la notte dei miracoli

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Conosco l’uomo seduto sulle gradinate a qualche metro da me. Ora fa l’avvocato, ma negli anni settanta è stato un cantautore all’avanguardia. Vi ricordate quando, sull’onda delle tensioni sociali dell’epoca, musica popolare, radici folk e dialetto sono stati oggetto di riscoperta da parte dell’industria discografica? Di recente si è presentato persino come concorrente per uno degli svariati talent show tutti uguali pensati per preparare al mondo dello showbiz qualche giovane esordiente sottratto al settore del delivery a pedali. La sua candidatura si è fermata tra i fenomeni da baraccone che inframezzano lo spettacolo della selezione vera e propria, temo per il fattore anagrafico. Oltre il danno, però, la beffa, perché nessuno dei giudici lo ha riconosciuto. Stasera indossa una giacca color glicine sopra una camicia bianca e una cravatta blu. C’è un po’ di vento e siamo gli unici due spettatori non autorizzati a seguire lo spettacolo che si terrà a breve in questo anfiteatro finto-greco che sembra più una piscina prosciugata. Il palco è montato sul fondo ma, per un efficace effetto ottico degno della riproduzione di una stampa di Escher, lo vediamo più in alto della nostra posizione. Mi chiede se può avvicinarsi e non mi sembra una cattiva idea. Finché i musicisti sono in pausa e consumano la cena possiamo chiacchierare un po’. Io sono convinto che abbia preso l’iniziativa perché, durante la lunga parte strumentale del brano che ha introdotto poco fa l’esibizione, mi ha visto scambiare qualche battuta con il cantante, che poi è Lucio Dalla. Pensa che, in quanto ospite della serata, io sia importante quanto lui, che anche io faccia parte dell’ambiente artistico. In realtà sono uno qualunque ma invitato dal batterista, che è un amico di infanzia. La sera prima, per caso, sono capitato in un’altra tappa dello stesso tour, nel portico del chiostro medioevale di un’abbazia delle vicinanze. Sono andato a salutarlo anche per chiedergli spiegazioni sul un brano del repertorio che avevano appena eseguito e sul nesso della canzone con la carriera di Dalla, un autore che di certo non ha bisogno di attingere da composizioni altrui. Mi aveva incuriosito infatti l’esecuzione di “You Make Me Feel (Mighty Real)” di Sylvester. Il mio amico batterista mi ha fatto notare la presenza dell’autore della hit da discoteca (peraltro defunto tanto quanto Lucio Dalla) come tastierista del complesso, confessandomi che, data la crisi dei live dovuta alla pandemia in corso, anche i professionisti del loro calibro si sono dovuti adattare alla musica da intrattenimento. Non a caso, mi ha detto, la sera successiva avrebbero suonato a una festa privata a cui, se mi faceva piacere, avrei potuto partecipare aggregandomi a loro come seguito della band. Ecco perché mi trovo qui. Vedo Lucio Dalla con il suo cappello di lana seduto a tavola, lo osservo di schiena lamentarsi con un forte accento bolognese della scarsa attenzione che i facoltosi invitati rivolgono alle sue canzoni.  Alle mie spalle e dietro l’unico altro spettatore, che ora siede al mio fianco, ci sono diverse tavolate conviviali con portate da ricchi su tovaglie immacolate. Dalla barba bianca di quello che è il festeggiato potrebbe trattarsi anche del compleanno di Dio. Il posto si trova a fianco del sentiero che costeggia i binari delle Ferrovie Nord all’altezza di Bruzzano. Mentre lo percorrevo a piedi per arrivare fino a qui ho raccolto un bel mazzo di agretti che ora sto mangiando crudi, non prima di averli separati dalle radici ricoperte di terra. Ne offro qualcuna al cantautore in pensione ora seduto al mio fianco, che però rifiuta in modo molto cortese.

cose che si ripropongono

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Non sono pochi i siti dei foodblogger e quelli più istituzionali, come Giallo Zafferano, che consigliano di conservare il pesto – ma anche altre salse – in forma di monoporzioni negli stampi che tradizionalmente impieghiamo per i cubetti di ghiaccio. L’ex compagno di Anna ne possiede uno verde acido di marca Alessi che permette di creare vere e proprie capsule ovoidali che, una volta estratte, fanno una certa scena. Ma solo con i liquidi e nei long drink. Il pesto, lo saprete meglio di me, non gela perfettamente e gli ovetti estratti dal freezer hanno una consistenza particolare per cui non risultano lisci. Non per questo la tecnica è poco efficace.

