magritte

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Non c’ĆØ cosa piĆ¹ surreale della guerra. Allo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina ne abbiamo parlato molto, in classe. Dell’attacco di Hamas e del conseguente assedio di Gaza da parte di Israele molto meno, probabilmente perchĆ© la questione palestinese ĆØ piĆ¹ complessa, ce l’abbiamo anche in casa e, anche tra adulti, si percepisce come qualcosa di trito e ritrito o comunque un conflitto che coinvolge, almeno da una parte, un popolo di straccioni e poco influenti in certi equilibri globali a meno di non mettersi alla guida di aerei di linea. Secondo me ĆØ stato piĆ¹ l’istinto che hanno i docenti a non ripetersi per non annoiare gli alunni. Le attivitĆ  di sensibilizzazione ce le siamo bruciate tutte per Putin e Zelens’kyj e nessuno ha voglia di sbattersi a cercare materiale didattico sulla pace nel mondo diverso da quello giĆ  impiegato in precedenza. Ho una bambina egiziana, in classe, che da quello che ho visto sul profilo Facebook del papĆ  proviene da una famiglia decisamente entusiasta della loro religione e delle tradizioni del paese di origine. Sfoggia il suo nome in arabo a fianco di quello in italiano sulle etichette dei quadernoni ricoperti dalle copertine colorate. So che ha partecipato alla manifestazione pro Palestina di qualche settimana fa, me lo ha detto lei il lunedƬ successivo al rientro a scuola. GiovedƬ scorso ho avviato una bella attivitĆ  di arte dedicata a Magritte, un’artista che trovo banale e ampiamente sopravvalutato ma che fa impazzire i bambini. Dopo una presentazione generale della sua opera li ho messi alla prova. Dovevano disegnare su un foglio bianco A5 un oggetto a loro scelta, colorarlo, ritagliarlo e incollarlo su un cartoncino colorato corredato dalla celebre dichiarazione di intenti sulla differenza tra la realtĆ  e la sua rappresentazione artistica: questa non ĆØ un pipa (e, a dirla tutta, nemmeno questo ĆØ un blog). Ho pregato la classe di non ritrarre palloni da calcio, maglie del Milan e di altre squadre, smartphone e altri gadget digitali, ma di limitarsi a oggetti come la pipa e di dare fiato alla creativitĆ . Un orologio, una tazza, una mela, una sedia, cose cosƬ. Avete indovinato: la ragazzina egiziana ha disegnato la bandiera palestinese, e la didascalia sotto “Questa non ĆØ una bandiera” ha dato vita a un corto circuito di significati non da poco.

banksy

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Ho un giovane collega molto preparato – ha una laurea in scienze della formazione alla Cattolica a cui ha fatto seguire un master in sostegno, conseguito presso lo stesso ateneo – a cui mi rivolgo quando non so a quale teoria psico-pedagogica ricondurre le esigenze pratiche che mi trovo ad affrontare in classe. Mi fa sentire meno speciale sapere che c’ĆØ una collocazione universalmente consolidata a cui associare un problema a cui la mia incompetenza non riesce a dare una risposta. A scuola ĆØ impossibile standardizzare procedure didattiche perchĆ© ogni bambino e ogni adulto con cui si sviluppa la relazione sono differenti – e la gamma stessa delle dinamiche delle relazioni ĆØ pressochĆ© infinita – ma poi, alla fine, un po’ per poter tracciare i dati come si fa nelle aziende quando occorre certificare qualche processo, si riesce a emettere un codice (attenzione, ĆØ una metafora) da stampare su un’etichetta (attenzione, ĆØ una metafora) e lasciare il fascicolo (attenzione, ĆØ una metafora) in uno scaffale ben preciso (attenzione, ĆØ una metafora) a disposizione di casi analoghi.

Il mio giovane collega mi consiglia di fare cosƬ e cosĆ  e la cosa in effetti funziona, al netto del rischio che la relazione, nel frattempo, non abbia giĆ  preso una forma diversa da quella che credevo. I tempi di intervento delle persone e delle strutture che dovrebbero fornire sostegno a scuola e famiglie per i casi difficili sono cosƬ inadeguati da risultare ridicoli e paradossali. Con le organizzazioni pubbliche addirittura segnali il rischio di un disturbo dell’apprendimento o anche un problema piĆ¹ eclatante in seconda e, a essere ottimisti, ottieni una certificazione in quinta. Potete immaginarne l’efficacia in una fase della crescita e dello sviluppo cosƬ imprevedibile, come nei bambini. Ma, ripeto, io sono un copy con la passione per i Cure, per questo mi rivolgo costantemente a chi ne sa piĆ¹ di me, cioĆØ chiunque.

Continuano perĆ² a sorprendermi certi metodi a dir poco d’urto che si adottano in caso di situazioni in cui la sicurezza dell’alunno problematico e, di conseguenza, di chi gli sta intorno, ĆØ a rischio, sostanzialmente perchĆ© la risolutezza di intervento ĆØ un meccanismo che non ĆØ proprio nelle mie corde. Non sono mai pronto a fare la cosa giusta quando ho poco tempo a disposizione, questo in generale, perchĆ© ho bisogno di riflettere a lungo per valutare, e purtroppo in natura ĆØ un approccio non ammesso. Senza contare che sbaglio sempre, indipendentemente da quanto ci metto ad agire. Se fossi una preda sarei giĆ  stato il pranzo di qualcuno una tacca sopra di me nella catena alimentare da un pezzo.

Ho una collega che ĆØ un vero e proprio marcantonio e, per annientare le smanie autodistruttive di un suo alunno, uno scricciolo di terza, gli monta letteralmente sopra bloccandogli le braccia con le ginocchia e sedendosi sulle sue gambe. La sua classe ĆØ proprio a fianco alla mia e mi ĆØ giĆ  capitato di venire chiamato in soccorso per intercettare le sue fughe e impedirgli di fare dei danni. Quando succede, poi sto male tutto il giorno perchĆ© ĆØ facile far leva sulla forza, con un bambino, ma mi rendo conto immediatamente che si tratta di un’arma sovradimensionata.

