una storia nota

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PROLOGO

Non ho mai capito che cosa abbiano in comune l’interruzione di energia elettrica per un blackout e l’antifurto delle villette ubicate nella via dietro casa mia. Se è fatto apposta, se gli antifurto devono suonare quando manca la corrente, non mi sembra una buona intuizione e nemmeno una best practice di ingegneria. Perché sono stati programmati per dare l’allarme quando si spegne tutto? I ladri, quando si introducono nelle abitazioni altrui, come prima cosa staccano il contatore? Mi sembra una pensata piuttosto ingenua.

Eppure vi assicuro che è proprio così: manca la luce e si propaga un’intera orchestra di sirene proprio come quando i cani, chiusi nei giardini delle stesse villette, abbaiano con effetto a cascata, quando passa qualcuno con un loro simile al guinzaglio e si avvisano reciprocamente del pericolo a partire dal primo, il più piccoletto, il più cagacazzi che abita proprio sotto la finestra della cameretta di mia figlia, uno di quei cani di taglia infima, isterico e dal timbro acutissimo e nervoso che si fa sentire senza interruzione di continuità, fino all’ultimo, il più grosso di tutti, in fondo alla via.

Non sono l’unico a pensare che si tratti di un errore insito in qualche sottomarca di antifurto. Una svista di chi li ha programmati, una riga di codice con un bug che il sistema interpreta come IF manca l’alimentazione elettrica AND si attiva il gruppo di continuità THEN fai casino. L’inefficacia dei sistemi di allarme di questo tipo è sotto gli occhi di tutti, per non dire sotto le orecchie di tutti. L’aggravante è che possono attivarsi in piena notte mentre il proprietario si trova in vacanza dall’altra parte del mondo. L’estate è torrida, tutti sparano i condizionatori al massimo, l’offerta di energia non è sufficiente a soddisfare la domanda e la rete di distribuzione collassa. Ai tempi del global warming questa ormai è la prassi e dobbiamo farcene una ragione. Si blocca tutto, si spegne tutto, e si avviano le sirene degli antifurto delle villette, una dopo l’altra.

In piena notte, ma forse l’ho già detto. I proprietari delle villette sono dall’altra parte del mondo, anche questo l’ho già detto, e non possono correre a porre rimedio utile alla situazione. Io mi aspettavo addirittura che suona l’antifurto e pochi secondi dopo arriva una pattuglia della Polizia, ma forse vedo troppe pubblicità della Verisure. Invece le sirene vanno avanti indisturbate quanto i ladri per quasi un’ora. Finiscono il loro ciclo, si interrompono qualche minuto, giusto il tempo di riaddormentarmi, e poi ricominciano con la stessa sfrontatezza.

Poi la luce torna, perché nel frattempo ci siamo svegliati tutti e il black-out ci ha fatto preoccupare per le scorte accalcate nel freezer e il modo in cui cucinarle tutte, prima che si deteriorino, prima che siano da buttare, un tarlo che toglie il sonno anche ai più ottimisti. Invece la luce torna, dicevo, ma dopo un po’ salta di nuovo e così riprende anche la sinfonia.
A dire la verità non so come vada a finire, e cioè se mi riaddormento prima che le sirene tacciano definitivamente, preso per sfinimento dall’assuefazione a quel frastuono continuo, un po’ come quando dividi il letto con qualcuno che russa, oppure se prima ritorna il silenzio perché nel frattempo sono rientrati i proprietari dall’altra parte del mondo o è arrivata la Polizia o è tornata la corrente per non saltare più e quindi, ripristinato il silenzio, ripiombo nel sonno.