Dario ha ricevuto lo stampo pensato per il ghiaccio – ma poi hackerabile a piacimento – in dono da Anna in occasione dell’ultimo compleanno che hanno trascorso insieme, prima di separarsi di lì a poco. Il regalo comprendeva anche un tostapane e una specie di piccolo tritatutto/miscelatore da cucina che Dario paradossalmente utilizza tutt’ora al posto del tradizionale mortaio ligure che la disciplina più rigorosa imporrebbe per pestare il basilico e i pinoli fino a mescolare il tutto con olio e pecorino. Ho omesso l’aglio volontariamente, considerando che a non tutti piace. Nella scorta che Dario ha surgelato per l’inverno l’aglio però è un ingrediente abbondante. Ieri sera ha cucinato una pasta e poi, con i tre ovetti di pesto ormai scongelati rimasti, si è preparato altrettante tartine utilizzando una base di fette wasa, quella specie di cartone che, mangiato al posto della focaccia, ti fa già sentire più magro solo appena lo compri.

Una cena tematica non a caso: Dario voleva rivedere Anna per capire se entrambi fossero ancora mossi l’una per l’altro, a distanza di così tanto tempo e di così tanto spazio, rispetto alla loro giovinezza e alla Liguria. Una specie di prova del nove per verificare se la scelta di prendere strade diverse vent’anni prima fosse stata quella più lungimirante.

Il fatto è che dopo sono finiti a letto, e la scelta di un condimento così ingombrante dal punto di vista sinestesico ha fatto purtroppo la differenza. Nella notte Dario ha persino sognato la nonna paterna, morta qualche mese dopo la vittoria della nostra nazionale di calcio ai mondiali dell’82. Si presentava all’improvviso con i capelli color argento ben pettinati e con il cappotto nero con il collo di pelliccia nella stanza in cui giaceva con Anna. Dario si precipitava a vestirsi ma, per sbaglio, cercava di infilarsi le collant di lana nera di Anna. Si sentiva a disagio per aver ceduto alla curiosità di rivedersi con l’ex compagna e se ne vergognava. In certe scelte non si torna mai indietro, su questo sarete pienamente d’accordo.

I due, poi, uscivano per recarsi a un concerto ma Dario era costretto dall’età avanzata su una carrozzina. Anna lo spingeva da dietro. Lo spettacolo si sarebbe tenuto sull’antica fortezza, in un punto inaccessibile per i disabili soprattutto per l’acciottolato della via d’accesso. A ridosso della biglietteria in cui avrebbero chiesto il pass per l’area riservata alle sedie a rotelle c’era un manifesto dei Blur e due sorelle gemelle che si facevano un selfie. Dopo, Anna incontrava alcuni suoi vecchi amici scout – con l’uniforme nera al posto della tradizionale blu e verde – allo stand della birra che la salutavano con una di quelle coreografie che utilizzano i giovani nei film americani ma che poi, nella realtà, si emulano solo per mero citazionismo.

Dario si preoccupava così per il fatto che, battendosi reciprocamente il palmo delle mani, aumentavano il rischio di contagio del Coronavirus ma, una volta sveglio, aveva realizzato che nessuno dei protagonisti indossava la mascherina. Fuori era ancora inverno, i parabrezza delle auto ricoperti di ghiaccio e il basilico sul balcone non sarebbe comunque sopravvissuto.

festival

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Qualcuno ha organizzato al Teatro Ariston in corso Magenta a Milano – che a differenza di quello in cui si tiene il celebre festival della canzone italiana sfoggia un’insegna con il logo della nota marca di elettrodomestici – un evento che sta a metà tra una performance di arte contemporanea basata su un concept, per capirci una cosa tipo “The Artist Is Present” di Marina Abramovic ma molto, molto più provocatoria, e un evento di marketing non convenzionale per il lancio di un nuovo prodotto editoriale. Un happening per intellettuali ma dal carattere piccante che accende la curiosità anche delle persone normali il cui orientamento estetico si esaurisce nelle stampe già incorniciate e disponibili in posti come l’Ikea o il Leroy Merlin. Un regista molto off del circuito indipendente girerà scene pornografiche abbinando sconosciuti a professionisti del settore per una pellicola da presentare alla Biennale. Ha messo un annuncio su una rivista di appassionati e, all’evento, si sono presentati a migliaia da tutto il mondo.

In coda al botteghino per confermare la registrazione effettuata online ci sono anche Federico, sua moglie, la sorella della moglie e il cognato. Attendono il loro turno ma, con il loro fare sarcastico tipico dell’intellettualismo di un certo tipo alle prese con i fenomeni di massa, si trovano a ventilare la possibilità di mollare il colpo, in mezzo a quella ressa. Nessuno vuole perdere tutto quel tempo. L’organizzazione però riesce a sorprenderli per efficienza e, in men che non si dica, eccoli a ricevere indicazioni dalla receptionist.