Anche il collega esperto in pedagogia che vi ho introdotto prima non ĆØ da meno, quando lo vedo rispondere senza tanti complimenti agli assalti ciechi del suo asperger a bassissimo funzionamento. Lui ha anche un altro alunno arrivato da poco – un bambino che sarebbe come tutti gli altri se non gli fossero capitati in sorte due genitori a dir poco distratti – e che ora ĆØ in affido presso un’altra famiglia, per il quale adotta spesso soluzioni drastiche. Gli impartisce castighi esemplari d’altri tempi. Se si comporta male a pranzo lo sposta in un banco da solo all’altro capo della mensa e lo fa sedere voltato di schiena rispetto ai suoi compagni se l’ha combinata grossa. A quel punto gli vengono certi lacrimoni che, se fosse un mio alunno, mi metterei in ginocchio al suo fianco implorando le sue scuse e cercando di consolarlo nel modo piĆ¹ efficace. Come vedete, come educatore non valgo una cicca. Il mio collega dice di lui che ha una stima di sĆ© bassissima perchĆ© ha la tendenza ad auto-infliggersi punizioni. Quando succede, gli dice che non deve farlo perchĆ© l’insegnante ĆØ lui (il mio collega) e che, per ristabilire l’ordine delle cose, una persona ĆØ sufficiente.

Ora sentite questa. Ieri l’altro andavo a zonzo per i vicoli della mia cittĆ  preferita, probabilmente il centro storico piĆ¹ grande in Europa, un luogo d’altri tempi che, malgrado Airbnb e la gentrificazione, pullula ancora di spacciatori, microcriminalitĆ , tossici e prostituzione. Non sto a dirvi quanto mi abbia sorpreso leggere scritto con lo spray sul muro di uno degli edifici fatiscenti di quei bassifondi la scritta “ilmiocognome merda”. ilmiocognome ĆØ il mio cognome, che non scrivo per ovvi motivi di privacy, e vi assicuro che non ĆØ cosƬ tanto diffuso. Ho abitato a qualche centinaio di metri da lƬ, piĆ¹ di venti anni fa, e un graffito cosƬ fresco non saprei come giustificarlo. In passato so di non essermi comportato bene con qualche persona, ma si tratta piĆ¹ che altro ex fidanzate con le quali non ho saputo chiudere senza perdere la dignitĆ , mentre ora davvero cerco in tutti i modi di assumermi le mie responsabilitĆ  o, se proprio ho paura, mi sottraggo ai conflitti e ammetto di avere torto proprio per non alimentare inimicizie.

Sono stati i carissimi amici con cui mi trovavo in quel momento, veri esperti del quartiere, a tranquillizzarmi. Escluso che si potesse trattare di me, abbiamo formulato qualche ipotesi sulle cause dell’omonima nel graffito: un regolamento di conti tra pusher e clienti, una delazione, o piĆ¹ probabilmente un membro delle forze dell’ordine che non ĆØ andato tanto giĆ¹ per il sottile con qualcuno della zona. Di certo, con questa merda, siamo parenti, in qualche modo. Io, ve lo giuro, non ho fatto niente, e poi da piĆ¹ di vent’anni vivo a duecento km da lƬ. Ho scattato perĆ² una foto alla scritta “ilmiocognome merda” perchĆ© non capita tutti i giorni di beneficiare di visibilitĆ  di questo tipo e l’ho messa come immagine della testata di Facebook. Non so se c’entri con la stima di sĆ©, in questo caso di me, e con il discorso dell’infliggersi auto-punizioni, ma mi sembra tutto sommato il punto piĆ¹ basso di qualcosa che non so definire.

