il sole in faccia

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Tra colleghi ci siamo divisi il giardino in modo da trascorrere l’intervallo evitando contatti pericolosi già molto tempo prima del Covid. Le prime hanno l’area con i giochi, anche se da quando c’è la pandemia non si possono toccare. Le seconde sono poco più avanti, quinte e quarte ai lati opposti della mini-pista di atletica e a noi delle terze – non chiedetemi il perché – è toccata la parte migliore, quella con il campetto da basket e il boschetto in miniatura con gli aceri e i pini.

Le macro-zone dedicate alle interclassi sono state quindi spartite ulteriormente per sezione per evitare che le bolle si mescolino, e a questo giro a noi della terza B non è andata benissimo. La coordinatrice della terza C è piuttosto autoritaria. Oltre a fare la docente si presta alle attività di animazione per l’oratorio locale e comunica nel gruppo di Whatsapp usando i punti elenco numerati per dirci le cose da fare. Sin dal primo mese della prima si è presa la briga di tenere per sé metà del campetto ma non per il lato corto, in modo da lasciare un canestro a testa. Vedi arrivare la sua classe preceduta dagli apri-fila con le mani piene di cinesini colorati. Erik, il mio alunno cinese, rimane perplesso quando li sente chiamare così. Nonostante questo, quelli della terza C Li posizionano per il lato lungo, da un canestro all’altro, stroncando tutte le funzionalità per il quale quel campo è stato pensato. Loro si piazzano di qua, dalla parte con la gradinata, e noi dobbiamo metterci di là, sul lato delle panchine. La scusa ufficiale è che il loro asperger a funzionamento zero ha bisogno di correre tutto il tempo e, con questo allestimento, può sfruttare un percorso efficace a muoversi da una partenza a un arrivo – guai a cambiargli la routine – in modo soddisfacente e utile a farlo stancare.

Scendono sempre dopo di noi. Prima che i guastafeste arrivino, io ne approfitto per sedermi sulle gradinate mentre i miei bambini si godono il campo da basket nella sua interezza. Da lì posso controllare che nessuno faccia cose non autorizzate con il sole in faccia. Erik ed io ce ne stiamo seduti mentre i maschi giocano a calcio con qualsiasi cosa rotoli e le bambine fanno le ruote. Sollevo la testa verso i raggi per assorbire meglio il calore e chiudo gli occhi. Erik mi fa le solite domande – cosa ho mangiato la sera prima, come si dicono certe parole in inglese, che ore sono perché aspetta solo di rientrare in classe- e io gli rispondo a memoria mentre sento il tessuto della maglia scaldarsi e il resto del corpo che si ricarica come se fossi uno smartphone collegato alla corrente. A lui non piace stare in giardino. Non ama l’intervallo. Non vuole giocare con nessuno e trascorre il tempo con me. Chiacchieriamo e facciamo insieme qualche gioco finché non mi avvisa appena vede la fila della terza C che si avvicina.

Così rientriamo nel settore di nostra pertinenza, nel quale devo accontentarmi delle panchine che, anch’esse rivolte verso il campo, hanno il sole alle spalle. Peccato, perché quando arriva la primavera o se ci sono le belle giornate stare seduto sulle gradinate è bellissimo. Non sono solo i miei alunni – a parte Erik – che vorrebbero rimanere sempre fuori, non rientrare più ai loro banchi. Invece, quando mi sposto sul lato delle panchine, il divario è incolmabile. Provo a sedermi ma l’aria fresca sulla pelle che si è scaldata, ora che il sole è alle spalle, si sente il doppio. L’estate è ancora lontana e così preferisco stare in piedi. Non mi sento più a mio agio, mi sembra di sprecare il tempo che passiamo all’aperto e – proprio come Erik – mi metto a contare i minuti che mi separano dalla fine dell’intervallo.

loading…

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Cercavo un modo per capire quando i bambini terminano una di quelle attività che chiedo di svolgere individualmente e che poi correggiamo insieme alla lim. Dicevo “quando avete finito alzate la mano” ma è un sistema che fa acqua da tutte le parti. Il solito Francesco ci mette trenta secondi, seguito di poco da Lucia, Laura e Davide, a ruota gli altri con scarti che variano a seconda dell’esercizio nei minuti successivi, con il risultato che in molti sono costretti a restare con il braccio sollevato per un quarto d’ora nell’attesa degli altri, e praticamente tutti devono aspettare Martina che non sai mai su che pianeta viva, quando rientri sulla Terra, e una volta tra noi prenda la penna o la matita dall’astuccio, trovi la pagina sul libro, chieda una seconda spiegazione e infine si metta al lavoro che, nove volte su dieci, non sa come svolgere.