Gli vengono indicati gli spogliatoi – separati per genere come in piscina – in cui troveranno una cassetta di sicurezza in cui chiudere indumenti ed effetti personali e un accappatoio in spugna bianco da indossare. Federico porta però con sé lo smartphone e resta con le scarpe da corsa con cui si è presentato ma non lo biasimo: io addirittura non riesco a stare scalzo nemmeno sulla sabbia al mare. Il fatto è che i tempi di attesa per le riprese sembrano lunghissimi e qualcuno consiglia loro di approfittare del bar per bere qualcosa. I quattro si accomodano a un tavolo ma decidono di ordinare una bottiglia di acqua frizzante al posto del prosecco. L’alcool potrebbe compromettere la riuscita della scena che ciascuno – singolarmente – dovrà interpretare con il partner che gli verrà associato.

Dopo appena un bicchiere Federico avverte l’impulso di andare in bagno. Si accorda con gli altri per non perdersi nella folla che, nel frattempo, ha raggiunto una quantità fuori controllo e si avvia alla toilette che, manco a dirlo, è presa d’assalto. Così si precipita in strada, fuori dal teatro, alla ricerca di un qualsiasi wc pubblico e si mette in cammino fino a imbattersi in uno di quei cabinotti di plastica che si installano nei cantieri. Le condizioni dentro sono deplorevoli ma lo stimolo è ormai impellente. Nel tentativo di non sporcare la suola delle sue Brooks Glycerine nuove con l’urina sparsa sul fondo riesce comunque a portare a termine la missione in maniera rocambolesca. Peccato però che i lembi dell’accappatoio si bagnino, facile immaginare di cosa.

Al momento di rientrare nel luogo dell’happening si accorge però che la via del ritorno non corrisponde più con quella dell’andata, un topos della letteratura onirica. Prova a seguire quel briciolo di senso di orientamento che l’imbarazzo di camminare nel centro di Milano conciato così gli lascia, ma senza successo. Per fortuna ha con sé l’inseparabile app di Google Maps e, impostata la destinazione del percorso sullo smartphone, riesce a ricongiungersi con gli altri.

Manca ancora molto al loro turno e la tentazione di visitare la galleria commerciale annessa al teatro è forte. Il mall comprende infatti un punto vendita di una catena che ritenevano fosse presente solo all’outlet di Vicolungo e così ne approfittano. Mentre attendono le mogli fuori dai salotti di prova, suo cognato manifesta impazienza per scoprire in cosa consisterà la scena di cui sarà protagonista a breve. Federico mette a freno la sua smania, ricordandogli che, sicuramente, il sogno si interromperà prima che l’altoparlante chiamerà i loro nomi per presentarsi sul set.

la nota blu

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Sono in supplenza in una terza liceo ed è molto strano perché faccio l’insegnante alla primaria. La richiesta di coprire una classe vuota per un imprevisto è stata repentina. Ero in segreteria a configurare il back-end del Registro Elettronico di Axios quando il collega di musica che ricopre il ruolo di vicepreside irrompe nell’ufficio e chiede la mia disponibilità, è una questione di emergenza. Io ho con me l’hard disk con le mie lezioni e penso che non ci sia così tanta differenza tra un bambino di dieci anni e un ragazzo di sedici quando gli parli di generi musicali e di arte come espressione degli stati d’animo dell’uomo. Mi precipito in classe, collego tutto quanto, saluto l’uditorio e comincio. Dopo qualche minuto mi accorgo però che una ragazzina dell’ultima fila sta smanettando con lo smartphone nemmeno troppo di nascosto. Le chiedo di consegnarmelo e, mentre mi avvicino al suo banco, si premura di chiudere tutte le app attive e di spegnerlo. Glielo requisisco, ma non faccio in tempo a voltarmi per tornare alla cattedra che noto un altro studente che fa la stessa cosa, nonostante abbia appena ripreso la sua compagna di classe. Una cosa che ricordo sempre ai miei alunni – nella realtà – è che se dico che un comportamento non va bene è una regola che vale per sempre e quindi non è che, passato un giorno, possono ripeterlo. Nel sogno così gli faccio una analoga paternale e gli ritiro il dispositivo. Ritorno al mio posto ma il ragazzo, malgrado abbia già sbagliato, persevera nell’errore. Ha gli occhi rivolti verso il basso e, appena mi metto in punta di piedi, non mi è difficile sorprenderlo con un nuovo telefonino in mano. Mi verrebbe voglia di dirgli “ma sei scemo?” come ogni tanto mi succede in classe, purtroppo però agli insegnanti non è consentito insultare gli alunni ed è un vero peccato. Mi piacerebbe, per esempio, dire almeno una volta a Mattia “o pezzo di cretino, la finisci di muoverti come un idiota?” quando non riesce più a stare fermo nel banco e a contenersi. Ma non si può, e me ne guardo bene. Comunque, per continuare il racconto, attraverso di nuovo la classe fino all’ultima fila e prendo lo smartphone di riserva al ragazzo, che però, come fanno i maghi con conigli dalla maniche, ne estrae un altro già acceso e pronto all’uso dal tascone sul davanti della felpa. Gli prendo anche quello e gli chiedo il diario, una bella nota non gliela toglie nessuno. “La prego, non la scriva”, mi implora a quel punto. “I miei genitori me la faranno sicuramente pagare”. Mi sento onnipotente e irremovibile come non mai. Mi siedo alla cattedra, mi igienizzo le mani anche se nel sogno nessuno indossa la mascherina (probabilmente si tratta di una bolla asettica), cerco la pagina del giorno di oggi e mi accingo a scrivere. Solo a quel punto mi accorgo che anni di scrittura al PC hanno rimosso la memoria muscolare e, con la penna in mano, non ho idea da dove iniziare per muoverla sul foglio. Mi ricordo che quando a scuola scrivo le comunicazioni ai genitori dei miei bambini uso le lettere maiuscole, in modo che non ci siano rischi di comprensione per il mio corsivo da medico. Ma non posso fare lo stesso in un liceo. Cosa penserebbero le famiglie? Alla fine dell’ora decido di non restituire gli smartphone requisiti. So già che i genitori andranno su tutte le furie e considereranno il gesto una sorta di furto. Una cosa è mettere nel cassetto un portachiavi di Guerre Stellari, un conto un iPhone da mille euro.

