mercurio

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L’effetto del vapore che sale dall’asfalto quando le temperature sono insopportabili ha un nome che non ricordo più. I vecchi da noi non sono adatti al caldo che fa e se fossero un po’ più giovani e un po’ più ricchi farebbero armi e bagagli e raggiungerebbero i paesi del nord dove vanno i detrattori dell’estate più recidivi, quelli che la menano con l’Irlanda e restano candidi per scelta, per intenderci. La narrazione dell’attuale governo impone però l’Italia a tutti i costi, con le sue bellezze, il suo cibo, i suoi litorali a pagamento e i suoi borghi tutti uguali. Persino i cani randagi non si vedono più, vittime della sostituzione etnica ordita da cinghiali, orsi e lupi. I telegiornali sono zeppi di cronaca nera e intrisi di violenza e morte. Il dibattito politico è ridotto alle provocazioni di sempre, insomma ci siamo capiti. Sono aumentati gli sbarchi, il patriarcato è fuori controllo malgrado Barbie e la benzina è un lusso. Oggi e domani saranno i giorni peggiori, così dicono, e chi ha anticipato le ferie ed è già rientrato si morde le mani e poi lo scrive sui social. Pensavamo di averla scampata, questa volta, ma il tempo, anche nel senso del tempo che fa, è tiranno.

Alla tele passa spesso lo spot dei libri in miniatura, avete visto? Come fai a leggerli mi chiedo, il prossimo step sarà quello dei romanzi in ceramica che non si possono nemmeno aprire ma fanno la loro figura nella vetrinetta in soggiorno. Il bello di fare l’insegnante non è tanto nei cinque mesi di ferie ma nel fatto che il rientro non è niente male. Massima solidarietà a chi torna in ufficio alla mercé di colleghi, fornitori, clienti. Poche ore dopo ferragosto sono arrivate le prime e-mail della dirigente, il collegio docenti di settembre – quello che voi chiamate il kick-off ma noi lo facciamo in aule magne senza aria condizionata mentre voi a Las Vegas o chissà dove – è dietro l’angolo con tutte le sue scartoffie. Per restare in tema con la scuola, ho visitato diversi musei e siti archeologici gratuitamente anche quest’estate, grazie alla mia professione. Ti presenti in biglietteria e mostri sul telefono un PDF che potrebbe avere una qualsiasi intestazione inventata tanto quanto la firma in calce del preside e che attesta che sei un docente. Non c’è nessun controllo. Pensate che bello, invece, se fossimo provvisti di un badge con un codice a barre o un QR code che riporta un numero di matricola univoco – che poi sul cedolino esiste, questo numero – collegato a un data base nazionale a disposizione di tutte le strutture culturali al cui ingresso a zero costi abbiamo diritto. Ho visto cose bellissime ma è inutile raccontarle. Sono partito presto, quest’anno, e già in giro non si vedeva nessuno. A dirla tutta, anche oggi non c’è anima viva. L’impressione è che si stiano squagliando tutti, altrimenti non si spiegherebbe questo vuoto di persone, di parole, di pensieri e di gesti.

a piedi nudi nel bagno

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Da ragazzino non stavo mai in casa. Ero sempre fuori e, quel poco tempo che trascorrevo in famiglia, tenevo addosso le scarpe per essere pronto a uscire di nuovo, non appena mi avesse telefonato qualcuno. Un comportamento che reputo imperdonabile e non capisco come i miei genitori non si siano mai imposti per farmi osservare quella che è la regola base della convivenza e dell’ospitalità, togliersi le scarpe prima di entrare. Riconduco questo mio atteggiamento incivile a diversi fattori, a partire dalla graniglia di colore scuro dei pavimenti alla genovese che non restituiva un adeguato senso di pulizia e non invogliava a camminare scalzi, per non parlare dell’attenzione al look: praticavo la new wave e non esisteva un abbigliamento casalingo corrispondente a quello ostentato in pubblico, a partire dalle pantofole nere dalla foggia Creeper. Oggi, però, è cambiato tutto. A casa mia, se mai vi inviterò, ricordatevi di lasciare le calzature nello sgabuzzino all’ingresso. A vostra discrezione la scelta se rimanere in calzini oppure indossare le pattine degli ospiti. Sono talmente ossessionato che controllo nei programmi tv come si comportano gli attori. Mi capita di notare gente che si sdraia sul letto, con le scarpe, che è una cosa che mi fa orrore. C’è uno spot che mi irrita particolarmente e che è quello del Viakal. La protagonista pulisce il bagno con le sneakers, e non se le toglie nemmeno per lavare la cabina della doccia. Immagino che il piatto sotto sarà bagnato e quindi, uscendo da lì, inevitabilmente sporcherà le piastrelle del pavimento con il sudiciume umidiccio delle suole. Fino alla danza finale con le scarpe sul tappetino, lo stesso su cui ci posiamo i piedi nudi dopo il bagno. Che orrore, non trovate?

