed ecco che la musica può essere divulgata e compresa dalla gente comune. Il senso è che le canzoni sono sempre esistite, da qualche parte e in qualche tempo. Semplicemente non siamo abbastanza evoluti da accorgercene. Fine.

Anzi, no. Prendete il nuovo album dei Daughter. Le tracce di cui è composto ci sono sempre state. Le abbiamo ascoltate più volte, negli ultimi trent’anni. Ma solo ora che sono state definite con un inizio e una fine e codificate in una forma da noi decodificabile, ci viene chiesto di ascoltarle per la prima volta, ed ecco che ci viene da dire che no, non è vero. Stereo Mind Game fa parte della nostra collezione di dischi da sempre. Ma come fare a provarlo?

Possiamo procedere per tentativi. Il fatto che la band sia riconducibile a un genere che si chiama dream-pop non vale. Sarebbe riduttivo banalizzare un gesto di così profondo valore artistico alla sola dimensione onirica. A mettere in discussione le leggi della fisica nei sogni siamo capaci tutti. Lasciamo stare anche il gioco delle somiglianze a tizio o a caio. Ok, anche nei Portishead e nei Cocteau Twins ci sono gli archi, un incedere rallentato e una voce femminile, ma da voi pretendo di più. E il fatto che i Daughter si prestino alla sonorizzazione di videogiochi può essere rilevante, ve lo concedo. Ma non è solo questo.

Senza contare che i Daughter sono cintura nera di malinconia. Campioni del mondo di spleen. Eppure, non sono io a dirlo, rispetto a due titoli-manifesto dell’assenza come If You Leave e Not To Disappear qui c’è una vaghezza di ottimismo/realismo. Anni dopo l’ultima pubblicazione, Elena Tonra, Igor Haefeli e Remi Aguilella lavorano a distanza per scelta sul nuovo materiale. Poi la pandemia sovverte (a loro come a tutti noi) le priorità, ed ecco che mantenere i contatti in isolamento si consolida in metodo.

La musica d’insieme, che è un amalgama di voci, quando si ferma a mera somma delle parti si snatura, e non necessariamente con un’accezione negativa. La sfida è mantenere il controllo, rendere il risultato organico per quanto possibile. Ed ecco che, laddove non può esserci l’effetto che solo l’ascolto reciproco in tempo reale con gli strumenti in mano può conferire a un pezzo, il parziale sovvertimento dei canoni compositivi tradizionali ci apre le porte di un nuovo genere. Questo processo in cui si applicano in modo asincrono strati di cose l’uno sopra l’altro somiglia molto alla composizione di musica per film. E forse è questo che ci rende così famigliare Stereo Mind Game. Uno scherzo che ci gioca la nostra mente, facendoci credere che qui, in questo disco, ci siamo già stati. Non abbiamo traccia di quando, ma siamo sicuri di esser stati noi i protagonisti.

Il risultato è che in Stereo Mind Game il tema della separazione, dell’assenza e del desiderio di ritrovarsi è reso ovunque e in modo efficace. L’album ci accoglie con i bicordi di chitarra trattati con il delay di “Be On Your Way”, un approccio che mette l’ascoltatore nelle migliori condizioni per assumere la forma più adatta a quello che sta per accadere. Il pattern di batteria, un vero cliché del genere con tutti quei colpi in più di rullante che inducono alla sicurezza che il benessere che stiamo provando non ci lasci alla misura successiva, conferisce quel senso appagante di ciclicità e ipnotica ricorsività che poi è l’aspetto che più di ogni altro ci illude di far parte del ritmo a cui ci viene chiesto di abbandonarci, come in quei giochi in cui chiudiamo gli occhi e ci lasciamo cadere all’indietro consapevoli che qualcuno ci sorreggerà. Una tecnica sagace, ripresa magistralmente nella straordinaria “Swim Back” e, in maniera più sommessa ma altrettanto convincente nelle conclusive “To Rage” e, su tutte, “Wish I Could Cross The Sea”.

Ci sono poi tracce in cui i Daughter si propongono invece in un’anomala linearità ritmica che si riflette in una forma-canzone più scorrevole ma altrettanto angosciante, a iniziare da “Party”, da un verso della quale è tratto il titolo dell’album, fino ai turbamenti di “Junkmail” e alle domande senza risposta di “Future Lover”: come è il futuro? C’è abbastanza tempo? C’è spazio anche per brani riconducibili al folk etereo che abbiamo apprezzato nei dischi precedenti, come “Neptune”, il cui coro finale rasenta la perfezione, la quasi totalmente acustica “Isolation” e “Dandelion”, capace di accelerare i battiti e confermare che in velocità si riesce ad essere più sfuggenti nel modo di suonare e cantare musica indie-folk.