la valigia dei suoni – speciale David Bowie

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É da oggi in edicola il nuovo numero della collana “La valigia dei suoni”, pubblicazione uscita in occasione del quinto anniversario della scomparsa di David Bowie, una delle figure più iconiche a cavallo tra novecento e nuovo millennio nonché principale fonte di ispirazione per tutte le generazioni di artisti cresciute successivamente. Pensata principalmente per i musicisti di strada o per applicazioni in cui si manifesti la necessità di suonare con strumenti non convenzionali, la valigia dei suoni è un prodotto editoriale a cadenza mensile divenuto con il tempo un vero e proprio oggetto di culto per collezionisti. La formula ideata dalle edizioni Dal Prete è sicuramente innovativa: un parallelepipedo rettangolo in cartone scomposto, già sagomato tramite fustella e pronto da rimontare che, una volta riassemblato, forma una sorta valigia sonora in scala 1:1. Ogni faccia del solido corrisponde a un accordo (sei in tutto). Percuotendole, seguendo una successione stabilita da uno spartito, si può accompagnare la canzone a cui la valigia dei suoni del mese è intitolata. Lo speciale David Bowie non poteva non essere ispirato a “Heroes”, una delle composizioni più note del cantante inglese. La realizzazione della nuova valigia dei suoni è interamente dedicata, quindi, al suo periodo berlinese e richiama i colori della copertina dell’album (una gelida scala di grigio) e, come materiale, la pelle nera del giubbotto che Bowie indossa nel video della canzone. Per “Heroes” l’adattamento al parallelepipedo è stato semplice, essendo composta da solo cinque accordi (RE, SOL, DO, LA-, MI-), sequenza armonica che ha permesso di lasciare una faccia della valigia alla ritmica. Due pelli di diversa elasticità e ampiezza sullo stesso lato lungo permettono infatti di accompagnare la successione degli accordi con i suoni di cassa e rullante della batteria, rendendo l’esecutore una one man band a tutti gli effetti. I responsabili editoriali della collana non hanno rivelato il numero di copie della valigia dei suoni di “Heroes” distribuite, ma siamo sicuri che andrà presto a ruba. I fan del duca bianco, e i collezionisti, sono avvisati.

ultras

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L’amico Massimo è mancato qualche giorno fa a 52 anni per un bruttissimo male, a quanto ho saputo, ma l’evento è stato organizzato molto prima dalla locale squadra di pallanuoto in cui ha militato da giovanissimo, vincendo qualche scudetto in massima serie e ottenendo persino la convocazione in nazionale. Vista la crisi del settore sportivo dovuta al coronavirus, la federazione – in collaborazione con l’amministrazione comunale – ha messo in pista un trofeo a cui partecipano le sedici più importanti squadre nazionali, molte delle quali sono liguri tanto quanto la nostra. L’obiettivo è chiaro: riportare lo sport ai fasti degli anni ottanta, quando la compagine cittadina si giocava ogni anno i playoff per aggiudicarsi il titolo nel campionato di A1.