divieto

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A ridosso degli ultimi tornanti della strada provinciale che conduce a Milo, il paesino alle pendici dell’Etna in cui ha vissuto Franco Battiato e dove aveva una casa persino Lucio Dalla, ci sono dei vistosi (quanto non ufficiali) cartelli “vietato suonare”. Pensate se i due – che non vi nascondo essere i miei cantautori italiani preferiti, ma immagino anche i vostri – avessero applicato la normativa alla lettera, di quanti capolavori ci avrebbero privato. Un divieto legittimo è invece quello che impedisce ai turisti più o meno sprovveduti di avvicinarsi alle zone più pericolose del nostro vulcanone nazionale, e sono tante. Crateri attivi, bocche che emettono suggestivi anelli di fumo e il costante rischio di esalazioni letali persino per chi calza scarpe da trekking old-fashioned come le mie. In una Taormina presa d’assalto da coppie che si sposavano e da turisti alla ricerca del resort di lusso impiegato come set di “The White Lotus”, ci sono cascato anch’io e ho scattato persino la foto che trovate qui sopra. In una viuzza del centro ho poi sostato al cospetto di una splendida vetrinetta stipata di teste in ceramica e altri manufatti tipici dell’artigianato locale. Anche lì dentro qualcuno aveva posizionato un cartello con un altro invito pensato per limitare la mia libertà di espressione. C’era scritto “vietato fotografare” e non vi nascondo che lo sforzo per trattenermi dalla trasgressione a quella sciocca regola è stato ciclopico. Mi sono anche trattenuto dal non capovolgere un libello sul mascellone giustamente appeso al contrario in una celeberrima piazza di Milano sfoggiato in bella vista nella sala colazioni di un b&b in cui ho soggiornato e non l’ho fatto solo perché il proprietario – nonché fan del più grande traditore del nostro popolo di tutti i tempi – fondamentalmente era una brava persona, un’idea che avrò di lui almeno fino a quando non me lo ritroverò armato di tutto punto a fare la guardia a me e a tutti gli altri elettori del PD raccolti in uno stadio dopo la definitiva sterzata nazifascista di cui il nostro paese si sta rendendo protagonista. Avete letto le minchiate sugli autori della strage di Bologna? Amici, sappiate che si tratta del solito trucco vecchio quando Walter Veltroni. A destra sparano provocazioni sulle quali noi democratici progressisti ci precipitiamo come belve affamate all’ora del pasto principale. E mentre facciamo a gara – dal vivo e sui social – a chi è più indignato (oggi per il 2 agosto, domani per i diritti civili, dopodomani per i migranti) gli artefici di questo regime, indisturbati, mettono a segno le peggio cose. Povera patria.

MCMLXVII

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La #cultura non va in #vacanza. #Stasera siamo al #TeatroGreco a vedere #Odisseo di #PaoloRossi insieme ad altri #fighetti del #PD. Avrei coronato una giornata di mare estremo con un post su FB di questo tipo se mia moglie non me lo avesse impedito. Sosteneva che nessuno avrebbe colto l’ironia. Ma ne avevo un altro in canna da qualche giorno che forse era ancora peggio. Malgrado siano contemplati dal programma di terza e di quarta, non ho ancora insegnato ai miei bambini i numeri romani ma forse è meglio, così da grandi eviteranno di tatuarsi addosso le date importanti. Faremmo una figura meno tamarra con i numeri arabi, se non fossimo così intrinsecamente razzisti per marchiarci con qualcosa che non è made in Italy. Oltre a essere il popolo più illustrato del mondo – ho letto che abbiamo surclassato persino i Maori come percentuale di pelle impiastrata a cazzo – gli italiani comunque li riconosci anche per come ciucciano in modo forsennato le sigarette elettroniche, l’uso in viva voce in pubblico dello smartphone per le conversazioni, i messaggi vocali e l’ascolto di musica di merda, la narrazione della ricerca di radici e tradizioni e lo starsene imbambolati a guardare il nulla sulle spiaggine sotto l’ombrellone, a parte i #fighetti del #PD come me che leggono libri rigorosamente al profumo di carta. Avete notato che sono quasi spariti gli e-reader? Ci riflettevo in fila nell’attesa che aprissero i cancelli dello spettacolo di cui sopra fino a quando a una carampana palesemente di sinistra al mio fianco è partita la suoneria del telefono che era l’Internazionale. Anch’io l’avevo impostata sul mio Nokia 8110, era il millennio scorso, ma rispetto alla facilità di gestione degli audio dei dispositivi di ultima generazione, allora era uno sbattimento che non vi sto a raccontare. Anzi, ve lo racconto a chiusura di questo aggiornamento sulle mie vacanze estive. C’era un programmino online in cui era possibile comporre melodie alternando le note e le pause. La suoneria, una volta pronta, bisognava inviarla via SMS al proprio telefono e bastava un clic per installarla correttamente. Un’ultima cosa: in Sicilia hanno votato in massa Schifani e si vede.