Così mi sono inventato il prontometro. Ho preso una striscia di cartoncino di buona grammatura, l’ho piegata per il lato lungo a formare un cavaliere da tavolo. Poi ho fatto preparare a ogni bambino due scritte su un foglio. La prima dice “Ready!” e ho chiesto di farla a pennarello in doppietto colorato di verde. La seconda dice “Loading…” ed è rossa come le spie dei dispositivi in stand-by. I bambini le hanno incollate sui due lati e il funzionamento è stato chiaro sin dall’inizio. Mentre lavorano rivolgono la faccia “Loading…” verso di me. Non appena hanno finito ruotano il prontometro e così, quando su ogni banco si accende il verde, capisco che posso andare avanti.

Il prontometro è stato accolto con entusiasmo perché risparmia ai bambini la fatica di stare con la mano alzata ma, come è facile immaginare, non ha risolto il problema più grosso. Quello di Martina segna sempre rosso e mi ricorda involontariamente gli aggiornamenti Windows o la visione dei video su Youtube a scuola, con la rete divisa tra venti classi che la utilizzano simultaneamente. Fa sorridere perché il suo è un “Loading…” vero ma di quelli con il server spento, Internet scollegata, l’hard disk surriscaldato, la ventola impazzita, il sistema operativo bloccato, il software crashato.

Le scorciatoie per riavviare sono diverse. Le propongo di svolgere l’attività insieme perché so che, se la seguo passo passo, anzi meno, bit dopo bit, da qualche parte riusciamo a muovere la situazione di stallo. Questa è la scuola inclusiva. Ma gli altri? Allora, altre volte le do ancora del tempo ma poi so che la classe si spazientisce e non voglio che diventi lo zimbello e, comunque, se non ci è riuscita prima anche nei tempi supplementari non cava un ragno dal buco. È così dalla prima ma adesso sono grandi e i compagni hanno capito che c’è qualcosa che non va. Allora taglio corto, come quando spegni il pc tenendo premuto a lungo il pulsante di on/off e poi smonti persino la memoria dallo slot sul retro. Le dico di girare il prontometro sul verde e di copiare la soluzione dalla lavagna.

Il suo è un “loading…” perenne, una rotellina che si impalla e gira senza sosta. Il fatto è che al momento non è certificata e, senza sostegno, non si va da nessuna parte. A volte mi chiedo Martina e tutti quelli come lei, quelli nel limbo che confina con DSA e DVA, dove devono stare. In un gruppo ristretto di martine, con un insegnante che le segue sino allo sfinimento, non sarebbe più proficuo?

cosa c’è da sapere

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Qualcuno in riunione ha appena proposto, come attività legata alla Pasqua, di preparare dei biscotti. Ho dato il mio assenso a un’iniziativa così sorprendente senza pensarci due volte, con uno slancio e un fervore smisurato. Vedermi in classe con il grembiule e il cucchiaio di legno in mano ed esprimere il mio consenso è stato un tutt’uno. Il fatto è che sono talmente provato e disilluso dalle astrazioni che solo l’idea di costruire un manufatto concreto qualsiasi (e senza una stampante 3D) mi manda in estasi, non importa il materiale di cui è composto e senza contare che l’idea in sé di farlo è, a sua volta, un’astrazione. Il problema è che ho la netta sensazione che qualcuno stia espropriando parti di superficie dell’interno della mia testa per annetterle a un progetto la cui visibilità mi è interdetta da muri altissimi – anche questa è un’astrazione, spero mi stiate seguendo – al di là dei quali non mi è possibile scrutare. Ne consegue che lo spazio e le risorse dedicate alla comprensione delle cose si sta riducendo sempre più velocemente. In parole povere, ho la netta sensazione di non capire mai un cazzo. Di conseguenza mi butto sul fare, visto che mi si sta precludendo il pensare.

Ho immaginato (attività che invece si avvicina molto di più ai nostri rendering, passatemi il termine, e quindi non va a occupare, una volta terminata, ulteriore spazio in memoria, quella del cervello, intendo) i miei bambini con le mani in pasta – è proprio il caso di dirlo – con farina e zucchero e gusci di uova che si versano ovunque in classe, per la gioia dei collaboratori scolastici che si innervosiscono anche dei nomi scritti a matita sul banco, ma il tutto è stato mitigato dal pensiero del risultato. Una teglia interamente popolata da biscotti dalle forme più assurde – so già che Cecilia li farà come unicorni, mentre Denis chiederà di colorarli come la maglia del Milan, e dovrò dirgli che non si può – pronti per essere infornati nella cucina della mensa dal cuoco Matteo.