Il numero delle società in gara è facile desumerlo. Gli organizzatori hanno allestito una bellissima coreografia all’interno di una cornice quadrata divisa in sedici settori, quattro in orizzontale per quattro in verticale. Ogni parte è ulteriormente suddivisa in quattro quadrati, due sopra e due sotto, occupati a scacchiera da altrettanti palloncini colorati secondo i due colori sociali di ciascuna squadra – i nostri sono il bianco e il rosso – sulla cui superficie si può anche leggere il nome siglato della società.

I palloncini sono manovrati da giovanissime cheerleader acconciate con pettinature in voga all’epoca e vestite solo con costumi da bagno in tinta con i palloncini che reggono. Cantano una canzone da stadio che si poteva ascoltare tra gli ultras durante gli incontri e muovono a ritmo i palloncini creando un avvincente effetto ottico. Trovo anche molto riuscito il contrasto tra la musica che esce dall’impianto della piscina comunale all’aperto e il fatto che le ragazze si esibiscano senza microfono come se fossimo a teatro, una trovata filologica che mi spiego come un tentativo di ricordare a tutti un’epoca in cui non esisteva ancora Internet e vivevamo tutti disconnessi. Quando noto la portata dell’iniziativa penso che forse, in concomitanza con il decesso dell’ex campione, le prossime edizioni saranno dedicate interamente alla sua memoria.

Io partecipo tra gli spettatori grazie a un biglietto ridotto che mi ha procurato la donna che poi, nella realtà, diventerà mia moglie anche se è di Milano ma si sa, nei sogni non si va tanto per il sottile. Lei occupa un posto nelle tribune vip in quanto giornalista chiamata dalla testata in cui lavora – una specie di Vanity Fair ma di sinistra – a documentare il torneo. Mi sono piazzato nell’adiacente anello di gradinata, ubicato proprio sotto di lei. Prima del calcio di inizio – anche se lo so che non si gioca con i piedi ma si fa così per dire – fanno ingresso alcune personalità importanti del mondo dello spettacolo. Il primo si fa largo tra la folla ma di lui ricordo solo di conoscerlo bene di persona. Potrebbe trattarsi di Fabio Fazio. Penso che potrei darmi delle arie salutandolo ma lascio perdere. Subito dopo ecco i Ricchi e Poveri in grande spolvero avviarsi verso i loro posti riservati.

Mi sono messo accanto a due amiche, sedute poco più avanti. Con una so di avere buone possibilità ma ora è tutta presa dal fare delle foto ai giocatori al di là delle transenne con lo smartphone. Ho deciso di venire anche se a me lo sport in generale non mi interessa, ancor meno la pallanuoto. Il fatto è che i componenti della squadra, in una città di provincia come la nostra, sono – giustamente – delle vere e proprie celebrità e le ragazze la sera si muovono nei locali che sanno esser frequentati dai giocatori. Di conseguenza noi maschi facciamo altrettanto e cerchiamo di beneficiare di quella tecnica di conquista a strascico, come si dice, cercando cioè di pescare nel mucchio e, conseguentemente, prediligendo l’alta concentrazione di esemplari. Le due groupie con cui mi accompagno, in particolare, fanno le smorfiose con un giocatore straniero, dalla pelle scura, ben contento di trovarsi al centro dell’attenzione. Usano una di quelle app che permettono di posizionare effetti in tempo reale sulle immagini e si alternano nella realizzazione di selfie con il loro beniamino.

Riesco comunque a collocare cronologicamente il momento della mia vita in cui si svolge il tutto. Sono al quarto anno di università perché ho i capelli lunghi sulle spalle, e li ho ancora tutti, neri e a boccoli, nell’insieme ho un discreto appeal e riesco persino a gestire due e anche tre relazioni allo stesso tempo (ma non tutte insieme, eh). Le due supporter sono prese nei loro flirt da bordocampo ma comunque inizio a baciarmi con la giornalista nella tribuna distinti dietro. La mia futura moglie è giovane come me, anche se la sua versione ventenne la conosco solo dalle sue vecchie foto. Ha i capelli corti e mentre siamo abbracciati nei rispettivi settori degli spalti mi accarezza il torace. Terminano le partite e ci spostiamo a casa nostra, insieme a una cara amica di famiglia. Probabilmente ci siamo sposati nel frattempo e ci troviamo al corrente Natale. Ci sono degli avanzi nel frigo e mia moglie tenta di abbrustolire un mazzetto di radicchio rosso direttamente su un fornello, così le faccio notare che si brucia e che è meglio utilizzare la griglia smokeless che abbiamo preso con i punti dell’Esselunga.

cronaca vera

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Oggi in redazione sono passati a trovarci Bernie Sanders e Fidel Castro e, quando rientro dalla pausa pranzo, li noto commentare a fianco del direttore del quotidiano, seduto sull’angolo di una delle scrivanie dell’open space come nei film americani, il testo di un paio di stampe A4 su cui ci sarà probabilmente la bozza dell’editoriale di domani. Poter mangiare a casa spezzando la giornata lavorativa è un privilegio impagabile anche nei sogni. Abito a cinque minuti a piedi dal giornale, che ha la sede negli uffici di Via al Ponte Calvi proprio al posto degli uffici di una software house in cui ho lavorato quando avevo poco meno di trent’anni, quella dall’elevato tasso ingegneristico e maschile tanto che alle pareti non c’era appeso nemmeno un poster, per non parlare di stampe artistiche e dipinti.