capire l’acca

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Ero mosso da una voglia irrefrenabile di chiedere all’impiegato vestito da infermiere che ha registrato i miei dati propedeutici alla somministrazione del vaccino che sport praticasse. Il camice era cosƬ teso all’altezza dei suoi bicipiti che non riuscivo a staccare gli occhi di dosso da quelle braccia inutilmente possenti per l’attivitĆ  di data entry. Mi piacerebbe trascorrere almeno un giorno della mia vita con un fisico cosƬ, per vedere cosa si prova. Probabilmente mi divertirei a dare ceffoni a destra e a manca, anzi a destra e basta. Anche se, e immagino di avervi giĆ  informato, se fossimo provvisti di questa funzionalitĆ  mi reincarnerei per 24 ore in Stefano Bollani e non sprecherei nemmeno un minuto senza suonare al piano tutto quello che mi passa per la testa. Comunque, con l’infermiere, mi sono trattenuto per piĆ¹ di un motivo. 1. Non era il momento. 2. Non volevo che la mia curiositĆ  passasse per broccolaggio, era del sesso sbagliato. 3. Era straniero e giĆ  stentava nella traduzione delle mie risposte in un linguaggio adatto alla digitazione finalizzata al completamento del certificato sul programma che stava utilizzando. E, last but non least, sono strasicuro che avesse i capelli tinti di nero. Il colore si diradava in un modo anomalo sulla pelle marrone scuro del suo cranio, fattore che ho interpretato vincolato a un’etĆ  non piĆ¹ verde. Io di quelli che hanno il fisico cosƬ e hanno piĆ¹ o meno i miei anni non mi fido granchĆ©. Quando vedo Lollobrigida tutto compresso nei suoi completi da fratellista d’Italia o l’ex compagno della presidentessa del consiglio gonfio come un bignĆØ, penso a quanto tempo perdono in palestra anzichĆ© favorire le arti liberali, che poi la mia ĆØ tutta invidia. Quando mi sposto per la scuola con il mio portamento claudicante, curvo, asimmetrico e con gli abiti – sempre quelli – che mi cascano addosso, mi chiedo cosa pensino i miei colleghi. Anzi, lo so e lo leggo negli occhi di Rosina, la bidella, che mi fa notare che quando mi vede ho sempre qualcosa di tecnologico in mano, anche quando porto una ciabatta, nel senso della multipresa, a chi ne ha bisogno. Gli edifici scolastici vecchi come quello in cui lavoro io hanno impianti elettrici molto datati e gli accrocchi tra prese grandi, piccole e schuko sono la risposta concreta ai corsi sulla sicurezza che ci propinano con cadenze ossessivo-compulsive. Non ĆØ raro scorgere gruppi scultorei composti da spine di diversa natura che farebbero venire i capelli dritti a qualunque elettricista dotato di buon senso anche se, per ora, chi rischia le conseguenze delle dita nella corrente sono solo i docenti e i bambini educati a casa liberi di fare qualsiasi cosa. Rosina mi ĆØ molto simpatica perchĆ© ĆØ la prima collega che ho conosciuto – si ĆØ rifiutata di farmi entrare, il primo giorno, perchĆ© non mi aveva mai visto prima – e, al rientro dalle vacanze estive, ci abbracciamo sempre. Se non deve pulire o sbrigare qualche altra faccenda, se ne sta seduta a completare parole crociate o a leggere. La scorsa primavera la vedevo tutta immersa ne “Il minore”, il libro del principe Harry. Ora ĆØ circa a metĆ  di una biografia di Frida Kahlo che curiosamente chiama Frida Osho, forse pe la presenza fuori posto, almeno secondo i canoni grammaticali che si imparano in una primaria come la nostra, dell’acca nel cognome. LunedƬ scorso ho provveduto a una supplenza in una prima ed ĆØ grazie a lei che me la sono cavata con la parte piĆ¹ ardua della didattica, e cioĆØ aiutare i bambini a indossare piumini e annodare sciarpe. Avevo dimenticato questo aspetto collaterale del mio mestiere. I miei alunni – ho una quinta – ormai sono grandi e giĆ  non mi stanno piĆ¹ ad ascoltare. Sono giĆ  all’ultimo anno del mio primo ciclo, chissĆ  come sarĆ  ripartire da capo.

montascale per il paradiso

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C’ĆØ solo una rockstar la cui vecchiaia mi ĆØ insopportabile ed ĆØ Robert Plant. Non chiedetemi il perchĆ©, non sono nemmeno un fan accanito dei Led Zeppelin anche se mi sono sentito in dovere di possedere l’intera discografia in vinile, malgrado i miei gusti siano decisamente meno hard rock. Eppure per i Led Zeppelin nutro una smodata venerazione – insieme ad altri svariati miliardi di persone – che si ĆØ sviluppata solo di recente. Negli anni ottanta poche cose erano fuori contesto come la loro musica, poi il grunge ha riappacificato gli animi dei rockettari e dei punkettoni e alla fine ho dovuto ammettere che alcuni dei loro dischi sono davvero eccezionali. Per farvi capire, mi fa piĆ¹ tenerezza Robert Plant da anziano che Robert Smith, per lo meno il primo si concia meno da uno che non ha ancora risolto i problemi con la propria adolescenza, anche se il secondo resta al vertice di ogni mia classifica delle personalitĆ  del mondo mondiale. Lo avrete visto tutti con i lucciconi, qualche anno fa ai Kennedy Center Honors, bearsi estasiato per l’ennesima volta dell’eccezionalitĆ  della sua vita e della sua musica, e avrete letto della sua performance di beneficenza in occasione del “An evening with Andy and special guest”, la serata organizzata da Andy Taylor dei Duran Duran in collaborazione con il Cancer Awareness Trust dello scorso 21 ottobre. Chi l’avrebbe mai detto che, un giorno, si sarebbero trovati due artisti dalla carriera cosƬ lontana a suonare insieme “Stairway To Heaven” che, musicalmente, si trova agli antipodi del New Romantic. Il cantante dei Led Zeppelin ha 75 anni, ovviamente agli acuti dell’ultima strofa non ci arriva piĆ¹, ma rimane l’insuperabile concentrato di storia della musica che conosciamo.

pelo

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Ho un’amica che compra una qualitĆ  di cibo per gatti pensata per i periodi dell’anno in cui il pelo ĆØ piĆ¹ arruffato. Sostiene che queste incertezze nei cambi di stagione non siano vissuti al meglio da Scheggia, la sua gatta. L’escursione termica in questo strascico di estate tracimata nell’autunno, aggiunta all’alternarsi di alta e bassa pressione, confonde il naturale adattamento dei felini all’ambiente in cui vivono. Perdono il manto estivo soppiantato da quello dei mesi piĆ¹ freddi, ma ecco che il ritorno di un clima temperato genera scompiglio nei loro processi vitali e cosƬ il pelo non capisce piĆ¹ niente e si arruffa. Quest’estate la mia gatta, che ormai ĆØ anziana, ha avuto qualche problemino di salute dovuto principalmente alle conseguenze del grande caldo sul suo apparato digerente. In genere l’estate non fa bene ai gatti, mi ha rassicurato il veterinario, che ha sottoposto la mia Doremi a un paio di punturoni e le ha prescritto del cibo di tipo gastrointestinal. Io pensavo si trattasse di una marca, invece ho scoperto trattarsi di un prodotto trasversale commercializzato da quasi tutti i brand di pet food da sottoporre ai gatti con problemi di dissenteria e vomito. Scartabellando tra gli scaffali avevo notato anche scatolette e buste di crocchini adatte per i casi di pelo arruffato e, tra di me, avevo pensato che nessuno se ne sarebbe mai servito. Voglio dire, ĆØ giĆ  tanto che i gatti non stiano tra di loro all’aperto a cacciare topi e uccellini o abbandonati ai caselli autostradali o, come succedeva ai tempi di mia nonna, a contendersi scarti nella spazzatura delle cascine di campagna. Scherzo eh, ho molti lettori amanti degli animali. Anzi, sono fermamente convinto che tutta questa attenzione a cani e gatti abbia definitivamente avviato un nuovo periodo storico, quello dell’animalesimo, in cui la bestia domestica ĆØ il vero fulcro della societĆ . Tutta questa attenzione permetterĆ  la loro evoluzione ed ĆØ un bene, per lo meno siamo sicuri di lasciare tutto questo ben di dio a esseri umani con un po’ di buon senso.