In riunione si dice anche che, a quelle temperature, i virus cuociono insieme al resto e che quindi, tra le attività manuali sconsigliate, mettere in pratica una ricetta non è poi così più rischioso di altri momenti in cui è inevitabile lo scambio di materiali. Poi a me cucinare piace, e molto di più che ricoprire quei cazzo di rametti con i fiori realizzati con la carta crespa e appiccicati con il vinavil. Ma c’è di più. Gli esseri umani di sesso maschile hanno spodestato le donne anche dai fornelli (avrei voluto ricordare alle colleghe che oggi gli uomini vogliono fare anche le donne e spiegare alle donne come si fa a essere donne) e io, che ho l’aggravante di essere un essere umano di sesso maschile e in età avanzata, non mi sono certo tirato indietro e anzi voglio che la mia classe faccia i biscotti più buoni e più belli di quelli delle altre terze.

Cosa c’è da sapere per fare dei biscotti buoni? Non lo so. Non ne ho mai preparati ma sono convinto che, su uno dei miliardi di blog di ricette con video annessi che si trovano in rete, troverò quello che mi serve. Il punto è che la didattica laboratoriale è la formula vincente. La prova è che la pratica e tutto ciò che credo possa essere ricondotto alla memoria muscolare resta nel tempo, mentre cose come la filologia romanza, Persio, Rosmini, Fichte e l’Orlando Furioso pian pianino evaporano dal tessuto su cui avevamo appiccicato tutto quello che c’era da studiare per superare gli svariati esami universitari che avrebbero dovuto forgiare il nostro futuro da intellettuali. Mia figlia è alle prese con la scelta della facoltà con cui continuare il suo percorso scolastico e già la vedo sulle orme del padre, a fare lavori – ammesso che si trovino – in cui ciò che abbiamo studiato non conta un fico secco. Tanto il sapere è tutto qui dentro, tutto condiviso, tutto pronto all’uso, e l’unica competenza di cui abbiamo bisogno è saper cercare. Per il resto, è meglio preparare i biscotti.

madrelingua

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Non faccio in tempo a far copiare sul diario l’avviso che venerdì inizierà il corso CLIL, con il docente madrelingua inglese, che in classe si scatena il finimondo, le braccia scattano verso il soffitto a sventolare la mano e ha inizio la pioggia di domande. Come faremo a farci capire? E come riusciremo a capire l’insegnante? Non li biasimo e comprendo appieno lo stato d’animo. Io, come loro, provo una irrazionale paura per le lingue straniere. Il non riuscire a spiegarmi, non comprendere le risposte, non essere in grado di leggere segnaletica, avvisi, cartelli e informazioni perché non scritti in italiano – o al massimo in inglese – mi manda in tilt. Devo comunque rassicurare la classe, sono io l’insegnante e, di conseguenza, sono tenuto a dare l’esempio. Così dico che non è impossibile dialogare di persona con qualcuno con cui non si condivide la stessa lingua. Ci si può aiutare con gesti e con le espressioni del viso, per esempio. E poi qualcosina in inglese la conosciamo, anche se siamo solo in terza. E che anche l’insegnante sa di essere inglese e sa che voi siete italiani, e quindi farà di tutto per farsi capire. Ometto una considerazione, e cioè che poche cose sono inutili come l’insegnamento dell’inglese alla scuola primaria fatto da docenti come me, italiani peraltro non specializzati in qualche modo nella materia. Io sono dell’idea che le lingue dovrebbero insegnarle i madrelingua, musica i musicisti, scienze gli scienziati e così via. Io ho i titoli per insegnare le materie dell’area umanistica, e mi accontenterei di questo, peccato che alla primaria non funzioni così. La mia teoria è confermata dall’ingresso dell’insegnante. Una cassa in un trolley con “Around the world” dei Daft Punk a palla. Un mappamondo gonfiabile da lanciare ai bambini come si fa con i palloni sulla folla dei concerti, avete presente? E poi una lezione impostata unicamente sul gioco. D’altronde sono bambini e, anche se l’insegnante ha usato molti termini che probabilmente nessuno aveva mai sentito, si è fatta perfettamente capire. Il risultato? Ora ho un po’ meno paura delle lingue straniere anch’io.

