tolc to me

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Sono passati più di dieci anni dalla prima volta in cui ho immaginato il primo incontro con un aspirante pretendente di mia figlia. A giugno del 2012 aveva appena terminato la terza elementare e mi potevo permettere di speculare sul suo futuro, forte del fatto che la massima preoccupazione di mia moglie e mia fosse l’approccio da villaggio turistico degli animatori dell’oratorio estivo che le insegnavano il movimento sexy e altri balli di gruppo tremendamente inappropriati per la sua età. Quanta spensieratezza. Oggi mia figlia è una giovane donna di diciannove anni che, in questo preciso momento, è alle prese con il TOLC-E, il test preliminare per l’accesso alla facoltà di Scienze Politiche. O, almeno ci sta provando: ha scelto la modalità da remoto ma, proprio stamattina, anzi, anche stamattina, c’è qualcuno nel vicinato che ci dà dentro con il tosaerba mentre uno dei requisiti per sostenere la prova da casa è proprio posizionarsi in un ambiente silenzioso. Il paradigma del benessere psicofisico della contemporaneità è lo smartworking ma non dobbiamo dimenticare che lavorare da casa riduce i gradi di separazione tra quello che facciamo e quello che fanno i nostri vicini, che in genere sono vecchi di merda che non sanno come passare il tempo se non rompendo i maroni al prossimo con le attività più fastidiose possibili. Io, per sfortuna, non possiedo un giardino ma sono il proprietario di un discreto impianto stereo e, soprattutto, numerosi dischi rumorosissimi. Spero così di poter ricambiare un giorno gli anziani giardinieri della zona con del sano punk industriale. Oggi il moroso di mia figlia non è più solo il protagonista di un episodio di questo blog ma ha preso corpo ed è realtà. Il passaggio dal piano narrativo a quello fisico si è manifestato ieri sera a cena. Per mia fortuna non è un musicista come quello che avevo descritto ma un bravo ragazzo, molto premuroso, serio e sicuro di sé. Anche mia figlia, del resto, ha già conosciuto i genitori di lui. Devo ammettere che è una pratica che mi ha sorpreso. Una volta, l’ingresso in famiglia costituiva un momento di una certa solennità che si riservava non dico per il fidanzamento ufficiale ma, per lo meno, quando le cose si iniziavano a fare sul serio. Oggi, probabilmente, l’aperta condivisione delle esperienze con i genitori è frutto dell’eccessiva ingerenza reciproca tra le rispettive vite. Non dobbiamo stupirci se, avendoli trattati come adulti sin dai tempi dell’asilo, si siedono alla pari con noi ora che lo sono davvero. Sono comunque felice che si sentano così consapevoli dei loro sentimenti, indipendentemente se si tratterà di una relazione duratura o di un amore estivo.

caf

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I centri di assistenza fiscale qui da noi si chiamano come la triade più potente della prima repubblica. E i segnali sono ovunque: qualche giorno fa è morto Arnaldo Forlani proprio mentre un impiegato ACLI mi stampava l’F24 di una dichiarazione integrativa per redditi che non ho pagato nel 2020. Non voglio girarci intorno: sono un evasore come tutti gli altri, anch’io faccio parte di questo popolo che sta fottendo i soldi del PNRR all’Europa. Quindi non credetemi se vi confesso di non averlo fatto apposta. Nel 2019 ho portato a termine due lavorazioni dello stesso importo (poca roba, qualche centinaio di euro) e, nell’agitazione di fare tutte le cose per bene, ne ho dichiarata solo una. Se fate il 730 precompilato saprete benissimo il senso di solitudine che tale procedura trasmette, mentre preparare la dichiarazione congiunta ha un che di romantico, ti fa sentire indissolubilmente legato al partner. Mi piace poi l’idea del cassetto fiscale, come quello dei calzini davanti al quale noi mariti non notiamo l’evidenza e ci affidiamo allo spirito di osservazione delle nostre mogli. Una dichiarazione integrativa induce invece a uno stato di irrequietezza interiore con l’aggravante delle paure irrazionali per una gamma di cose che vanno dal pignoramento della casa alla morte che, come dicevano i Depeche Mode, è davvero dappertutto a partire dall’F24 che è uno strumento di tortura. Intanto mi chiedo se era il caso di chiamarlo così. Poi tutta quella sfilza di codici da inserire e la difficoltà nel reperirli. Ma non do la colpa solo al fisco. Il modulo online del mio sistema di home banking ci mette del suo e prima di azzeccare la combinazione giusta mi tocca sempre fare qualche tentativo. Fino al jackpot finale – non si vince niente se non la sicurezza di non incorrere in una ulteriore sanzione – sempre che il giochino non ti renda dipendente. Secondo me sarebbe stato più semplice detrarre direttamente l’ammanco del 2019 dal rimborso di quest’anno, evitandomi tutto questo sbattimento. Da questa esperienza ho però capito una cosa: tutte le cose che comportano maneggio di soldi pubblici devono per legge chiamarsi CAF.