Le uniche ragazze sono la tuttofare alla reception e la grafica con cui ho una specie di relazione clandestina. Io sono single ma lei ha già un fidanzato. Con lui e la sua famiglia trascorre il venerdì sera a dilettarsi con il liscio e altri balli di coppia. Anche se musicalmente siamo diversissimi, in certe situazioni ce la caviamo piuttosto bene. Abbiamo appunto approfittato della vicinanza di casa mia che – anche se si trova a sessanta km da lì ma, nei sogni, vale tutto – è quella dei miei genitori. Appena ci siamo chiusi la porta alle spalle non abbiamo perso tempo. É alta come me e, mentre ci abbracciamo in piedi per qualche preliminare, mi domando se sarà ancora in forma come era allora, dopo tutto questo tempo. Il fatto è che io un po’ mi vergogno se lei è rimasta giovane, dopo più vent’anni. Il confronto con il grasso superfluo che mi si è depositato sopra il fondoschiena e l’alluce valgo potrebbe risultare impietoso.

Nella realtà invece qualche anno dopo, ma io ero già andato via da lì, metterà su famiglia con il collega ingegnere con il sorriso a sessantaquattro denti, quello dai lineamenti tutt’altro che etero e che non nascondeva il suo orientamento nazifascista. Chissà come avrebbe reagito se, al ritorno per riprendere servizio dopo pranzo, si fosse trovato, a pochi passi dalla sua postazione, due pezzi da novanta della storia e della sinistra internazionale come quelli. In redazione c’è anche mia figlia, sta svolgendo uno stage come quello inutile che avevo fatto io a La Stampa, appena laureato. Mi avvicino e mi vanto con lei facendole notare il livello di ambiente professionale che frequenta suo padre. A guastare tutto sono i commenti del caporedattore dello sport, un omuncolo viscido, senza capelli e squallido che, manco a dirlo, vota Fratelli d’Italia. Mentre ci ammorba con i suoi sproloqui e una canzonaccia in rima sul ventennio mi gioco la solita gag, quella in cui capovolgo la testa sostenendo di non riconoscerne i lineamenti senza osservarlo a testa in giù.

A darmi man forte sopraggiunge Nicola Zingaretti, che nel frattempo si è unito a noi per omaggiare i nostri ospiti esclusivi. Supera i due metri di altezza ha una dialettica così convincente che il collega meloniano è costretto a ritirarsi nelle sue fogne morali, come è giusto che sia. Propongo a mia figlia di farsi un selfie con Sanders, Castro e il segretario del PD perché un’occasione così non capiterà mai più ma lei, come accade nella realtà, non vuole mettersi in ridicolo. Io invece, a differenza sua, non ho nulla da perdere, così attivo la fotocamera dello smartphone rivolta verso di me ma, come al solito, non riesco a impugnarlo bene senza ostruire l’obiettivo con le dita.

il sesso degli insegnanti

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La collega di inglese della secondaria mi ha portato una boccia di Ferrari ma sono io quello che si deve scusare. Non mi lasciava parlare al telefono, e io pensavo ma che razza di help desk sono se non riesco nemmeno a mettere sul pause un’insegnante un po’ nevrotica che sciorina a raffica tutte le sue teorie bizzarre a spiegazione del problema che ha riscontrato sulla piattaforma che usiamo per la didattica a distanza. Nel sogno mi mostrava, in un curioso smartphone fisso dal design accattivante con tanto di cornetta e display a undici pollici, la schermata della chat in cui un ragazzino dall’inconfondibile cognome di origini ebraiche le dava della cogliona mentre lei spiegava la lezione del giorno. Il messaggio “Lei è una cogliona” non stonava nemmeno tra le domande e le risposte in inglese e, nel fermo immagine, il presunto autore risultava immortalato in una specie di balletto da musical anni ottanta. Nella sua cameretta di studente della secondaria di primo grado sfoggiava riccioli di media lunghezza e un cappello alla Michael Jackson.