vieni a ballare

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Breve storia triste. Mia moglie ha una foto sul profilo di Whatsapp che la ritrae abbracciata a Caparezza. Ha contattato la proprietaria di un b&b per le vacanze in Sicilia che, malgrado fosse praticamente al completo, ci ha rimediato una sistemazione perché “abbiamo due facce simpatiche”. Al nostro arrivo, la signora mi è sembrata palesemente delusa.

fuori come va?

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A Capo D’Orlando, provincia di Messina, il lungomare è intitolato a Luciano Ligabue, artista contemporaneo. Non c’è nulla di sbagliato: è un monotono rettilineo piatto e tutto uguale.

menta coach

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Nulla è più illusorio di un ghiacciolo. Due ghiaccioli, forse, ma dopo viene sete e voglia di accendersi una siga. Le strade sono deserte ed è un peccato perché hanno appena posato l’asfalto nuovo. La successione dei primi due accordi di “A Salty Dog” crea dipendenza in questa ostinata ricerca di cose che buttano giù. Le trombe d’aria non hanno nulla di jazz se non posare i rami caduti come acciaccature che sfiorano appena l’auto nel parcheggio, almeno la mia, a vantaggio delle note su cui puntare durante un’improvvisazione. Gli animali si ammalano per il caldo, gli umani per fuggirlo ascoltano vecchie canzoni polverose con video in quattro terzi a colori sgranati e bande laterali a estendere il segnale per la sua fruizione in sedici noni. Nei documentari sugli antichi non si parla mai di dove trascorressero le vacanze. Se mi date un ufficio con l’aria condizionata come tutti i cristiani, una scrivania e una sedia comoda, una connessione accettabile, un orario da quaranta ore la settimana e uno stipendio di conseguenza, non ho problemi a lavorare fino a fine luglio. Però voglio poter scegliere quando partire e, soprattutto, se partire. Basta che non mi mettete in mano ai mental coach, ai motivatori, ai formatori di professione. Per chi mi avete preso? I libri si fanno più pesanti e le parole più sfocate. Aumentano i prezzi della frutta che, manco a dirlo, sa a malapena di acqua e zucchero. Ma i giovani non credono a tutto questo, al lavoro, al cambiamento climatico, ai diritti civili, al post-punk. C’è qualcuno, nascosto dietro a quei ponteggi, che sta scrivendo una raccolta di storie che si intitola “I racconti del 110”. Il primo parla di un contractor che a metà lavori porta i libri in tribunale. D’altronde, una pioggia di miliardi data al paese più corrotto, con la manodopera più scarsa e in piena crisi di democrazia dell’Europa. Cosa potrebbe andare storto?

Squid – O Monolith

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È difficile trovare una band coraggiosa quanto gli Squid. In O Monolith i già pochi ammiccamenti ai suoni di tendenza di Bright Green Field lasciano posto alla sperimentazione più dura e pura nel math-prog, per un monumento all’espressività musicale senza precedenti.

Superata l’urgenza di tracciare i solchi del proprio insediamento stanziale laggiù, nei remoti territori inesplorati dove le valli del post-punk lasciano spazio alle impervie montagne del progressive – siamo a poche miglia dal regno dei Black Midi, qui la residenza a South London non c’entra – a due anni dalla fondazione di Bright Green Field gli Squid avviano una politica di espansione.

Non correte il rischio di sbagliarvi: la band è riconoscibilissima e i tratti somatici del loro suono è facile individuarli nelle nuove canzoni di O Monolith. Ci sono i tempi dispari e la consueta varietà ritmica, a tratti schizofrenica. Ci sono i repentini scatti d’ira vocale di Ollie Judge che corrispondono ad altrettanti impeti di batteria (è impossibile non uniformare il canto e la simultanea e contestuale percussione di qualcosa, voce e gesto muscolare sono indissolubilmente legati, pensate ai versi che vi escono dalla bocca quando fate uno sforzo fisico: avete mai visto una partita di tennis?).