hobby&work

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La scuola è un lavoro meraviglioso e allo stesso tempo un hobby appassionante. Si lavora nelle ore di servizio, in mensa e in programmazione. Terminate le ore in classe ci sono poi i consueti straordinari per finire tutto il resto che nel tempo regolamentare abbiamo lasciato a metà, un insieme di cose che va dalle correzioni delle verifiche, i giudizi descrittivi da articolare nel registro elettronico, la preparazione delle lezioni successive e molto altro. Infine, concluso tutto questo, possiamo dedicarci al nostro hobby preferito nel tempo libero che è ancora la scuola, con le numerose email di colleghi e genitori che meritano una risposta, i corsi di formazione da seguire o i confronti sulle piattaforme social inerenti i macro-temi della pedagogia o delle discipline che insegniamo, oppure qualche fuori programma comunque sempre riconducibile alla nostro lavoro che alcuni dicono essere una missione ma poi, chi è di questa idea, lo ritrovi spesso in prima linea a denigrarci quando (e scusate se mi ripeto) qualche dipendente pubblico fantastico in grado di esercitare superpoteri come assentarsi 20 anni su 24, o spararsi Napoli – Milano a/r in giornata, sale agli onori della cronaca.

Ma, a parte questa letteratura da spiaggia, la meraviglia della scuola è che è il mestiere in cui, più di ogni altro impiego, un individuo può davvero sentirsi utile. Non avete idea di quanto sia facile darsi da fare per il prossimo. Lo so, direte voi, può sembrare facile, in un ambiente composto al 99% di esseri umani (studenti, genitori, bidelli, docenti, personale amministrativo) e dall’1% di asset. Lanci una buona azione chiudendo gli occhi e stai sicuro che comunque riesci a colpire qualcuno. Fare cose per gli altri, a scuola, è facilissimo. A volte in queste buone azioni ci passi dentro come quei videogiochi in cui SuperMario attraversa le monete per aumentare il punteggio, avete presente? Questo perché tutti, nella scuola, hanno bisogno di qualcosa ed è un qualcosa che è alla portata di tutti gli altri. Oppure ci si può anche impegnare, a essere utili, ci si può mettere all’opera e cercare cosa c’è da fare per la collettività e, come potete immaginare, è un po’ come quando sollevi una botola e ti trovi sotto una stanza del tesoro.

Stamattina mi è capitata una cosa bellissima che rientra in quei casi in cui, ad aiutare il prossimo a scuola, ti ci imbatti dentro. Non c’è molto da dire: una ragazzina in attesa del suo turno all’orale di terza media è andata nel panico perché non riusciva più ad aprire la presentazione che aveva preparato da esporre alla commissione. Io non insegno alla secondaria, ero lì perché c’è l’ufficio della mia dirigente ed ero in meeting con lei. Anzi, a onor del vero stavo già tornando a casa ma la dirigente mi ha telefonato per chiedermi se potevo tornare indietro. La ragazzina era completamente in tilt, altrettanto la mamma che avrebbe dovuto infonderle coraggio e così anche la nonna, che non sapeva che pesci pigliare. Ci siamo messi all’opera sul suo PC e in pochi minuti la sua presentazione sul razzismo è tornata a rifulgere in tutto il suo splendore. La mamma si è commossa, la nonna si è esaltata, la ragazzina si è calmata e, constatato che tutto era sotto controllo, questo miracolo ha definitivamente sancito la fine della mia giornata lavorativa, pronto a dedicarmi – una volta rientrato a casa – al mio hobby preferito che avrete capito qual è.

ti sblocco un ricordo

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Ogni tanto scatto uno screenshot del mio collega di sostegno durante i GLO del mio ACD (anche la scuola in quanto ad acronimi non scherza) su Meet e lo mando alla sua responsabile del comprensivo in cui insegno per farci due risate. Le scrivo sempre la stessa didascalia, “ti sblocco un ricordo” perché io sono uno dei tanti maschi etero bianchi della terza età che fanno sempre le stesse battute perché, in primis, fanno ridere me e per questo non ho intenzione di desistere. Ma la Franci, la responsabile si chiama così, credo che apprezzi il mio senso dell’umorismo da sad dad, come direbbero i The National, e quindi continuo imperterrito sul medesimo registro. Le espressioni che il mio collega di sostegno fa sono un compendio delle macchiette della commedia scollacciata all’italiana e meritano di essere immortalate. Peccato non possa sbloccare un ricordo anche a voi.