The National – Laugh Track

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Il resto delle pagine di Frankenstein non delude le aspettative suscitate dalla pubblicazione delle prime due, solo qualche mese fa. I The National sono autori di trame senza tempo e si confermano i veri grandi classici della musica contemporanea. Ci sarĆ  ancora un capitolo della storia?

Altro che Laugh Track. Non cā€™ĆØ niente da ridere. A certi appuntamenti bisogna arrivarci pronti, per questo io abolirei i dischi a sorpresa. La liturgia di un nuovo album devā€™essere rispettata religiosamente. Ci vogliono uno o un paio di singoli con qualche mese di anticipo, i video e le campagne sui social per scaldare i fan. Ci vuole il tempo per prenotare il vinile in anteprima, magari lā€™edizione limitata, colorata e autografata, o anche banalmente il conto alla rovescia per la sua pubblicazione sulle piattaforme di musica liquida. Senza pensare a cosa abbiamo bisogno noi addetti ai lavori, a partire dalla possibilitĆ  di ascoltarlo settimane prima degli altri per preparare una recensione da far uscire a ventiquattrā€™ore dal lancio ufficiale, manco se il pubblico non aspettasse altro di sapere, noi signori nessuno, cosa ne pensiamo di questo o quellā€™artista.

E, in questo passaggio di autoreferenzialitĆ  passivo-aggressiva, ne approfitto per citare me stesso, quando scrivevo che First Two Pages of Frankenstein fosse il disco migliore dei The National, almeno fino a quello successivo. PerchĆ© un secondo album a pochi mesi di distanza da quello precedente non puĆ² che costituirne la sublimazione. E la copertina non lascia dubbi: Laugh Track ĆØ la versione a colori di First Two Pages of Frankenstein.

Dā€™altronde, se ci pensate bene, era indubbio che in quattro anni ci fosse stato tutto il tempo per mettere insieme qualcosa di piĆ¹ della manciata di (ottime) tracce del primo dei due dischi del ritorno dei The National sulle scene. Non solo: se tutto fosse stato concentrato nella stessa pubblicazione, cioĆØ se First Two Pages of Frankenstein e Laugh Track fossero stati confezionati in un unico album triplo o quadruplo, sarebbe sembrato inutilmente prolisso e ci avrebbe preso piĆ¹ per sfinimento che per amore dei The National, con il rischio di non riservare lā€™adeguata attenzione a certe perle che, fiaccati dalla sovraesposizione, avremmo ascoltato con un poā€™ di sufficienza snob.

I detrattori della piĆ¹ importante band di questo primo quarto di secolo, a fronte di quasi trenta brani costruiti piĆ¹ o meno con la stessa formula (due o quattro battute con il giro di accordi della strofa e poi spazio alla consueta melodia baritonale di Matt) avrebbero sicuramente trovato nuovi proseliti. In quello che, condizionati da abominevoli pregiudizi, alcuni avranno giĆ  scaricato illegalmente (la versione fisica esce a novembre) e archiviato nella categoria degli album complementari ad altre cose trite e ritrite, ci sono invece numerosi spunti che conferiscono a Laugh Track lo status di disco a sĆ© (e decisamente superlativo). Questo indipendentemente dal fatto che, al netto del bimbo che gioca a una specie di ā€œindovina chi sonoā€ con la testa di un manichino, un ascolto superficiale potrebbe far supporre che, in comune tra i due dischi, ci sia poco piĆ¹ che lā€™anno di rilascio.

Se le trame delle tracce di Laugh Track sono palesemente contemporanee alla preparazione del capitolo che lā€™ha preceduto (credo che i temi ricorrenti dei testi ne costituiscano una prova piuttosto inconfutabile), il consolidamento, la successiva forma definitiva e (presumo) la conseguente registrazione ĆØ avvenuta durante il tour di First Two Pages of Frankenstein. Troviamo quindi una maggior coralitĆ  nelle soluzioni di arrangiamento, meno escamotage da studio e piĆ¹ passione live (su tutte, la traccia finale ā€œSmoke Detectorā€, un brano pressochĆ© infinito in cui lā€™approccio da estasi da palcoscenico risulta fin troppo evidente). Le parti ritmiche, a partire dal modo di accompagnare con la batteria le canzoni che ĆØ proprio di Bryan Devendorf, tornano a conferire ai pezzi quella naturalezza e quella fluiditĆ  a cui siamo abituati. Uno stile qui piĆ¹ umanizzato e meno da preset di drum machine che si adatta perfettamente alle esigenze delle canzoni.

Il punto ĆØ che i The National hanno quel qualcosa per cui li metti sul piatto e non ci pensi piĆ¹. Ogni tanto ci destiamo dal rapimento a cui ci induce la loro musica e ci chiediamo se non abbiamo giĆ  sentito quella soluzione armonica, quellā€™arpeggio, quel ritornello o quei versi in rima in unā€™altra canzone dello stesso disco o in uno degli altri duemila che hanno dato alle stampe nei decenni scorsi. Io sono convinto che non si tratti di stanchezza compositiva. Non ĆØ colpa loro. Semmai ĆØ frutto di un deja-vu o di una di quelle asimmetrie percettive per cui i nostri emisferi cerebrali colgono una sensazione un millesimo di secondo uno prima dellā€™altro, ve la vendo cosƬ, non so nemmeno se sia scientificamente attendibile ma tanto non ne capite un tubo tanto quanto me e poi, nellā€™era delle fake news, chi ci fa piĆ¹ caso.

