La nuova formula dell’esame di maturità adottata quest’anno la ricordavo differente ma, al cospetto della commissione, mi astengo da qualsiasi commento. Quello che non riesco a focalizzare è il motivo per cui mia figlia abbia scelto me come partner per sostenerlo e, soprattutto, perché io mi sia prestato. E vi assicuro che non è come nei quiz televisivi in cui il concorrente può chiedere l’aiuto telefonando a casa, in caso di dubbio. Mi hanno fatto sedere lì, al suo fianco, nella postazione adibita proprio di fronte ai professori e mi tempestano di domande ma non li biasimo. Quello in cui devo ancora sostenere l’esame di maturità malgrado sia già pienamente laureato e, a dirla tutta, più in prossimità del pensionamento che del primo impiego costituisce il più longevo dei miei incubi ricorrenti. Di certo non mi sarei mai aspettato che il soggetto prevedesse uno spin-off proprio quest’anno in cui è mia figlia a terminare il liceo.
Lei se l’è appena cavata molto bene. Sciorina cose di latino, greco, filosofia, storia e letteratura italiana che davvero non mi capacito come sia possibile ricordare. Ed è una cosa che penso ogni volta che mi chiede aiuto per ripetere la lezione in prossimità di un’interrogazione. E malgrado abbia seguito a grandi linee un analogo percorso di studi umanistici mi meraviglio di quanto io, invece, non mi ricordi più un cazzo e di come sia stato possibile superare esami universitari trent’anni fa che prevedevano programmi incommensurabili.
Non a caso quando poi viene il mio turno – la valutazione finale verrà calcolata attraverso una media delle prove di entrambi – le cose prendono una brutta china. Qual è il lago più esteso del continente oceanico. L’anno del trattato di Verdun. Quali province italiane si affacciano sul golfo di Policastro. In che anno è morto Salvatore Quasimodo. Chi c’era a capo del primo governo di unità nazionale dopo il forfait di Badoglio. Fino a un’inaspettata sorpresa: di quanti fogli di calcolo è composto di default un file di Excel al momento della sua creazione.
Più che una prova di maturità sembra uno di quei test assurdi a risposta multipla che vengono somministrati durante i concorsi per gli insegnanti ma è un problema antico quanto la pubblica amministrazione. Anche se sto vivendo un sogno, resto consapevole del fatto che la scuola – almeno quella italiana – è l’unica organizzazione al mondo priva di un’adeguata selezione del personale e che demandare a una prova nemmeno degna della settimana enigmistica la carriera di un aspirante docente non sta né in cielo né in terra. Vorrei anche chiedere il senso di fornire risposte che potrei dare in pochissimi secondi cercandole su Google ma ho capito la lezione, almeno quella. La commissione mi congeda e, malgrado poco prima sia riuscito a collegare diversi argomenti – le opere di Douglas Coupland, le cover di “Just Like Heaven” dei Cure, come effettuare ricerche nei file log di Google Workspace – vivo la netta sensazione che la mia performance possa compromettere il voto finale di mia figlia.
Mi accomodo in attesa dell’esito in una saletta laterale dove c’è la sua prof di scienze che, davvero, è l’esempio in carne e ossa di quello che ho appena pensato sul reclutamento dei docenti. Noto però con piacere che il tavolino davanti al quale mi siedo in realtà è un pianoforte con tasti tutti bianchi – compresi quelli che tradizionalmente sarebbero neri – costruiti con i Lego e con un efficace design a scomparsa in cui occorre premerli per verificare che sono tasti di un pianoforte, spero di essermi spiegato. Il che, inutile dirlo, rende lo strumento ancora più complicato da utilizzare.
Sposto lo zaino porta-pc e altre cose per sgomberare la tastiera e inizio a suonare tutto il mio repertorio di pezzi interrotti a metà. La riduzione semplificata che strimpello da sempre di “Firth Of Fifth”, il solito improvviso di Schubert che ho imparato fino a un certo punto e altri tentativi di ingraziarmi la prof di scienze ma il gap di sensibilità artistica fra me e lei che, davvero, nessuna azienda sulla faccia della terra prenderebbe a lavorare con sé risulta più che evidente. Anche lei ha capito che il mio problema, da sempre, sta tutto nella mancanza di costanza. Finisce come al solito, che con la mano sinistra faccio la sequenza di accordi delle dodici battute del blues con la tecnica del four way closed e con la destra suono la melodia a terze di “Blue Monk”, almeno come credo di ricordarla.
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