pnnr

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Poche cose sono resilienti come i bambini. Gli dai un brutto voto, gli metti una nota perché hanno fatto volare un aereo di carta in corridoio quando tu gli avevi detto che non era possibile e loro dopo qualche minuto ti si rivolgono come se fossi la persona più importante del mondo malgrado tu gli abbia fatto trascorrere dei momenti di vera paura. Il giorno successivo addirittura si sono già dimenticati di tutto e ci ridono sopra. Quando pensate ai vostri piani di comunicazione per la rinascita nazionale e vi riempite la bocca con la resilienza degli adulti delle imprese e dei cittadini pensate a come reagiscono i vostri figli alle intemperie della vita. Potreste imparare qualcosa.

cuore

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Anna mi ha chiesto perché prepariamo un’attività per carnevale mentre, per San Valentino, la scuola non preveda nulla. Se pensa che avere un maestro uomo comporti rinunciare a tutte quelle romanticherie a tema si sbaglia di grosso. Avevo in serbo un cuore costruito con la tecnica dell’origami e un altro che si componeva di poligoni da abbinare secondo il risultato ottenuto da facili operazioni scritte sui lati ma poi ha prevalso la coerenza forzata perché non ho fatto in tempo a preparare il materiale e poi manca il toner della stampante da prima di Natale. Poco male. Ho celebrato il santo patrono degli innamorati non più di un paio di volte in vita mia ma non per questo mi sento una persona cinica. Avrò avuto non più di vent’anni e stavo con una persona molto esigente, sotto questo profilo. Il che era un problema perché non avevo il becco di un quattrino – come tutti gli studenti universitari che frequentavo – e mi toccava scucire una mancetta rinforzata ai miei che però non era mai abbastanza quando si trattava di sorprenderla con qualche regalo. Di riffa o di raffa però me la sono sempre cavata e, se ci siamo lasciati, non è certo perché non avevo onorato una di queste trovate imposte dal mercato, piuttosto c’entravano un batterista fan di Sting – oltreché delle fidanzate degli altri – e le forze armate che proprio non potevano fare a meno di me, a differenza sua. Che poi, se fosse per me, io regalerei soltanto libri e dischi ma mia moglie gestisce una biblioteca e gran parte di casa mia è occupata da una voluminosa collezione di 33 giri. Così ci facciamo trovare pronti con i pensieri che bastano a ironizzare sulle ricorrenze e, quando notiamo qualcosa che ci piace, mettiamo mano alla carta di credito che attinge dal conto corrente in comune. Così, se qualcuno dei due trova uno scontrino, non c’è il rischio di alimentare sospetti reciproci.

ciclisti

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Facendo due calcoli, se la carriera di un insegnante di scuola primaria è lunga in media quarant’anni, si porteranno a compimento circa otto cicli di alunni. Io costituisco un caso a sé perché ho cominciato a un’età in cui normalmente si tirano i remi in barca, si intravede l’approdo, si pensa a cosa fare della liquidazione e cose così. Nonostante questo mi trovo alla perfetta metà del primo e, confidando di non dover fronteggiare tempeste in dirittura d’arrivo, potrei limitarmi a un massimo di tre barra quattro. Converrete con me che non c’è niente di più odioso per gli esseri umani di pensare alla vita come a una torta da dividere in fette, ciascuna corrispondente a una parte del tempo complessivo che si ripresenta a ogni giro. Nel mio settore possiamo considerare tre terzi. Il primo lo si affronta con l’approccio di chi intende lasciare il segno e ribaltare la pedagogia tradizionale, il secondo si fanno compromessi con l’establishment e il personale di segreteria, il terzo ci si compra un camper e si gira l’Europa dal primo di luglio a trentuno di agosto e il resto dell’anno lo si passa ad organizzare quelle vacanze. Ci pensavo poc’anzi preparando un giochino utile alla comprensione delle frazioni, senza dubbio l’argomento più divertente della matematica alla primaria, ma mi è bastato scriverlo qui e tentare un collegamento a qualcosa di più introspettivo da mandarmi in confusione. Si parla di tavolette di cioccolato, pizze da mangiare in compagnia e vari interi da dividere per poi introdurre finalmente l’euro e educare i propri studenti al sano principio del potere d’acquisto. Il fatto è che funziona proprio così: la vita è un intero da dividere in parti a seconda del denominatore. L’intero resta costante e il numero sotto varia a seconda se ci riferiamo a secondi, minuti, ore, parti della giornata, settimane, mesi, stagioni, anni, bienni, trienni, quadrienni, lustri, settennati come il presidente della repubblica, decenni, ventenni, posti di lavoro presi e abbandonati, nuclei famigliari, case in affitto e acquistate, città, periodi contraddistinti da un genere musicale preferito, cose che si fanno in genere, sport praticati, per non dire di peggio. Si dice spesso “un vita fa”, corretto? Ma per fare della filosofia da tanto al mucchio, la vita è una, i cicli variano a seconda della sua lunghezza, le frazioni sono un concetto delicato, la ricorsività è pericolosa perché brucia le tappe intermedie. Conta solo un inizio e una fine, una partenza e un arrivo, un ultimo giorno di scuola e un primo dopo le vacanze, quando sappiamo tutti che non è affatto così.