Il mattino seguente, al risveglio, resta una vaga eco delle sirene dei sistemi di allarme nello sguardo sconvolto dei sopravvissuti a una notte d’inferno, tra i trenta gradi e l’inquinamento acustico fuori da ogni immaginazione. Tra familiari ci si chiede se l’abbiamo sentito, se ci ha svegliati, se poi siamo riusciti a riprendere sonno. Fuori, l’innaturale silenzio della notte, interrotto solo dalle sirene, ha lasciato il posto al consueto bordone di operosità tipico della periferia milanese. I carpentieri del bonus 110 che si danno ordini in arabo dai piani dei ponteggi, le macchine tagliaerba impiegate come ammortizzatore sociale, gli adolescenti sui motorini perché la scuola è finita, gli anziani che gli sacramentano dietro in dialetto.
Questo è quello che succede generalmente. Stanotte, però, dev’essere andata in modo diverso perché già da stamattina, mescolato ai rumori di una tipica alba di periferia, si percepiva qualcosa di più. Qualcosa di anomalo.

QUALCOSA DI ANOMALO

Ma facciamo un passo indietro. Intanto ieri, tra le tracce dei temi dell’esame di stato, è stata somministrata come proposta l’analisi di un testo tratto da “Musicofilia” di Oliver Sacks. Per vostra comodità riporto il brano oggetto della prova qui di seguito:

«È proprio strano vedere un’intera specie – miliardi di persone – ascoltare combinazioni di note prive di significato e giocare con esse: miliardi di persone che dedicano buona parte del loro tempo a quella che chiamano «musica», lasciando che essa occupi completamente i loro pensieri. Questo, se non altro, era un aspetto degli esseri umani che sconcertava i Superni, gli alieni dall’intelletto superiore descritti da Arthur C. Clarke nel romanzo Le guide del tramonto. Spinti dalla curiosità, essi scendono sulla Terra per assistere a un concerto, ascoltano educatamente e alla fine si congratulano con il compositore per la sua «grande creatività» – sebbene per loro l’intera faccenda rimanga incomprensibile. Questi alieni non riescono a concepire che cosa accada negli esseri umani quando fanno o ascoltano musica, perché in loro non accade proprio nulla: in quanto specie, sono creature senza musica. Possiamo immaginare i Superni, risaliti sulle loro astronavi, ancora intenti a riflettere: dovrebbero ammettere che, in un modo o nell’altro, questa cosa chiamata «musica» ha una sua efficacia sugli esseri umani ed è fondamentale nella loro vita. Eppure la musica non ha concetti, non formula proposizioni; manca di immagini e di simboli, ossia della materia stessa del linguaggio. Non ha alcun potere di rappresentazione. Né ha alcuna relazione necessaria con il mondo reale. Esistono rari esseri umani che, come i Superni, forse mancano dell’apparato neurale per apprezzare suoni o melodie. D’altra parte, sulla quasi totalità di noi, la musica esercita un enorme potere, indipendentemente dal fatto che la cerchiamo o meno, o che riteniamo di essere particolarmente «musicali». Una tale inclinazione per la musica – questa «musicofilia» – traspare già nella prima infanzia, è palese e fondamentale in tutte le culture e probabilmente risale agli albori della nostra specie. Può essere sviluppata o plasmata dalla cultura in cui viviamo, dalle circostanze della vita o dai particolari talenti e punti deboli che ci caratterizzano come individui; ciò non di meno, è così profondamente radicata nella nostra natura che siamo tentati di considerarla innata […].»

Mi è venuto spontaneo quindi il mash-up tra questo spunto, che, se mi fossi trovato tra i candidati, avrei approcciato sulla carta senza indugi (anche se l’analisi della poesia di Pascoli <3), e il discorsetto che, sempre ieri – che giornata intensa! – mi stavo preparando per il prossimo collegio docenti, quello a conclusione dell’anno scolastico, quello in cui dovrò relazionare circa il progetto di musica che abbiamo portato a termine noi delle terze la scorsa primavera con un esperto esterno.

In poche parole, vorrei introdurre il mio intervento riportando una considerazione espressa dal mio collega insegnante di musica della secondaria in occasione del saggio delle classi di fine anno a cui ho assistito per intero (21 classi, due o tre o quattro brani a classe eseguiti con metallofoni e flauti dolci e qualche guizzo come basso elettrico, chitarra e tastiere) perché mi è stato richiesto di fare le riprese video.