Io, per contro, vedevo sul mio monitor un flusso di indirizzi IP che non mi davano la risposta che cercavo, e cioè se era davvero lui il presunto colpevole o se qualche compagno di classe burlone si era intromesso per seminare zizzania nella modalità sincrona imposta dall’emergenza sanitaria. La collega sosteneva che il suo alunno soffrisse di problemi di sicurezza informatica, e io – se mi avesse lasciato parlare – volevo rassicurarla che nessun hacker si impossesserebbe del pc di un ragazzino di dodici anni per scrivere un insulto così morigerato, per giunto dandole del lei. Semmai l’alunno avrebbe interrotto la lezione con un filmato porno con la sua insegnante protagonista, come succede di questi tempi e come se anche alle prof non piacesse divertirsi tanto quanto chi opera in altri settori meno complicati da giustificare durante un lockdown in cui, chi ha evaso le tasse, ora pretende persino aiuti statali in barba ai dipendenti pubblici a cui viene trattenuto tutto sin dal primo giorno di lavoro. Non sapete quante volte ho chiesto allo stato di pagarmi in nero ma non ci sono riuscito.

Comunque poi non ci ho più visto e le ho detto “lasciami parlare” e mia moglie, che ha assistito alla conversazione perché era in smartworking a pochi passi da me, sostiene che sono stato un po’ brusco. Ci siamo così dati appuntamento con tutto il corpo docente per fare festa nel locale in cui hanno girato una scena tagliata di “Footloose”, uno di quei bar della provincia americana con il jukebox. La collega di inglese ha fatto ingresso con la borsa del pc a tracolla mentre noi eravamo già alla seconda o terza birra. Qualcuno ha sostenuto di essere stato un suo amante. Qualcun altro ha messo proprio la titletrack di quel celebre film anni ottanta e tutti gli insegnanti hanno eseguito un balletto che avevamo studiato per l’occasione, durante il quale venivamo ripresi da vicino dalla telecamera e dovevamo battere con il palmo della mano destra la parte superiore del boccale che reggevamo con la mano sinistra, cercando di non bagnarci i vestiti con la schiuma.

taglia 48

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La mia classe oggi trascorre l’intervallo in un parco che non ho mai visto. La prima impressione, però, non è delle migliori. Ci sono tanti bambini. Troppi bambini. Rispettare il distanziamento sarà un’impresa. Le istruzioni erano quelle di portarsi il pranzo al sacco come si fa quando si va in gita. Io controllo che tutto fili per il meglio, in piedi in un punto da cui si gode una visione d’insieme. Non so se ho già mangiato, nei sogni la fame è una sensazione che non si prova. Più facilmente ci scappa da andare in bagno. Marco Giulio mi chiede di usare la toilette, cosa che fa sempre quando siamo in mensa perché gli piace scherzare con l’interruttore della luce ma, quando non riesce ad aspettare di rientrare in classe, deve accontentarsi della turca. Ai servizi del parco in cui ci siamo fermati però c’è un po’ di coda. Ma quando è il suo turno mi tocca aiutarlo perché il water è sproporzionato per le dimensioni umane, per non parlare di quelle di un bambino. Lo tengo per le braccia mentre fa quello che deve fare, una cosa che non facevo da quando mia figlia era piccolissima. Quando usciamo, però, fa una faccia strana e dice di non sentirsi poco bene. Anzi, gli viene da vomitare. I bambini che vomitano in mensa sono la cosa peggiore che possa capitare a un insegnante e non so, qui all’aperto, come sarà l’esperienza. Non faccio in tempo a dirgli che magari è solo un po’ di nausea che rimette una confezione intera di robiola, ed ecco avverarsi il miracolo: nel sogno sento la puzza. L’odore del latticino rimesso dai bambini è ancora peggiore di una vomitata tout court. Comunque, come spesso accade una volta che ci liberiamo, Marco Giulio si sente subito meglio e torna a giocare con i compagni sugli attrezzi da corpo libero disseminati per il prato, proprio mentre mi raggiunge mio cognato. Torna da casa mia, dove si è incontrato con mia moglie per farle firmare un documento relativo a uno degli innumerevoli prodotti postali che ci ha venduto nel tempo. Mi dice qualcosa a proposito di Brunetto Latini. Sostiene che il fatto che un’entrata non prevista e che garantisce qualche sicurezza in più si chiami “tesoretto” sancisce il primato della cultura umanistica su quella economico-finanziaria. Mi mostra la sua pagina Facebook sul telefono, dove ha scritto un post simile. Indossa il mio completo a quadretti piccolissimi grigio chiari e non posso non notare che gli sta strettissimo sull’addome Peccato, penso prima di svegliarmi, perché avevo pensato di regalarglielo proprio qualche giorno prima. Ho preso qualche chilo, durante il lockdown, e nei pantaloni taglia 48 proprio non ci entro più.