stem

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L’ora di scienze è un vero incubo. Trovo insegnare scienze superfluo e inutile e, paradossalmente, non solo è la cosa più importante che c’è al mondo e grazie alla quale, per dire, studiandola si possono fare cosucce come debellare una pandemia, ma è anche quella tra tutte che interessa di più i bambini. Molto di più della matematica e delle sue astrazioni che poi, voglio dire, che ce ne facciamo nella vita delle proprietà delle quattro operazioni? Molto più di inglese e di questo sistema per cui si scrive in un modo e si legge in un altro, senza contare che i bambini non sono nemmeno più interessati alla lingua delle canzonette, al massimo a scovare le parolacce nei testi. Più di arte che, a dirla tutta, non è facile trovare qualcosa che le mamme più organizzate, con gli svariati siti dedicati all’educazione parentale, non abbiano ancora proposto ai loro figli per trascorrere un pomeriggio in santa pace. Più di musica e del gap che passa tra quello che si fa ascoltare a scuola e quello che ascoltano i ragazzi d’oggi. A ogni lezione di scienze, non importa l’argomento, i bambini mi assillano di domande su esseri viventi e non viventi, materia e antimateria, terra e sistema solare, chimica fisica astronomia biologia zoologia e tutti quanto fa stem. Anche il ciclo dell’acqua genera una serie di questioni e aneddoti famigliari che non vi sto a raccontare: chicchi di grandine grossi come patate, stagni con i più disparati animali, pentole che bruciano e zii che vivono al Polo Sud. Cerco di glissare sulle domande con cui vengo letteralmente sommerso perché la scienza impone precisione. Ai bambini dico sempre che per saperne di scienze occorre essere uno scienziato e che io non sono uno scienziato. Posso rispondere a qualunque curiosità sui Cure, sui Depeche Mode, al limite sui Genesis. Ma per scienze rispondo sempre di cercare su Google e di non rompere i coglioni. Non proprio così ma il senso è quello.

di cortesia

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Quando ci sono due auto in famiglia perché moglie e marito non possono farne a meno e una delle due è temporaneamente indisponibile bisogna ingegnarsi. Non ho mai capito come si faccia ad avere un’auto di cortesia, per esempio. Ci sono strutture che ti offrono una vettura di riserva mentre la tua è in assistenza. Io sono un negazionista di questo servizio perché a me non è mai stato proposto, nemmeno dalla mia carrozzeria di fiducia, quella in cui a furia di far sistemare la mia vecchia carretta mi chiamano Roby. Ne risulta che a casa stiamo facendo i salti mortali per organizzarci senza dover ricorrere al noleggio di una macchina, una cosa che noi della categoria dei morti di fame non possiamo certo permetterci. E allora il car sharing?, già vi sento chiedere. Il fatto è che qui nell’hinterland, dove sarebbe una manna dal cielo e non solo, potrebbe persino risolvere qualche problema di arterie congestionate, non è pervenuto. Mia moglie ed io, per i rispettivi lavori, ci spostiamo in senso opposto o tangente rispetto alla città metropolitana. Potremmo utilizzare il trasporto pubblico ma significherebbe prendere un mezzo per arrivare in centro e poi prenderne un secondo per arrivare a destinazione, tornando in periferia. Ci ho provato ieri. Per percorrere 18 km – in macchina ci metto un quarto d’ora, vado in senso inverso rispetto al traffico che raggiunge Milano – ho impiegato quasi un’ora e mezza cambiando quattro diversi vettori: un autobus da casa mia al capolinea della M3, la metro gialla fino allo scambio con la metro rossa, la M1 fino a Molino Dorino e, infine, un secondo autobus verso la mia scuola. L’ultimo tratto, due minuti dalla fermata all’ingresso, l’ho percorso a piedi. Ho incontrato la mamma di Anna che aveva appena lasciato la mia alunna a scuola. Le ho raccontato il motivo per cui mi trovassi lì e, tutta preoccupata, si è immediatamente offerta di prestarmi l’auto nuova che hanno appena preso per la sorella più grande di Anna che ha appena conseguito la maggiore età. Ovviamente ho rifiutato, ma lei ha insistito con una cortesia che mi ha letteralmente commosso. La mamma che offre la propria auto in prestito al maestro della figlia per evitargli la complessità di un viaggio da casa a scuola. Cose d’altri tempi.