Per farvi capire, quando facevo il copy, nella mia agenzia avevo un web developer nemmeno tanto giovane che faceva così tardi a giocare ai videogiochi durante la notte che poi, di giorno in ufficio, seduto alla scrivania di fronte alla mia, si addormentava in continuazione. Io gli scattavo delle foto di nascosto durante le sue reiterate pennichelle al computer e poi le mandavo alla sua responsabile che lavorava in remoto ma non a scopo delatorio, ci mancherebbe. Il punto è che bisogna imparare a stare al mondo e certe cose te le puoi permettere solo se fai le scuole medie. Era una gag consolidata, io le inviavo alla sua capa e ci facevamo grasse risate su whatsapp, e ho continuato a farlo (avevo messo su una collezione così ampia che, se non avessi rischiato querele e chissà cos’altro, mi sarei potuto poporre per una mostra fotografica o per lo meno andare on line con un blog tematico sul fannullonismo) perché so che lei apprezzava proprio come la Franci quando le mando gli screenshot del mio collega di sostegno.

Quest’anno l’hanno affibbiato a me con la scusa che sono vicepreside ma anche perché sanno che ho un temperamento paziente. Ce lo siamo passati un po’ tutti, poi a fine anno scolastico i malcapitati di turno – l’ho appena fatto anch’io, qualche settimana fa – vanno dal dirigente a implorarlo di lasciare qualcun altro con il il cerino in mano, al prossimo giro. Potrei dirvi tante cose su di lui. Parla solo in dialetto o al massimo in un idioma italo-calabro, pur essendo laureato e anche molto più giovane di me. Entra in classe, accende il suo computer e si mette a guardare chissà che cosa ma forse è meglio così, perché ogni tanto si sveglia dai suoi 10 mesi di vacanza e interviene a cazzo nelle lezioni e i miei alunni – che in quanto a ciarlatani, dopo anni di mie spiegazioni, se ne intendono – lo osservano sbigottiti. Riprende pure la specialista madrelingua inglese, e io mi imbarazzo per lui. La mia collega di team gli ha chiesto di fare una fotocopia ed è rientrato in classe dopo un’ora abbondante. Ogni tanto si assenta per qualche riunione sindacale ed è allora che tiriamo un sospiro di sollievo.

Ho pensato a lui leggendo della docente che si è imboscata per 20 anni su 24 – vi riporto solo il titolo da clickbait perché ben me ne guardo dal soddisfare la mia morbosa curiosità fasciogrillista latente andando a fondo nella notizia – e il pensiero è poi subito rimbalzato verso la bidella pendolare quotidiana della tratta Napoli Milano in alta velocità a botte di centinaia di euro la settimana. La narrazione della scuola estiva purtroppo è questa, e io mi adeguo. Sogno un futuro in cui potrò lavorare, come tutti voi, fino al 31 luglio.

Protomartyr – Formal Growth in the Desert

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Potrebbe essere l’anno dei Protomartyr. “Formal Growth in the Desert” è la prova che la crescita della band di Joe Casey fuori e dentro i luoghi aridi della vita – reali o metaforici che siano – ha dato i suoi frutti.

Sulla sua pagina Wikipedia Joe Casey è definito – o si descrive, vai a sapere chi l’ha compilata – uno che si distingue per la sua voce e per il modo anti-carismatico di calcare le scene. Io aggiungerei che, più che ogni altra cosa, si fa notare per le sue indubbie qualità di autore e, già che ci siamo, ne approfitterei per aggiornare le sue informazioni alla luce dell’ultimo album dei Protomartyr, un disco che si chiama Formal Growth in the Desert e che vedremo ai primi posti delle classifiche a fine anno, statene certi.

Il frontman della band di Detroit oggi è un cantante pressoché completo, capace di coniugare il suo disagio post-punk (in un disco in cui l’etichetta post-punk risulta ampiamente superata) insieme a un raffinato stile da crooner a tratti quasi credibilmente confidenziale. Tutto questo mentre il chitarrista e produttore Greg Ahee, il batterista Alex Leonard e il bassista Scott Davidson gli srotolano sotto uno dei più complessi tappeti sonori sulla piazza, privo di compromessi con la linearità o, al limite, con qualcosa che induca anche lontanamente a muoversi a ritmo. Sul discorso del carisma, poi, c’è ben poco da dire. Se siete ancora qui a farvi condizionare solo perché uno ha un’attitudine allo star system da geometra del catasto alle prese con il karaoke durante un pranzo di matrimonio, provate con i Fontaines D.C. o qualche altro cantante piacione, così risolviamo il problema alla radice.

