Il momento in cui si manifesta il cosiddetto panico da palcoscenico è difficile da prevedere, e non è detto che lo si avverta mentre siamo svegli. È facilissimo però percepire questo stato d’animo diffuso tra i miei bambini impegnati in una delle svariate prove generali dello spettacolo che chiude, in un solo colpo, progetto di teatro e musica, anno scolastico, ciclo alla primaria.
Ma anche a me, l’emozione, gioca brutti scherzi. Sto cercando di posizionare la telecamera un po’ datata che abbiamo in dotazione a scuola – dovrò riprendere l’intera esibizione – senza riuscirci. Se siete del mestiere – videomaker, non insegnanti – saprete che non è scontato saper impostare l’inquadratura dritta regolando la lunghezza delle singole gambe del treppiede. Cioè i professionisti ci riescono, i cialtroni come me vanno a tentativi. Senza contare che i neon della platea dell’auditorium sono spenti per far abituare i bambini alle sole luci del palcoscenico e, nonostante gli occhiali, ci vedo malissimo. Nel display della camera però riconosco perfettamente i colori che ho impostato schiacciando a caso i pulsanti e le levette del mixer luci di cui è dotato l’impianto.
In prima fila, non chiedetemi il perché, sapete come funzionano i sogni, sta assistendo alle prove la moglie di un notissimo presentatore televisivo, uno di quelli che ha appena fatto armi e bagagli per darsela a gambe dalla tv di stato meloniana. Io e lei (sua moglie, mica la Meloni eh) siamo molto in confidenza, lo si evince dal fatto che mi siedo accanto e ci scambiamo effusioni ma sarebbe scorretto definirle amorose. I nostri volti si trovano vicinissimi e io, anziché pensare a baciarla, le morsico delicatamente ma con trasporto emotivo che non vi sto a descrivere il naso, mentre lei si sbellica dalla risate per il presunto solletico procurato. Sono certo che, prima dell’inizio della recita, la raggiungerà suo marito, sempre che sia libero dagli impegni che un personaggio pubblico della sua statura comporta.
Con i bambini ci siamo esercitati e preparati molto, e spero che i risultati mi diano ragione. Anche io ho dato del mio meglio. Ho addirittura noleggiato uno studio per registrare le musiche e definire al meglio il sound design dello spettacolo. Sulla scelta della struttura non ho avuto dubbi, in queste occasioni importanti – in cui c’è poco tempo e bisogna essere certi del risultato finale – ci si affida a professionisti e, come nel mio caso, a conoscenze personali. In realtà, se nel sogno mi sono rivolto allo studio di Fabry K., è più perché devo aver sbirciato nella sua pagina Facebook recentemente. Ve lo dico perché io da un metallaro non mi farei registrare nemmeno la base di “Tanti auguri a te” per festeggiare i compleanni in classe.
La sua storia, però, è piuttosto curiosa. È un perfetto nessuno, mai quanto me, ma sin da quando era ragazzino – è sempre stato un virtuoso della chitarra e il suo look da hair metal non ha mai lasciato dubbi – il suo atteggiamento ha dato sempre al prossimo l’impressione di uno sempre sul punto di sfondare. Si era trasferito a Milano dopo le superiori e, da allora, ha militato esclusivamente in cover e tribute band esclusivamente di matrice hard rock e tamarra. Grazie alla sua attività musicale di serie C, comunque un mestiere dignitosissimo, ha rilevato una sala di registrazione con alcuni colleghi metallari quanto lui.
Mentre, dietro al bancone del mixer, stiamo mettendo a punto l’equalizzazione dei pezzi, Fabry e il fonico commentano l’imminente cambio di sede del loro studio. L’intero stabile in cui ci troviamo è stato acquisito da una banca – peccato, quegli spazi hanno una storia artistica di tutto rispetto – e a breve sarà ristrutturato per ricavare mini appartamenti più adatti al mercato immobiliare del quartiere. Mi pare anche che vogliano vendermi qualche synth per evitare un trasloco oneroso ma è tempo perso, a casa non saprei dove tenerli e finirebbero per ammuffire in cantina. Il mixaggio termina in tempo per prendere il Flixbus per Roma, un plot twist che nell’economia della trama non ha alcun senso. Nella paura di perderlo – come nella vita reale, sono paranoico sulla puntualità negli appuntamenti – non faccio in tempo a fare la pipì prima di partire, così approfitto della prima sosta a Genova per scendere e cercare una toilette. Qualcuno mi indica il piano seminterrato del teatro Carlo Felice – il pullman ha parcheggiato nella piazza antistante – ma sapete come vanno le cose nella confusione onirica. Non vedo più i cartelli con l’omino stilizzato e soprattutto so che devo sbrigarmi, non credo che l’autista a ogni fermata faccia l’appello come facciamo a scuola prima di partire per la gita e non abbandonare nessuno nelle città d’arte. Finisce che non la faccio nemmeno lì ma non dovete preoccuparvi, la coda del sogno non è così prevedibile. In fretta e in furia riesco a elaborare una strategia che si rivelerà perfetta: decido di trovare la comitiva che viaggia con me, e sulla scaletta del Flixbus faccio di tutto per svegliarmi e precipitarmi in bagno, dove abbiamo appena installato il motore del nuovo condizionatore e non mi sono ancora abituato al controsoffitto con i faretti.