sentirsi giù

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La percentuale di colleghi provenienti dal sud è molto elevata anche nella mia scuola. Posso intuire il motivo di questo fenomeno ma, se devo dirla tutta, le argomentazioni che sento in giro a supporto della teoria dominante non mi hanno mai convinto completamente. Anche la mia dirigente è di origine meridionale ma, nonostante ciò, ha messo un freno sulla pessima abitudine di anticipare le festività natalizie per prolungare il più possibile il ricongiungimento con i parenti al paese di provenienza. Nessuno può prendere ferie o permessi prima dell’ultima campanella, quella dopo la quale i bambini si precipitano tra le braccia dei genitori per consegnare con orgoglio il lavoretto di natale incellofanato e correre a giocare con gli amichetti, dimenticandosi immediatamente del lavoretto incellofanato.

Noi quest’anno abbiamo proposto un’attività complicatissima che, se non fosse per l’impegno della mia collega di sostegno che si è accollata il gravoso onere di coordinare il lavoro con i bambini, mi avrebbe condannato a una vergognosa débâcle. L’ha proposta una collega di quelle che hanno fatto la gavetta negli oratori estivi e che ostenta un approccio da caserma che le invidio tantissimo in quanto molto più efficace del mio, che invece è da centro sociale occupato.

Il lavoretto – che poi solo il termine lavoretto mi fa accapponare la pelle – consiste in un palloncino intorno al quale i bambini hanno arrotolato un lungo filo di lana imbevuto nel vinavil. Una volta asciugato e scoppiato il palloncino, il risultato sarebbe dovuto consistere in una pallina di natale da abbellire, in ultima fase, con un fiocco e il biglietto realizzato con la collega di religione. Questa l’expectation, anni luce dalla reality. A parte come si sono ridotti i bambini durante la realizzazione, con la colla fin sopra i capelli, e come hanno conciato l’aula, per la gioia delle collaboratrici (del sud in percentuale simile a quella di noi docenti), l’obiettivo è stato parzialmente raggiunto solo grazie alla manualità della mia collega di sostegno. Lei ha tutta la famiglia sparsa tra Italia ed Europa e ha trascorso lo scorso pranzo di natale da sola nella casa in cui abita alla periferia di Milano, in videoconferenza con i genitori e fratelli a causa del Covid.

Ma questo è niente in confronto alla sua omologa – e altrettanto precaria – che era in classe da me lo scorso anno. Accettata la nomina si era trasferita ma, non trovando una sistemazione, aveva vissuto i primi due mesi in un albergo dell’hinterland. Separata e con una figlia a casa coi nonni, ricordo che per le feste non le era stato possibile rientrare in tempo.

Ho pensato a lei e a tutti i casi come il suo vedendo il nuovo spot della Conad. Una bambina intraprendente nota il suo maestro al supermercato che paga in cassa un panettone monoporzione. Subito mobilita il resto della scolaresca per imbandire un pranzo coi fiocchi e poi, il 25, si presentano tutti quanti a casa del docente per festeggiare insieme. Mi piace quando si vuole trasmettere il fatto che, quello dell’insegnante, può essere anche un lavoro maschile.

Però, se fosse per me, questa volta avrei sottolineato la solitudine dei docenti solitari e lontani da casa con una maestra, anziché un maestro. Perché agli uomini, tutto sommato, arrangiarsi da soli è utile e fa anche bene. Per le donne invece è un po’ un peccato, non certo perché non sono in grado di essere indipendenti (anzi, sicuramente una maestra si sarebbe inventata qualcosa di più creativo dei tortellini in brodo, premesso che adoro i tortellini in brodo) ma perché da sempre, in questa diaspora dovuta al peccato originale dei mestieri della scuola che va così e nessuno si impegna a cambiare, sono loro ad aver sempre pagato di più. Sarebbe giusto cominciare a restituire loro qualcosa.