A me piace invece considerare i Protomartyr un vero e proprio fenomeno, a partire proprio da Joe Casey. Una band dagli equilibri e squilibri perfetti in cui l’apporto di ciascuno dei quattro vive in ragione di quello messo in campo dai propri sodali. Se, come sostengono in un’intervista, Formal Growth in the Desert è il loro primo disco da ascoltare in cuffia (esperienza che vi invito caldamente a provare) il merito è corale. Da una parte c’è la crescita artistica dei Protomartyr, facilmente riscontrabile album dopo album. Dalla trilogia della ruvidezza abbaiata nei primi dischi all’implosione dark di Relatives in Descent, un punto di non ritorno che ha raffinato l’approccio compositivo poi sublimato in Ultimate Success Today.

Uno stile diretto e amabilmente ostico che permane tutt’ora inconfondibile nella sua immediatezza, nonostante qui risulti decisamente più elaborato e maturo grazie al ricorso a synth e strumenti inusuali e improbabili per un sound allarmante e abrasivo come quello dei Protomartyr, a partire da una rassicurante steel guitar usata spudoratamente in contesti noise. Un risultato che premia il lavoro superlativo di Greg Ahee in qualità di produttore. Complice lo studio di ricerca strumentale con le colonne sonore di cortometraggi coltivato durante i tempi morti della pandemia, il suo ottimo e appropriato gusto si riscontra non solo nelle fondamentali parti dello strumento che suona, ma anche nell’apparato compositivo tout court, allestito con un convincente intuito d’insieme grazie all’aiuto di Jake Aron, già dietro ai master di Snail Mail, Rahill, Solange e molti altri

Ma non c’è stato solo il Covid di mezzo. Casey ha perso la madre malata di Alzheimer. Si è sposato e, dopo esser stato vittima di svariati furti a ripetizione nell’appartamento in cui risiedeva, ha fatto armi e bagagli e si è trasferito nella sua vecchia casa di famiglia, fuori dal centro. Senza contare che oggi ha 46 anni e sapete cosa succede, a una certa età, alle persone inclini a vedere il bicchiere mezzo vuoto, prima di berlo. In un posto come Detroit, per giunta. I testi dei Protomartyr sono sempre più tele dai soggetti appena accennati da un tratto sferzante, scene in cui la sensibilità poetica e il realismo prosaico si confondono in un paradosso narrativo, in perfetta linea con i sussulti scombinati di armonie del tutto inusuali per gente di questo pianeta e in questa fase storica.

Il risultato, sono parole di Casey, è un testamento in dodici canzoni per andare avanti con la vita anche quando sembra impensabile. I Protomartyr però sono una vera band, nell’accezione sociale del termine. Una comunità consapevole delle sfide reciproche, in grado di mettere a fattor comune le debolezze dei singoli per l’accrescimento collettivo. Questo spiega la costante interoperabilità degli elementi che compongono la loro musica, sia che i testi presentino invettive politiche contro i rischi del tecno-capitalismo, sia che riguardino riflessioni sul diventare vecchi, aver paura del domani, o anche solo per parlare d’amore.

Formal Growth In The Desert vanta infatti anche il merito di contenere quella che probabilmente è la più bella canzone di tutte quelle composte dai Protomartyr nella loro storia, e non è un caso che “Rain Garden” sia stata messa a compendio di una tracklist studiata per un climax che lascia senza fiato. Diranno che è solo una canzone d’amore, è la premonizione di Joe Casey. Amore mio, fai strada al mio amore e baciami, baciami prima che vada via, sembra implorare. Ma il disco termina, Casey e soci se ne vanno sul serio, e ci lasciano attoniti e stupefatti, travolti da un fiume in piena. Ci chiediamo allora se sia vero: anche i Protomartyr hanno un cuore. Un punto di partenza, e un punto di arrivo. Si approda qui lungo una scalata alla perfezione in cui, una canzone dopo l’altra, si celebra l’ascesa verso un piano sempre più inaccessibile del precedente, passaggi propedeutici ad affrontare l’impervio stadio successivo.

I Protomartyr si confermano così uno dei progetti che meglio interpreta i tempi in cui viviamo con un’ottica, quella dell’occidente dai giorni contati, che non lascia scelta. Il paradosso di vivere, produrre e consumare sempre più a lungo, i rischi di perdita e di fallimento che crescono esponenzialmente, la serenità che siamo costretti a trovare in tutto questo. Formal Growth In The Desert è un album fuori dal comune, un formidabile atto di dolore, un’opera eccezionale così completa da prevedere persino, ma solo in chiusura e a sorpresa, un insperato barlume di speranza nel deserto interiore e globale in cui è stata ambientata.