E se non vi ho ancora convinto del voto altissimo che merita Laugh Track, senza dubbio tanto quanto quello che ho assegnato a quellā€™altro perchĆ©, appunto, i due dischi alla fine sono reciprocamente propedeutici (potrei dire lo stesso anche rispetto a tutti gli altri dischi e, ci metto la mano sul fuoco, per tutti quelli che verranno in futuro), un dieci dato al decimo ellepi dei The National comporta almeno lo sforzo di stilare una lista di dieci buoni motivi per giustificare il giudizio stellare.

Il primo (1) ĆØ la presenza di ā€œWeird Goodbyesā€, il brano scritto a quattro mani con lā€™amico Justin Vernon alias Bon Iver, uscito lo scorso anno e che ci chiedevamo tutti che fine avesse fatto, dopo esser stato estromesso da First Two Pages of Frankenstein. Il secondo (2) ĆØ ā€œSpace Invaderā€, il mio brano preferito, un pezzo metĆ  canzone dei The National e nei restanti tre minuti farneticazione rock ad alto tasso di psichedelia, un nuovo pretesto per Matt Berninger per gettarsi tra la folla di padri tristi ai concerti, con il microfono con il cavo piĆ¹ lungo del mondo, a far impazzire fonici, addetti alla sicurezza e backliner.

Aggiungo quindi il ritorno dei giochini con i tempi dispari (3), mai ci fu un incipit di album altrettanto imballabile di ā€œAlphabet Cityā€, sotto questo punto di vista. E poi ancora (4) la full immersion nellā€™atmosfera cosƬ The National che piĆ¹ The National non si puĆ², e mi riferisco a ā€œTurn Off The Houseā€. Il ritorno (5) dell’inconfondibile timbro di Phoebe Bridgers nella title track, che non fa per nulla rimpiangere lā€™assenza, a questo giro, di Taylor Swift. E, a proposito di guest femminili, ecco lā€™esordio di Rosanne Cash (6) come controcanto di Matt in ā€œCrumbleā€, non a caso la traccia piĆ¹ alternative country del disco. Poi la presenza (7) da una parte di quei brani delicati che solo i The National sanno fare, come ā€œDreamingā€, ā€œTour Managerā€ e ā€œHornetsā€, dallā€™altra (8) di ā€œCoat On A Hookā€, una road-song che sembra senza fine, da ascoltare nei coast to coast con i finestrini giĆ¹.

Infine (9) cā€™ĆØ la compattezza e l’organicitĆ  di questo album, forse paradossalmente uno di quelli con maggior identitĆ  da cima a fondo della band, unā€™impressione esemplificata perfettamente dalle vibrazioni che ci dĆ  un brano come ā€œDeep Endā€ e che ci porta inevitabilmente alla decima (10) delle reason-why. Malgrado la mezza etĆ , il tempo passato a calcare i palcoscenici, lā€™inesauribile vena creativa, la volontĆ  di restare sempre i The National e il non bisogno di cercare altro, la band dei doppi fratelli piĆ¹ un crooner un poā€™ depresso ĆØ tuttā€™altro che invecchiata e superata. A giudicare da come ĆØ andata la scorsa volta, se entro dicembre uscirĆ  un terzo disco sarĆ  un successo senza precedenti, ve lo assicuro.

i cinquant’anni di Selling England By The Pound

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La prima volta in cui ho ascoltato Selling England By The Pound dei Genesis, lā€™album che in questi giorni compie mezzo secolo, era la primavera dellā€™83. Lo so perchĆ© ricordo perfettamente quel momento. Facevo la seconda liceo e stavamo andando in gita. Ero seduto sul pullman dietro ad Alessandra, una compagna di classe per cui nutrivo una profondissima devozione che mi spingeva a starle sempre nei pressi, un impulso interrotto poche settimane piĆ¹ tardi, quando si presentĆ² a scuola con una permanente che non le donava per niente. Ma in quellā€™uscita didattica portava ancora i capelli lunghi e lisci. Fu lei a prestarmi il suo walkman Sony con la cassetta che stava ascoltando dentro senza che nemmeno glielo chiedessi, un gadget da famiglia benestante di cui, come quasi il resto dei compagni, viaggiavo sprovvisto. Indossai con la massima cautela le cuffie, la cui spugna protettiva grigia era intrisa del profumo da teenager che usava lei – poteva essere qualcosa tipicamente anni ottanta come Baruffa o, agli antipodi socioculturali, un retaggio degli anni settanta come il Patchouli. Premetti il pulsante play e una voce nuda, su una melodia priva di un sottofondo musicale, cosƬ diversa rispetto al modo in cui la conoscevo io e che era il timbro di ā€œShock The Monkeyā€ o di ā€œGames Without Frontiersā€, mi chiese a bruciapelo se sapessi dirgli dove fosse il suo paese. Poi la canzone continuĆ², e dopo la sorpresa di quellā€™attacco mi rilassai, abbandonandomi nellā€™ascolto sul sedile del pullman. Ecco, se potessi scegliere un superpotere, vorrei poter riascoltare per la prima volta certi dischi, a partire da Selling England By The Pound, e bearmi dellā€™effetto che fa.

Ma torniamo alla gita. Spostai lo sguardo fuori dal finestrino, intorno a me scorreva una natura approssimativa ma non saprei dire dove stessimo transitando, nĆ© rammento quale fosse la meta di quel viaggio. Intercettando alcuni tratti del mio viso riflessi nel vetro, forse in quellā€™istante maturai gli effetti dellā€™amore impossibile a cui anelavo e la certezza che quel disco, i cui dettagli scoprii solo in seguito, mi avrebbe accompagnato per il resto della vita anche se, di lƬ a poco, i miei gusti musicali si sarebbero radicalmente allontanati da quelle sonoritĆ . Qualche mese dopo uscƬ Construction Time Again dei Depeche Mode, rimasi folgorato e, da allora, anche se i Genesis (con Peter Gabriel) sarebbero rimasti per sempre al vertice della lista delle sensazioni piĆ¹ belle mai provate, la mia estetica musicale non tornĆ² mai piĆ¹ indietro.