ladri di biciclette

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Il pullman o, meglio, la corriera – si dice così dalle mie parti – per tornare a casa dalla scuola in cui insegno oggi è gremitissima, ma nei sogni non ci sono problemi di assembramento, non vedo nessuno con la mascherina, ne deduco che i fatti si svolgono prima della pandemia. Finalmente qualcuno scende all’unica fermata di uno dei centri abitati che si incontrano prima del mio, un borgo di campagna con quattro case in croce. Mi avvio, perdendo l’equilibrio per le curve del percorso, a occupare uno dei sedili liberi, e mentre sto per raggiungere quello che ho adocchiato una ragazza seduta mi ferma e si rivolge a me usando un’espressione molto familiare. La guardo tra il sorpreso e l’imbarazzato perché si tratta della citazione di un post di questo blog, anche se ora non ricordo bene quale. Mi colpisce la disinvoltura con cui mi parla, quella che usano i fan più audaci quando incontrano le loro popstar preferite nei luoghi della movida e li fermano per chiedere un autografo. La ragazza ha poco più di vent’anni e porta l’apparecchio, a conferma del fatto che i sogni probabilmente li registrano nel momento in cui siamo al massimo della nostra forma, per dare una versione al top di noi stessi agli altri protagonisti che li interpretano nonché agli spettatori. Mentre mi confessa di aver scoperto il mio blog osservandomi mentre scrivo i post usando la app di WordPress sullo smartphone durante i viaggi della mattina e di essere così diventata una mia lettrice, si avvicinano un paio di sue amiche a ricordarle che devono scendere, la fermata di Rivierasca si avvicina. Una in piedi mi dice addirittura che il mio blog glielo ha consigliato suo padre, un particolare che aumenta la mia autostima tanto da convincermi che potrò finalmente ingannare il tempo dei prossimi viaggi – siamo tutti pendolari quotidiani – flirtando un po’.

Le fan scendono e io prendo posto tutto contento per continuare la lettura del libro. Al capolinea recupero la bicicletta e mi dirigo verso casa, ma vedo movimento intorno all’ingresso del Cinema Nuovo, chiuso da tempo. Lascio la bici, senza legarla, appoggiata al muro dell’agenzia viaggi di fronte per entrare a dare un’occhiata. La platea è gremita, sul palco una conferenza si avvia alla conclusione. Si spengono le luci e parte un film-documentario dedicato al G8 e ai fatti di Genova. Decido di fermarmi ma prima mi avvio all’uscita per mettere la catena alla bici. Come supponevo, la bicicletta non c’è più. Chiedo alla donna che lavora all’agenzia viaggi ma non si è accorta di nulla. Penso così al motivo che, nella mia vita, ricorre con frequenza: mi succede qualcosa di bello e dopo facilmente accade, subito dopo, qualcosa di poco piacevole a compensare le sensazioni di gioia e di pienezza di me provate. Mi affretto così a tornare a casa a piedi e la casa, come sempre, è quella dove sono nato e cresciuto. Mi metto sul divano a fianco di mia moglie a guardare un po’ di tele ma suona il campanello. Qualcuno va ad aprire la porta e dal salotto intravedo superare la porta dell’ingresso mio cognato – quello che mi ha truffato appropriandosi della parte della casa di campagna di famiglia che spettava a me – con suo fratello, un tizio poco raccomandabile quanto lui.

A quel punto non ci vedo più dalla rabbia: come è possibile che i miei genitori abbiano mantenuto rapporti con la persona che ha distrutto la famiglia e ha aggravato le condizioni di salute di mio papà? Inizio a comportarmi proprio come quando mi vengono gli attacchi di ira da sveglio: l’emozione si impadronisce di me, non mi vengono le parole se non frasi sconnesse, quando invece vorrei demolire tutto con la mia ironia. Mi chiudo in camera per darmi una calmata sperando invano che qualcuno venga a vedere come mi sento. Quando torno di là l’appartamento dei miei, nel frattempo, si è riempito di gente. In cucina, intorno al tavolo, seduto insieme a mio cognato c’è uno sconosciuto che si alza immediatamente per venire a presentarsi, forse ha capito chi è l’autore del sogno. Anche la sala da pranzo è piena di ragazzini, ci sono bevande e analcoliche e bicchieri di carta sul ripiano della madia, qualcuno deve aver organizzato una festa. Mi verso qualcosa, mi è venuta sete dall’incazzatura provata, e vedo Marco e Christian, due dei miei alunni di seconda tra i più simpatici. C’è il frastuono tipico delle occasioni in cui si fa baldoria e, per conversare, è bene appropinquarsi alle persone per capire cosa ci dicono. Ora, a scuola, con la mascherina è fondamentale. Christian mi vede, fa cenno di avvicinarmi e, insieme, mi dicono «maestro ti vogliamo bene».