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acqua

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C’è un panettiere proprio sotto casa, l’edicola è poco più avanti. Gli alti edifici sono stati costruiti in modo così ravvicinato da chi ha fondato questo borgo seguendo una logica di isola di calore al contrario. Il sole non batte mai e l’aria che si incanala lungo le vie cala di temperatura come nei corridoi freddi dei data center di ultima generazione. Ho indossato una camicia con le maniche corte che porto fuori dai calzoni. Per godere di un senso di maggiore libertà lascio volutamente aperto l’ultimo bottone. Il vento si insinua da lì sotto e l’effetto sulla pelle è formidabile. La gente si affretta, come me, a sbrigare il minimo indispensabile delle faccende in quelle indefinite ore del mattino, prima che il caldo ci sorprenda in tutta la sua intransigenza. Riecheggiano un po’ ovunque i rumori della vita che riprende all’alba. Vecchi portoni in legno che sbattono chiudendosi dietro a chi si riversa nelle strade, altri che cigolano spalancandosi dopo lo scatto della serratura, spinti da chi già rientra. Tormentoni estivi trasmessi dalle radio accese nei bar prima che l’avviamento dell’aria condizionata imponga agli esercizi di isolarsi dall’esterno. Bambini che rivendicano senza successo la necessità dei giochi da mare esposti dal tabaccaio sulla piazzetta più avanti. E poi le infradito strascicate sulla pavimentazione ancora grondante delle secchiate d’acqua dei negozianti che se ne prendono cura. Approssimandomi al fondo della via, superato l’inconfondibile odore dei banchi della pescheria già assediata dai turisti, si sente il vociare dei primi bagnanti, qualche gommone a motore che prende il largo, qualcuno che intima a qualcun altro di fare attenzione, le onde cortissime che si abbattono, con il loro ciclo eterno, sul bagnasciuga. Per abitudine faccio un veloce controllo per non dover tornare indietro. Il libro, il telefono, gli auricolari, una rivista, l’acqua, la focaccia, il telo, il portafogli. Ancora un passo e sarò investito dal sole. Un altro e sarò arrivato.

Rahill – Flowers At Your Feet

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Se, come è successo a me, vi ha colpito la presenza di Beck nel singolo “Fables” che ha preceduto l’uscita di “Flowers At Your Feet”, rimarrete sorpresi dallo stile originale e genuino di Rahill. Una dozzina di canzoni raffinate, contraddistinte da un approccio unico, in grado di mettere d’accordo i nostalgici degli anni novanta e chi apprezza le cantautrici indie di nuova generazione.

Flowers At Your Feet è uno di quei dischi che ti prendono per mano per condurti a spasso nel mondo immaginario di chi li ha composti. Un variopinto paese delle meraviglie dove, varcato lo specchio, ci si inoltra nella memoria dell’artista, un luogo popolato da ricordi intimi e ritratti di famiglia. Una sensazione di totale libertà compositiva che si propaga in un ambiente velatamente solare permeato da un moderato retrogusto di malinconia fanciullesca. Il non plus ultra per chi si diletta con la musica indie e per tutti quegli ascoltatori che, con una nuova stagione estiva alle porte, preparano un rifugio all’eccessiva esposizione alla felicità diffusa. Tutto questo grazie a un timbro sottile a tinte soul e un sound che mescola perfettamente una certa estetica sixties con l’eclettismo figlio di quel modo di giocare con i sampler in salsa lo-fi, molto popolare a cavallo tra gli anni novanta e il duemila.

Non è un caso che tra i mentori dell’album d’esordio solista di Rahill, poliedrica artista di Brooklyn già cantante della band garage-rock Habibi, ci sia Beck, che di quel movimento di transizione e raccordo tra il secolo breve e questo (che si profila brevissimo) è stato il socio fondatore, il presidente onorario e il capocannoniere. L’autore di Loser firma la sua featuring nel singolo “Fables”, traccia che non sfigurerebbe in un mashup con  “Devils Haircut”, e non solo perché basata sullo stesso bpm e costruita con uno di quei breakbeat di batteria campionati da chissà quale bootleg di James Brown.

Ma questo è solo uno degli aspetti che trasmettono la naturalezza della musica di Rahill Jamalifard, il cui nome completo svela le origini iraniane e giustifica il suo legame con il background culturale in cui è cresciuta artisticamente, dalle filastrocche in farsi di nonne e zie ai negozi di dischi usati di Brooklyn. Il suo stile apparentemente swinging e strampalato si sposa perfettamente con un approccio contemplativo e introspettivo alla narrazione autobiografica. Il risultato è un album che sorprende per l’equidistanza tra nostalgia e contemporaneità e tra i vari rimandi ai generi musicali rivisitati che qui sublimano in un eclettico (quanto indefinibile) indie-pop.