Il fatto ĆØ che la percezione del tempo che scorre ĆØ inversamente proporzionale a quanta vita abbiamo giĆ  vissuto, su questo non ci piove. Uno dei pensieri che mi dĆ  cosƬ tanta ebbrezza da farmi perdere lā€™equilibrio – una cosa banale, eh, niente di che, abbassate pure le vostre aspettative – ĆØ che lā€™anno in cui sono nato dista dalla fine della seconda guerra mondiale lo stesso tempo che intercorre dal momento in cui sto scrivendo questa cosa che leggete a quello in cui i Massive Attack pubblicarono Mezzanine, un disco che, per come suona e per la frequenza con cui se ne sente parlare quotidianamente da chiunque, potrebbe essere uscito ieri.

Quei dieci anni – dal 73, anno di uscita di Selling England By The Pound, allā€™83, la gita con il walkman di Alessandra e la sua cassetta dei Genesis, corrispondono allo stesso arco temporale che intercorre tra lā€™oggi e, per fare un titolo a caso del 2013, Trouble Will Find Me dei The National, un disco di musica attualissima. Tutta colpa dellā€™eterno presente che va avanti dallā€™inizio del duemila e che ha ridotto quasi un quarto di secolo a poche indistinguibili stagioni.

Invece, in quei dieci anni che separavano il mio primo ascolto di Selling England By The Pound dalla sua pubblicazione, era trascorsa unā€™era geologica. Gli anni ottanta, con uno spoils system culturale mai visto prima, avevano mandato in pensione i capelli lunghi, lā€™organo hammond, le zampe di elefante, le suite rock con i brani lunghi unā€™intera facciata e le radio libere, mettendo in pratica un processo di semplificazione culturale a beneficio del pop. Ritmi pari, sintetizzatori, radio edit, poca tecnica e network commerciali con ballerine in costumi striminziti.

Non so dirvi quando acquistai la copia che possiedo tuttā€™ora di Selling England By The Pound, ma mi piace pensare che, a ridosso della mia svolta dark new wave, il mio me stesso di allora abbia investito la sua paghetta mensile in un disco che sono sicuro di conoscere meglio di qualunque altra cosa al mondo. Posso anticipare qualunque passaggio della sua tracklist, dallā€™incipit di Dancing with the Moonlit Knight al fade out di Aisle of Plenty. Sapevo addirittura accennare al piano lā€™intro di Firth of Fifth.

Non vi sto a fare la storia e lā€™analisi brano per brano di uno dei piĆ¹ importanti prodotti della creativitĆ  del genere umano che, come credo, conoscerete tutti a menadito e sono sicuro che sapreste descrivere meglio di me. Vi dico solo che spero che qualcuno mi avvisi quando sto per morire almeno 5 minuti e 19 secondi prima, giusto il tempo per ascoltare, per lā€™ultima volta, il finale strumentale di The Cinema Show e portarlo con me nellā€™eternitĆ , o qualsiasi cosa ci sia.

la bandiera del mondo

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Il modo da divano piĆ¹ efficace per schierarsi tra l’una o l’altra fazione delle svariate guerre che funestano ormai irrimediabilmente la quotidianitĆ  ĆØ quello di sfoggiare la bandiera del cuore (Ucraina o Russia, Palestina o Israele) a corredo del proprio profilo social. Un vero e proprio biglietto da visita pensato affinchĆ© i beniamini della parte avversa sappiano giĆ  in partenza che ĆØ meglio evitare certe discussioni e i cosiddetti leoni da tastiera non corrano il rischio di esporre sotto il fuoco amico i proprio compagni di branco. Ho letto da qualche parte qualcuno che si chiedeva quale fosse la bandiera del mondo, al netto di quella delle Nazioni Unite cosƬ tanto vituperata, l’unico vessillo in grado di superare qualunque dualismo (a meno di un’invasione aliena a seguito della quale, sono certo, ci divideremmo di nuovo).

Nell’attuale corsa ai nazionalismi e a chi ce l’ha piĆ¹ sovranista anche noi ci siamo scoperti primatisti europei soprattutto grazie ai meloniani e ai fratellisti d’italia che hanno gettato sul fuoco della nostra deprivazione culturale il combustibile piĆ¹ efficace per rinvigorire la fiamma tricolore dell’italianitĆ . A me tutta questa agiografia del made in Italy mi dĆ  cosƬ fastidio da rendermi invise persino le nostre nazionali di pallavolo, unico sport che suscita il mio interesse. Si ĆØ appena conclusa una per noi fortunatamente fallimentare stagione di competizioni continentali e mondiali che ho seguito a stento a causa della retorica dei commentatori televisivi. Meno male che abbiamo perso tutto quello che c’era da perdere. Non mi interessa il calcio o, peggio, il rugby, ma sono certo che, malgrado anche da quelle parti siamo scarsi come la merda, sia tutto un elogio della nostra resilienza che, a onor del vero, ha rotto ampiamente il cazzo. Io vorrei essere cosƬ tanto ricco da pagare gli organismi internazionali per abolire tutti i tipi di competizioni sportive in cui gli atleti rappresentano una bandiera, con ammende salatissime per i campioni che suggellano i loro successi circondando con un close-up tra pollici e indici a formare un cuore i colori che rappresentano. Sono certo che sarebbe giĆ  un passo in avanti. Basta haka, basta inni stonati a inizio partita, basta hooligan da una parte e dall’altra.