Ci sono le linee di tromba come meteoriti in picchiata nello spettro stereofonico delle loro canzoni. Troverete anche quelle dissonanze/cliché che per consuetudine riconduciamo al punk e che talvolta interpretiamo come musica suonata male apposta (o suonata fintamente male apposta) da gente che non sa suonare bene o con uno stile meno ostico ma, malgrado questo, vuole a tutti costi suonare lo stesso e si dà al punk (in alcuni casi al free jazz) perché nel punk vale tutto, anche non saper suonare o non aver studiato ma non è certo il caso degli Squid, qui ci sono strumentisti di scuola math-rock con i controfiocchi. In O Monolith la musica è così estrema da fare tutto il giro e disintegrarsi a tutta velocità contro il muro della sperimentazione, che rispetto alla musica come la conosciamo noi è una dimensione a sé. Una non-musica, potremmo dire.

Le manie di grandezza, o ambizioni, per usare l’accezione costruttiva dello stesso concetto, sono insite nelle ragioni fondanti di questo nuovo progetto. Le anguste sale di registrazione dell’album d’esordio hanno lasciato il posto ai Real World di Peter Gabriel nel Wiltshire, uno dei luoghi della terra più suggestivi per chi è assetato di ispirazione e ricchi di magia per chi cerca un significato – si trova a meno di un’ora di strada da Stonehenge – ed è anche questo fattore che ci induce a credere al motivo che ha portato verso la scelta di un titolo così criptico per il loro concept. Il fascino dei megaliti e il mistero del loro impiego da una parte, il significato del più celebre monolito della storia, quello kubrickiano che beneficia i destinatari delle sue epifanie di uno scatto evolutivo della loro forma di vita, dall’altra.

Non so a voi, ma a me sembra tutto intriso di geografia umana, per questo spero di non essere il solo a legare l’immaginario visivo degli Squid all’importanza dei luoghi e dei non-luoghi nelle loro e, di conseguenza, nelle nostre vite, un po’ per gli artwork di copertina dei loro dischi ma soprattutto per i video dei singoli pubblicati, surreali clip in cui l’ambientazione fa la differenza. Un’attitudine già intuita grazie allo scenario digitale di “Narrator”, tratto dal primo album, poi confermata dall’improbabile campo di basket di “Swing (In a Dream)” e dal deserto dell’ufficio relazioni con il pubblico (e tutta l’involontaria ferocia della burocrazia connessa) di “The Blades”, i singoli che hanno preceduto l’uscita di O Monolith. Ambienti rurali e ambienti urbani, migrazioni in posti nuovi, nuove forme di espressione, ed ecco che il cerchio si chiude.

Sarà la sequenza di synth in sette quarti che si attorciglia intorno all’arpeggio di chitarra e agli impulsi di cassa dritta con cui si apre “Swing (In a Dream)” a convincervi dei buoni propositi della band, ancora prima della frasetta di tromba che sembra rubata a un solo di uno standard bossa nova lounge-jazz. Sarà la belva che si risveglia furiosa nella sua tana nel finale di “Devil’s Den”, fino a quel punto sopita da una lunga e improbabile ninnananna cacofonica, a farvi ritrovare la vera anima di questo gruppo. Sarà il vocoder di “Siphon Song” ad accompagnarvi lungo un crescendo post-rock con deflagrazione finale, dopo il quale avrete tutto il tempo di raccogliere, della disperazione successiva al disastro, quel poco che rimane delle vostre membra. Sarà la math-fusion da operetta di “Undergrowth” a offrirvi un rifugio in pattern ritmici più consoni alle vostre consolidate simmetrie culturali.

Sarà “The Blades” – per me un capolavoro, poi fate voi -, più o meno a metà del disco, a fornirvi un riepilogo di tutto quello sperimentato fino a questo punto. Saranno il primo e il secondo tempo di “After The Flash” a farvi perdere ancora una volta l’orientamento, malgrado la guida dell’ostinato ripetuto ad oltranza, volutamente sacrificato per un finale inglorioso. E, dalle sue ceneri, sarà il grunge breakbeat di “Green Light” a persuadervi dello scarso senso della misura di questi cinque giovani inglesi. Alla bizzarra conclusione, la traccia “If You Had Seen the Bull’s Swimming Attempts You Would Have Stayed Away”, in cui coesistono Kamasi Washington e i Radiohead, il compito di farvi riflettere sul valore complessivo di quest’opera.