Se vi parte la prima traccia mentre reggete ancora in mano la copertina del disco, non vi stupirà scoprire come “Healing” possa aspirare ad avere come perfetto visualizer la tenera foto di Rahill da bambina, appena uscita dal bagnetto e avvolta negli asciugamani, scelta per l’artwork. Un tema ripetuto di archi accompagnato dal ritmo delle spazzole leggere sul rullante e dalle registrazioni di voci di una mamma e una figlia in fasce, una scena che non abbiamo dubbi a ricondurre a un momento di intimità rubato a un filmato amatoriale di quotidiana genitorialità.

“I Smile For E”, sullo stesso registro di “Fables” e di “Futbal”, altro singolo pubblicato nelle scorse settimane, si coglie in tutta la sua leggerezza grazie all’accompagnamento scarno a supporto della melodia, pronto ad arricchirsi sul finale di una trascinante sezione fiati, e grazie a quel du du du du du du du di voce nel ritornello, quasi un cliché della canzone scanzonata. “Tell me” è un invece un reggae destrutturato che, ai tempi degli Sneaker Pimps, non avremmo esitato a catalogare come trip-hop. Un corposo giro di basso che si snatura nel dub della strofa per poi culminare nella distorsione usata lungo i ritornelli, il tutto imbellettato da rumori elettronici e repentini cambi di loop.

Grazie a questi episodi risaltano così anche i brani meno danzerecci, come la lenta “From A Sandbox”, o “Hesitations”, in cui si amalgamano perfettamente chitarre riverberate, divagazioni di flauto e manipolazione digitale. Non manca un pizzico di psichedelia, presente in “Gone Astray” e nelle rarefatte “Nazila” e “Ode To Dad”, sincere suite per ricordi e vibrafono o poco più che sapranno come commuovervi. Superlative anche le venature jazz e r’n’b di “Rise So I Rose”, “Bended Light” e “Note To Self”, di sicuro il singolo che verrà, la traccia di chiusura perfetta per un disco in quanto egregia sintesi di tutto quello che l’ha preceduta e impreziosita da un andamento raffinato che ci ricorda certe hit dei Morcheeba.

Malgrado Flowers At Your Feet sia l’opera prima di una nuova talentuosa cantante, si lascia cogliere come un album incredibilmente maturo ma senza compromessi in freschezza e spontaneità. Un disco che permette a Rahill di presentarsi nel migliore dei modi: una compositrice dalle idee chiare, versatile e determinata, in grado di padroneggiare differenti stili e di adattarli a una creatività fuori dal comune.

effetto presenza

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Essere o non essere, sosteneva il Bardo. Una dicotomia che ha avuto un discreto successo, se ci pensate, anche perché non fa una piega. Non c’è una zona grigia. Tutte le condizioni intermedie che ci vengono in mente – il mondo è pieno di gente che è come se non ci fosse, oppure pensate a certe dipendenze che ci riducono a larve – sono poco più che una boutade. Nel mondo del lavoro c’è un sistema per attestare se ci siamo o non siamo ed è il badge, che per chi lavora nella pubblica amministrazione assume la denominazione di cartellino. La pandemia ha cambiato molte delle carte in tavola. Possiamo non essere ma ci siamo lo stesso, collegati in qualche modo da remoto. Oppure anche scollegati. Siamo in smart e la nostra giornata non ce la portiamo più a casa perché a casa ci siamo già. Quale azione, in questo scenario, è in grado di sancire il momento in cui ci cade la penna e possiamo considerarci out of office? Magari non spegniamo nemmeno il pc perché, effettuato il log-out dalla piattaforma aziendale, apriamo una nuova scheda di Chrome per avviare il nostro social preferito senza muoverci di un millimetro. Siamo fuori dall’ufficio – inteso come condizione e non come luogo fisico – ma rimaniamo comunque sul computer con cui lavoriamo.

Troviamo un ulteriore paradosso se pensiamo che gli orari, e questo accade non necessariamente se lavoriamo da remoto, non esistono più. Il concetto di inizio e fine turno è talmente superato che con la testa stiamo al lavoro senza soluzione di continuità. Resta un piccolo led rosso acceso che ci avverte che siamo in condizione di stand-by, non liberi del tutto, pronti per essere riaccesi grazie a un sistema operativo sempre all’erta. Non c’è un modo per spegnere completamente il senso di responsabilità che ci portiamo dentro per quello che facciamo. C’è una interessante pellicola in giro in questo periodo che si intitola Afterwork del regista Erik Gandini, quello di Videocracy, che tocca queste questioni. Si vedono, per esempio, le telecamere operative sempre accese nell’abitacolo dei furgoni dei corrieri, installate per ragioni di sicurezza ma pensate come sistema di controllo: essere o non essere sul posto di lavoro?