Un terreno altrettanto fertile per la narrazione del paese piĆ¹ bello del mondo ĆØ la comunicazione pubblicitaria. Il marketing italiano, approfittando della recente recrudescenza del trittico dio-patria-famiglia, ci dĆ  dentro per propinarci i peggiori messaggi motivazionali sul posto in cui cui viviamo. Il risultato ĆØ che le centinaia di programmi televisivi sui nostri borghi piĆ¹ suggestivi al mondo o sulla nostra cucina migliore al mondo o sulla nostra forza lavoro piĆ¹ infaticabile al mondo o sul nostro genio piĆ¹ geniale al mondo o sulla nostra sregolatezza piĆ¹ sregolata al mondo sono interrotti da spot sui prodotti realizzati in Italia, paese dalla qualitĆ  suprema. Come se noi italiani non fossimo in grado di osservare, assaggiare, leggere, valutare e riflettere. Lo so, ĆØ vero, sicuramente sempre meno. E l’aspetto ridicolo ĆØ che tutti i popoli del mondo raccontano di essere i piĆ¹ bravi, i piĆ¹ belli, i piĆ¹ forti, i piĆ¹ intelligenti, alla fine anche il piĆ¹ idiota dei marziani si renderebbe conto che c’ĆØ qualcosa che non va. Poi, voglio dire, con quale faccia tosta ci paragoniamo a francesi, inglesi e tedeschi, tanto per citare i primi che mi vengono in mente? Ne abbiamo anche per gli svizzeri, che non so se avete mai varcato il confine.

E, a proposito, la pubblicitĆ  del cioccolato Novi ha un copy in cui le parole Italia e italiano si ripetono cinque volte in trenta secondi: “L’Italia ĆØ il paese piĆ¹ bello del mondo? Probabilmente si. Ma sicuramente ĆØ il paese piĆ¹ Novi che c’ĆØ. PerchĆ© Novi ĆØ il cioccolato che gli italiani amano. La poesia italiana del cioccolato. Il trionfo delle nocciole italiane del nocciolato. I raffinati abbinamenti di Novi nero nero. E anche chi non ĆØ italiano impara presto ad amarlo. Svizzero? No! Novi.” Che poi, voglio dire, Novi Ligure ĆØ un posto veramente di merda – attenzione a non confonderla con il cioccolato – e non ĆØ nemmeno in Liguria.

un’insensata voglia di equilibrio

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Chi l’avrebbe mai detto che un giorno ci saremmo dovuti arrendere all’avverarsi di una profezia di un gruppo di mezze calzette come i Negramaro, quando cantavano – con voce tremante – il segno di un’estate che avrebbero sperato non finire mai, peraltro con un frontman che per farsi notare ha giocato a lungo a fare il cosplayer di Samuel dei Subsonica. Anche a scuola non si capisce piĆ¹ niente. Le cornicette sui fogli a quadretti con le castagne, le ghiande, le foglie morte e gli scoiattoli e le tinte tipiche di questa stagione attendono ancora il cambio degli armadi, consapevoli che si passerĆ  direttamente dai ghiaccioli ai bastoni canditi delle strenne natalizie senza passare dalle mezze stagioni. E, oltre all’autunno, abbiamo anche bambini non pervenuti. Famiglie che – legittimamente – rientrano al loro paese di origine durante la pausa estiva e che tornano in Italia rispettando un calendario tutto loro. Non vedo problemi, ma almeno si dovrebbe avvisare i diretti interessati. Qui c’ĆØ la scuola dell’obbligo e se procrastini di un mese il primo giorno ĆØ sempre meglio comunicarlo, anche solo per evitare il rischio che si avvii la penosa trafila della notifica ai servizi sociali. Abbiamo una lista lunga quanto un foglio A4 di chi li ha visti? e che va dall’infanzia alla secondaria di primo grado. Le lezioni da noi sono cominciate il 12 e una mia alunna, dagli zii in Egitto, si ĆØ presentata due settimane dopo. SarĆ² ossessionato, ma io mandavo mia figlia a scuola anche con la febbre, prima che il Covid cambiasse il significato stesso di indisposizione. Un caso che fa il paio con quell’altra i cui genitori hanno una scansione del tempo tutta particolare. Spesso in ritardo a ritirare la bambina all’uscita, qualche giorno fa per un malinteso di coppia siamo stati costretti ad attendere quasi un’ora, resistendo alla tentazione di avvisare – come imporrebbe la procedura – le forze dell’ordine per abbandono di minore dopo trenta minuti. Il prolungamento della bella stagione influisce anche sull’esperienza di socialitĆ  negli intervalli. I bambini rientrano in classe dopo l’ora di gioco successiva alla mensa sudati marci e puzzolenti e vanno avanti e indietro dal bagno a riempire la borraccia per le rimanenti due ore di scuola. Io non mi faccio intimidire perchĆ© sono in quinta e vado avanti con quello che mi sono preparato per la lezione. Il nuovo anno ci ha addirittura fatto trovare un favo di vespe in giardino. Un nido in una buca profonda almeno mezzo metro che ha richiesto l’intervento dei volontari locali dei vigili del fuoco. Come vedete, non ci si annoia mai a fare il mio lavoro e se aggiungete il toner della fotocopiatrice che il nostro fornitore non ci ha ancora consegnato e Leonardo, un tipetto occhialuto della terza accanto alla mia classe che urla e scappa dall’aula per motivi ancora ignoti, con le colleghe costrette a inseguimenti che manco agli europei di atletica, il cerchio si chiude. Questo per dire che, come cantava coso lƬ dei Negramaro, restiamo sul filo del rasoio ad asciugare parole qui, tanto con il caldo che fa non c’ĆØ nemmeno il rischio che si bagni il computer.

Deeper – Careful!