Il fiore pressato nella foto della copertina di Stereo Mind Game, una pratica per sognatori d’altri tempi, anni luce dai sospiri digitali che affidiamo agli algoritmi e alle intelligenze artificiali, incarna perfettamente l’anima di questo disco e degli anni controversi che ci stanno consumando. Noi, esseri umani lasciati soffocare come una pianta tra le pagine di un libro. Ciò che resta è solo la nostra forma priva dell’essenza a beneficio di chi lo sfoglierà o, peggio, come natura priva di vita, scelta a corredo di un erbario qualsiasi. A una decade esatta dal loro disco d’esordio, i Daughter ripropongono la loro poetica con una visione più matura, giustamente disincantata, ma ancora in grado di farci trovare rifugio in un altrove volutamente distante da qui.

venti

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Da ieri in classe siamo in venti, cifra tonda. Fino a due giorni fa eravamo in 19, un inutile numero primo, e non potete capire quante occasioni mancate, per uno che insegna matematica. Nessun esempio a portata di mano per multipli e divisori. E invece avete presente quante possibilità ci sono per imparare le frazioni o formare gruppi di diversa composizione? “Dividetevi in cinque squadre!”, potrò dire d’ora in poi in palestra. Certo, fino alla metà della seconda eravamo in 18 ed era ancora meglio, per via della presenza del 3, e un po’ mi rammarico del fatto che non ci sia nessuna possibilità di arrivare a 24 – il non plus ultra: si divide per due, tre, quattro, sei, otto e dodici – entro il prossimo anno in quinta, anche se il flusso migratorio, che cresce in via esponenziale malgrado le farneticazioni propagandistiche dei fasciofratellistiditalia, potrebbe riservarci delle sorprese. Ne hanno parlato proprio ieri sera al telegiornale.

Comunque vi presento il mio NAI, acronimo che sta per Neo Arrivati in Italia, un ragazzino di quasi 11 anni che ha raggiunto la sua mamma due settimane fa dal Perù. La collega della commissione stranieri me l’ha ufficializzato in corridoio allo stesso modo in cui si chiede in prestito la chiavetta per la macchinetta del caffè. Io credevo che per certe cose ci volesse un minimo di confronto ma poi ho pensato ai chirurghi del pronto soccorso che, in quanto a imprevisti, battono tutti. Era l’ultimo giorno prima delle vacanze, mentre l’inserimento sarebbe avvenuto subito al rientro. Al ritorno dalla mensa c’era già il banco e la sedia in più grazie allo zelo delle collaboratrici che hanno reso finalmente simmetrica la disposizione delle file in aula. I miei alunni mi hanno chiesto dettagli, ma io ne sapevo quanto loro. Fino a ieri, quando NAI è stato accompagnato nella mia quarta dalla bidella.

Il pomeriggio precedente, mentre mi documentavo per allestire una poco credibile slide di benvenuto da proiettare alla LIM, mi è venuto da giocare al gioco del lancio dell’omino giallo di Google Streetview a caso questa volta su Lima che, ho scoperto, è un gioco che non si dovrebbe mai fare con i posti più poveri di quello in cui si vive. Ho viaggiato virtualmente tra le strade sterrate della povertà e l’attesa di conoscere NAI si è trasformata in ansia allo stato puro. Al terrore di comunicare con lui senza capirci – parla solo spagnolo e combinazione la mia fobia più grande è quella delle lingue straniere, cioè vivere una situazione in cui nessuno si sforza di farmi capire cosa dice – si è aggiunto il fattore accoglienza nei confronti di un immigrato a tutti gli effetti. Non solo. Una delle tre informazioni che mi hanno passato è che sembra essere piuttosto chiuso e timido. Le altre due sono che la mamma è qui da un lustro a fare la badante e che l’offerta comprende un fratellino – un po’ più sorridente – che approda alla prima.

Il primo giorno di scuola di NAI non poteva andare peggio, a partire da me da solo che alternavo la presenza in classe con il ruolo di collaboratore tecnico per le prove invalsi della secondaria nel nostro laboratorio di informatica (la rete alla secondaria non regge). In più, l’attività che avevo previsto per rompere il ghiaccio con NAI si è rivelata un vero e proprio fiasco. Delle tre parole in spagnolo sottovoce che ha pronunciato (senza nemmeno togliersi il cappuccio del piumino dalla testa) ho afferrato che gli piace la matematica, così l’ho messo subito sotto con calcoli e problemi (senza testo ma con il disegno) in modo da non forzare con il gap linguistico e consentirli un po’ di tregua con quella specie di esperanto che sono i numeri. Quando l’ho accompagnato all’uscita tra le braccia della mamma prima della mensa – inizierà il tempo pieno solo la settimana prossima – mi ha concesso un mezzo sorriso. Mentre scendevamo le scale gli ho tradotto sul mio smartphone la domanda se si sentisse stanco, dopo quella mattinata nella nuova scuola. Mi ha risposto di sì.