A scuola non abbiamo ancora il badge – le realtà più innovative lo hanno già introdotto – ma comunque la firma sul registro elettronico attesta il fatto che abbiamo preso servizio in classe. Ci sono occasioni in cui è necessario ricorrere a strumenti obsoleti come il foglio firme, tecnicamente una tabella in Word con il nome stampato in Calibri su una colonna e a fianco una sfilza di colonne che rappresentano i giorni da riempire con lo stesso contenuto della cella a sinistra ma scarabocchiato di nostro pugno. Un documento che può essere prodotto da chiunque ma che non è da meno dei sistemi digitali in quanto a possibilità di contraffazione. I docenti più sgamati nell’uso delle piattaforme online custodiscono le credenziali dei colleghi che hanno meno dimestichezza, questo per dire che chiunque potrebbe coprire l’assenza di qualcun altro.

Essere o non essere è quindi una questione di senso del dovere. A giugno, a lezioni finite, si rinnova ogni anno la sfida degli adempimenti conclusivi e della preparazione per l’anno successivo. Ci si incontra con diversi assortimenti – per disciplina, per interclasse, per ordine – e si compilano monumentali relazioni per accertarsi di quello che è stato fatto e programmare quello che seguirà. Ma senza le lezioni in classe non siamo soggetti a una scansione rigida di tempi e turni. Ci vediamo ogni mattina per tre ore, ci distribuiamo a seconda di quello che dobbiamo fare e procediamo. Ogni volta qualcuno risulta assente perché fa parte di una commissione a sé oppure ha preso un permesso ma non sempre la struttura amministrativa ci mette al corrente di quello che fanno gli altri. Questo per dire che, foglio firma o no, volendo chiunque potrebbe approfittare di questa approssimazione. Nella scuola le maglie dei controlli sono piuttosto larghe, e non solo su orari e presenze. Sta tutto a noi, sta tutto a me. Avete presente la barzelletta di Pierino? “Oggi non voglio andare a scuola!”. E Pierino risponde: “Ma devi andare a scuola. Sei l’insegnante!”. Ecco, da William Shakespeare a Pierino i gradi di separazioni sono davvero ridotti al minimo.

allodole

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Sabato sera, mentre andavamo a teatro, una giovane donna tedesca si è offerta di cedere il posto a mia moglie sulla gialla. Ieri l’altro è invece toccato a me essere percepito come anziano quando ho impersonato il target per la truffa dello specchietto. Se volete sapere subito come è andata a finire, vi ringrazio per l’interessamento. Non mi è stato estorto nemmeno un centesimo ma più per demerito della coppia di truffatori che per la prontezza del sottoscritto. Anzi, fino alla fine ho insistito – spinto più da quel fastidio di cacciare dei contanti che è un aspetto fondante di noi liguri, più che dal senso civico – per persuadere l’uomo, senza successo, a compilare congiuntamente il modulo di constatazione amichevole, mentre quel bellimbusto che mi fronteggiava voleva a tutti costi chiuderla lì, con qualche decina di euro brevi manu come risarcimento del danno allo specchietto che si era autoinflitto al fine di perpetrare la truffa. Ma forse il malintenzionato ha intuito di avere a che fare con un esemplare di vittima talmente dimesso che non se l’è sentita di darmi una testata, impossessarsi del portafoglio che brandivo per convincerlo a farsi una foto della mia carta di identità per poi contattare le rispettive assicurazioni in tutta calma, considerata la fretta che aveva di concludere, e lasciarmi lì, nel parcheggio semi deserto del Bennet prima dell’apertura mattutina. Invece, dopo tutta quella messinscena con chissà quale oggetto di gomma con cui ha colpito la portiera della mia auto nuova mentre lo affiancavo sulla superstrada per Magenta, ha inanellato una serie di scuse per battersela a gambe – mia moglie (la complice seduta al suo fianco) è in gravidanza a rischio, abitiamo a Torino, torniamo da una visita all’ospedale, preferisco comprarmelo da uno sfasciacarrozze che rischiare un aumento dell’assicurazione, le cavallette – e mi ha lasciato lì da solo, a prendere lentamente coscienza di quello che avevo appena rischiato. È stato sufficiente una passata con il palmo della mano sulla carrozzeria per rimuovere lo strato di gomma nera, conseguenza del colpo inferto alla macchina. Ma giuro che, fino a quel momento, nulla nella mia testa mi aveva indotto a diffidare delle sue intenzioni. Ecco perché il vero superpotere non è l’invisibilità per spiare le donne nude, tantomeno la pozione magica per menare chi ti è inviso. Se mi facessero scegliere tra i desideri impossibili so cosa farei, al netto di trascorrere una giornata a Roma ai tempi di Ottaviano Augusto. Opterei senza alcun dubbio per la capacità di mantenere la calma, analizzare a sangue freddo la situazione. Capire al volo quello che sta accadendo, agire di conseguenza e prendere la decisione migliore.