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ƈ sufficiente un qualsiasi Bignami della musica degli anni ottanta a confermare quanto i compromessi di certi gruppi post-punk di allora, al terzo o quarto disco, abbiano permesso unā€™appendice insperata alla loro fortuna. Gli incesti con reggae, pop, funk, industrial e persino lā€™italo-disco oltre il tempo limite ne hanno abilitato la sopravvivenza (o per lo meno un dignitoso strascico) al di fuori dei paradigmi claustrofobici tipici di un genere diventato temporaneamente fuori moda. Non dobbiamo sorprenderci, quindi, delle recenti virate delle band omologhe del nuovo millennio verso altri stili. Negli ultimi mesi abbiamo incensato credibili omaggi degli Squid e compagnia bella al math-prog, al punk piĆ¹ sbraitato e persino alle derive cantautorali.

Giunti al terzo album, i Deeper invece ottengono il badge di fedelissimi alla linea e lo fanno in un modo tutto sommato convincente. Dā€™altronde non cā€™ĆØ scritto da nessuna parte che sia necessario creare brecce nella propria comfort zone per raggiungere una illusoria scomoditĆ  solo per la fama o perchĆ© ci si senteĀ stufi di fare sempre la stessa cosa, e ve lo dice uno che ĆØ stato azzurro di routinaggio estremo.

La sicurezza di ciĆ² che si conosce bene probabilmente si ĆØ profilata come la via piĆ¹ percorribile per lā€™autoconservazione. La band di Chicago aveva infatti attraversato una crisi esistenziale nel corso della lavorazione del secondo albumĀ Auto-Pain, uscito nel 2020. Il chitarrista Mike Clawson aveva tristemente rinunciato prima al suo ruolo nel gruppo e, pochi mesi dopo, ancora piĆ¹ tristemente, alla sua vita. Sappiamo cosa succede, nel mondo della musica, quando un membro di una band si suicida, e a volte possiamo dedurre anche il perchĆ©. A questo aggiungeteci la fase storica, in quei mesi di lockdown e post-pandemia, aggravanti che hanno messo a dura prova la creativitĆ  in ogni settore artistico a fronte dei punti interrogativi del futuro.

Questo per dire che, sostanzialmente, il terzo disco dei Deeper ĆØ un ottimo terzo disco dei Deeper, freschi di approdo alla scuderia Sub Pop. Nic Gohl, il cantante e chitarrista, si conferma una delle voci migliori della nuova generazione post-punk, uno che non si lascia andare volentieri alla tentazione dello spoken-word e, quando lo sentiamo slegare le sue melodie dai solchi dellā€™intonazione, non lo fa solo per aggiungere una nota di trasgressione gratuita allā€™approccio della band. Insomma, siamo sempre dalle parti dei Wire ma in una variante che soddisfa anche i palati piĆ¹ tecnici. Il resto della band (Drew McBride alla chitarra, Shiraz Bhatti alla batteria e Kevin Fairbairn al basso) marciano come treni ad alta velocitĆ  e con adeguato rigore nei loro binari. Ad aggiungere valore, qualche trovata di sintetizzatori e tappeti di strings qua e lĆ , in grado di ribadire lā€™auspicata algiditĆ  alle canzoni.

I brani diĀ Careful!Ā sono un vero compendio delle trovate compositive del genere. Riff ricavati da spigolose rincorse monodiche tra chitarre pulite che non si sottraggono al gioco di fare il verso alla linea vocale. Cassa e basso in ottavi coordinati. Dinamiche con su e giĆ¹ e stop and go a dare i giusti sussulti anti-noia. SobrietĆ  esecutiva e ampia varietĆ  sotto-stilistica (vi sorprenderĆ  scoprire quante combinazioni si possono ottenere nella zona di confine tra il post-punk e la new wave piĆ¹ accondiscendente).

In linea con i due lavori precedenti, i Deeper si confermano il piĆ¹ british dei gruppi post-punk americani, e se ascoltate brani come ā€œBildā€, ā€œGlareā€ e ā€œBuild A Bridgeā€ avrete capito che cosa intendo. Un sottoinsieme da cui si discostano lievemente ā€œDualbassā€, tutta colpa di qualche inciampo nel blues, e ā€œSubā€, con quel crescendo di rabbia nel finale che ci lascia di stucco, d’altronde ĆØ raro vedere i Deeper scomporsi.

Ci sono anche episodi piĆ¹ sperimentali riconducibili alla drum machine di ā€œTeleā€, ai richiami ai New Order (complice lā€™elementare riff di chitarra che si svela nel finale e che ci riporta a ā€œAge of Consentā€) e a certi guizzi alla Devo di ā€œFameā€, il brano in cui piĆ¹ di tutti Gohl vena il suo timbro degli armonici vocali di Robert Smith. ā€œEverynightā€ probabilmente ĆØ la canzone piĆ¹ riuscita di tutta la tracklist, un pezzo in cui le tastiere si impadroniscono della scena lasciando libere le chitarre di perdere il controllo.

L’album si conclude con la canonica traccia tutta su tre note, una tentazione a cui nessuna band post-punk che si rispetti difficilmente sa resistere. Ma “Pressure” non ĆØ solo questo. Nascoste dalla linearitĆ  espressiva ci sono le parole dā€™amore nei versi dedicati da Nic Gohl alla moglie. Il che suona strano nel post-punk di maniera dei Deeper, rigoroso e a tratti persino filologico. Lā€™angoscia che pervade il disco non cambia di una virgola, alla fine dellā€™ascolto, ma si percepisce una evidente apertura della band al mondo che li circonda, come se avessero imparato la lezione, dopo quello che gli ĆØ successo. Una sorta di maturitĆ  artistica, per capirci. Malgrado le ferree regole del club musicale a cui appartengono, i Deeper diĀ Careful!Ā ci tendono una mano, si avvicinano per sussurrare qualcosa di bello che non saprebbero dire altrimenti. E, fidatevi, per riuscirci con il post-punk ci vuole davvero della stoffa.