Per me, non ci sono dubbi. A differenza di certi esercizi di stile di altri artisti che condividono con gli Squid ispirazioni, estrazione e target, O Monolith è un monumento naturale alla potenza dell’arte, alla modernità e all’ingegno del genere umano. Probabilmente la cosa più vicina alla musica classica contemporanea che il rock del nuovo millennio sia in grado di esprimere.

hotel opel

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Prima ho chiesto alla signora che abita nella Opel Insigna qui nel parcheggio dietro casa mia se preferisse occupare lei, con la sua vettura, il posto all’ombra sotto gli alberi dell’aiuola centrale. Non ho ricondotto il suo rifiuto al fatto che, in estate, lasciare una macchina alla mercé di certe piante in piena fioritura è un rischio che non tutti amano correre. Il confort dell’ombra in queste giornate dal clima surreale lascia il retrogusto appiccicoso di quel polline che concia la carrozzeria da sbattere via. Lei si era messa di sbieco ed era ferma ma col motore acceso. Ho indugiato qualche istante e poi, non vedendo reazioni, mi ci sono infilato io. Sono sceso e mi sono rivolto a lei come se non l’avessi mai notata cenare con junk food e dormire in auto, da un mese a questa parte. Ogni tanto scende a fumare una sigaretta con grande dignità – non sembra nemmeno vestita male – ma state sicuri che quando la macchina è ferma con i finestrini giù lei è dentro l’abitacolo, anche se non si vede. Le ho parlato come se si trattasse di un vicino di casa come tutti gli altri, facendo finta di non sapere che, a differenza degli abitanti del quartiere, non è associata a un domicilio raggiungibile da un corriere Amazon. Non è sembrata sorpresa della mia offerta, so benissimo che sa chi sono da tutte le volte in cui scendo o per correre o per mettermi al volante. Potrei avvisare la polizia locale, in modo che la segnalazione giunga ai servizi sociali. Potrei darle una mano anche se giocare a carte scoperte abbatterebbe un muro di riservatezza che non è alla mia portata. Si sposta con la sua Opel da un posto all’altro del parcheggio per sfuggire il più possibile all’afa. Capita che l’auto sia vuota, qualcuno sostiene che si rechi al lavoro e che faccia la badante, durante il giorno. Nel frattempo la temperatura sale. Le ho chiesto se volesse lei il posto all’ombra ma mi ha dato una risposta distratta, come se non l’avesse per nulla notato ma, al contrario, stesse guidando per scorgere la giusta direzione in una metropoli sconosciuta malgrado ci trovassimo tra quattro fila di posti, in quel parcheggio striminzito. Forse attende il primo stipendio per cercarsi una sistemazione stabile. Vi tengo aggiornati.

doppia spunta blu

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Risulta difficile immaginare una storia ambientata ai nostri tempi priva di riferimenti alla tecnologia, che è la versione scritta dell’impossibilità di fare una foto a un monumento o un palazzo storico senza una macchina davanti. Se è vero che controlliamo lo smartphone in media ogni sette minuti – un dato di qualche anno fa, la frequenza sarà sicuramente peggiorata – sembra innaturale descrivere i protagonisti di una qualsiasi scena al netto di questo comportamento ricorrente ripetuto in modo realistico. Oppure possiamo fare finta di nulla e filtrare quello che vediamo con gli occhi romantici della retromania, come quelle serie per i teen che mescolano iPhone e compilation ascoltate sui mangianastri. E allora, può esistere un romanzo di formazione senza TikTok? O una storia d’amore senza Whatsapp, un road movie senza Google Maps, un incontro fortuito non favorito da Tinder? Un racconto con una coppia a cena che non fa nemmeno una foto a un piatto, un viaggio in tram in un film con un quotidiano sotto il naso, gente che, in un romanzo, aspetta il verde per attraversare la strada scrutando il semaforo anziché controllare l’ultima notifica. O, nelle nostre serie tv preferite, un temporale non previsto dalle app di meteo, una corsa non tracciata, persone che camminano libere dallo smartphone rivolto di taglio verso l’orecchio o che, durante le riunioni di lavoro, non scrollano annoiate l’home page dei loro profili social. Ogni tipo di paesaggio – urbano o rurale, affollato o deserto, esotico o familiare – oggi deve essere raccontato nella sua multipla identità: il reale, il virtuale, l’immersivo e l’aumentato. E se tali componenti fossero omessi ce ne renderemmo conto perché proveremmo il disagio di assistere a un’opera di fantascienza al contrario, il ritorno agli effetti normali. Soffriremmo l’assenza del nucleo della nostra vita, ci troveremmo di fronte a un buco narrativo con degli esseri viventi intorno.