cenni da milano

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Voi al Primavera, io al Techetechetè. D’altronde, ognuno raccoglie quel che semina. Mentre i giovani pogano con il meglio dell’indie-rock e della musica alternativa mondiale sotto il palco del celeberrimo festival di Barcellona, noi anziani cantiamo sudaticci sdraiati su un divano inadatto alla stagione seguendo il labiale di una versione adolescenziale in bianco e nero di Marcella Bella intonare rime di pura poesia come “con l’amico mio più sincero, un coniglio dal muso nero”. O, peggio, sbaviamo per la ballerina in canotta, tacchi e pantaloncini da basket anni 70 che si dimena su versi come “con il sole e con la pioggia ti bagnavi sempre tu, ero pronto ad asciugarti ma non ce la faccio più”, a completare un’improbabilissima coppia con Umberto Balsamo.

Ma tutto questo non è nulla paragonato al buco nero nel palinsesto di RaiTre tra il tg regionale e l’intramontabile “Un posto al sole”, soap che vanta il merito di tenere incollata mia mamma per mezz’ora alla tv dal 21 ottobre 1996. Cinquanta minuti di anarchia emotiva riempiti di volta in volta dall’accozzaglia dei programmi più eterogenei che si possano abbinare. Si inizia con Blob, ed è inutile soffermarcisi su in tempi come questi in cui qualsiasi ritaglio trash è in grado di surclassare persino i migliori fasti dell’era della claque giornalistica berlusconiana. E dopo il consueto bombardamento di amarezza e disagio del peggio della tv montato ad arte da Ghezzi e soci, RaiTre implode in un tripudio di buoni, anzi, ottimi sentimenti con il duo Bollani/Cenni. Uno al piano, l’altra a se stessa, rendono “Via Dei Matti Numero Zero” un’enclave di raffinatezza e buon gusto lungo l’autocelebrativa opera di divulgazione della musica meglio riuscita di tutti i tempi. Non solo. Invisi ai detrattori delle trasmissioni che portano in tv le coppie di fatto nella vita, gli sguardi d’amore e le mute (e mutue) promesse di eternità che si scambiano senza soluzione di continuità fanno traboccare miele e unicorni da qualsiasi schermo a cristalli liquidi, tanto da far dimenticare al telespettatore qualsiasi bruttura del mondo e dei tempi in cui viviamo.

Il punto è che l’oblio a cui inducono è fin troppo. Ieri sera hanno terminato la puntata (una replica dell’ultima stagione) con il consueto brano suonato e cantato al piano come sigla di chiusura, che era “Vorrei che fosse amore”, una canzone in cui a ogni passaggio romantico (quindi praticamente tutti) Bollani e Cenni si voltavano a guardarsi in un modo in cui vi auguro vi guardi il vostro partner. Il tutto senza sbavare di una nota (reputo Bollani il più talentuoso pianista di tutti i tempi).

La tv tracimava ancora di palloncini a forma di cuore e di cupidi armati di arco e freccia quando è iniziata la trasmissione successiva prevista dal palinsesto, “Il cavallo e la torre”. Avete presente i temporali che funestano la nostra penisola di questi tempi di riscaldamento globale? Un Damilano ancora più austero del solito si è palesato dal nulla senza sigla annunciando con la massima solennità il titolo/filo conduttore della puntata. “Catastrofe”, ha sentenziato, senza aggiungere altro.

I palloncini sono esplosi tutti simultaneamente, il miele si è trasformato in catrame e i buoni, anzi, ottimi sentimenti sono passati dallo stato aeriforme a blocchi di cemento armato senza nemmeno un goccio di fluido intermedio. Mi chiedo come sia possibile imporre un capovolgimento emotivo di questa entità, peggio di sfracellarsi contro un muro ai duecento all’ora senza airbag. Propongo di inserire qualche cuscinetto tra i due programmi o invertire la scaletta trasmettendo prima Bollani/Cenni, quindi Blob e infine Damilano. A mia mamma, quella che segue “Un posto al sole” ininterrottamente dal 21 ottobre 1996, peraltro Damilano non piace. Cari vertici RAI, sappiate regolarvi di conseguenza.