Il prof di musica ha elogiato le sue classi, mettendo però in guardia gli spettatori (non più dei due genitori per alunno, fratellini e sorelline ammessi in via eccezionale come extra) sul fatto che quanto avrebbero assistito era frutto di un programma svolto lungo non più di due ore la settimana, a cui si deve aggiungere il Covid – anche se le lezioni quest’anno si sono svolte sempre in presenza, i casi di classi dimezzate e le assenze prolungate sono stati tantissimi – e che, parole sue, i ragazzi arrivano dalla primaria senza aver fatto nulla di musica. Che botta.

CHE BOTTA

A caldo, questa considerazione mi ha offeso moltissimo. Io, che ho un passato da musicista anche se non certificato (e questa parentesi che ho aperto e in cui sto scrivendo è dedicata proprio al fatto che in Italia l’unico canale accademico per formare esperti di musica è il conservatorio o poco più), dicevo che io che posso vantare un background di tutto rispetto da musicista, cerco di rifilare la musica ai miei studenti in tutti i modi collegandola a tutte le materie che insegno a partire dalla matematica (tempo/ritmo e numeri e frazioni), dall’inglese (qualsiasi esempio sarebbe superfluo), da scienze (i sensi), dalla tecnologie e la cultura digitale (suonare con i VST e le drum machine e gli innumerevoli sistemi per produrre musica al computer), dall’arte (immagini e musica, quadri e canzoni, ci si potrebbe fare una disciplina a sé), per non parlare dell’ora di musica in cui, a causa del Covid, non si possono maneggiare strumenti, però ascoltiamo e discutiamo a manetta.

Il punto è proprio questo, e ci sono arrivato successivamente, a freddo. Insegnare musica significa principalmente insegnare a suonare. E se i bambini escono dalla quinta primaria sapendo più o meno esprimersi in italiano, più o meno scrivere, più o meno far di conto, più o meno biascicare qualcosa in inglese, la stessa cosa non si può dire per saper suonare uno strumento. E per fortuna che il flauto dolce è considerato superato (anche se non ancora del tutto sconfitto, malgrado siamo nel 2022) ma, anche se non fosse, l’ultima cosa che farei è trasmettere a delle persone l’idea che la musica è quella roba sgradevole, incerta e priva di senso che esce soffiando dentro e mettendo le dita a cazzo su un tubo di legno. Se ne deduce che il mio collega prof di musica tutti i torti non li ha: i ragazzi arrivano dalla primaria senza aver fatto nulla di musica.

I RAGAZZI ARRIVANO DALLA PRIMARIA SENZA AVER FATTO NULLA DI MUSICA
La cosa non ci deve stupire, e l’abbiamo già detto altre volte e perdonate se mi ripeto: chi continua dopo la secondaria di primo grado studierà musica solo al coreutico o forse al liceo che ha preso il posto delle vecchie magistrali, ma non ne sono sicuro. Questo significa che quasi tutti studiano storia delle arti visive, la poesia nella letteratura italiana, mentre la musica sparisce dai programmi. Forse è un’arte di serie B. Però cosa hanno in meno Vivaldi, Puccini, Rossini, Monteverdi e lo stesso Morricone (e mi limito ai compositori italiani, perché se tirassi in ballo Beethoven o Mozart o Bach ciaone proprio) rispetto a Dante, Petrarca, Caravaggio o Michelangelo? Lascio a voi la risposta.

LASCIO A VOI LA RISPOSTA
Tutto questo per dire che il progetto di musica con l’esperto – un tipo davvero in gamba che abbiamo trovato in un modo a dir poco rocambolesco e che ha mescolato musica, danza, teatro e giocolerie facendo letteralmente impazzire i bambini, un vero e proprio personaggio come immaginiamo siano gli artisti di strada, un po’ bohémien, per farmi capire – è andato benissimo e che speriamo che l’anno prossimo possa continuare, magari con lo stesso insegnante perché si sa, per candidarsi ai progetti nelle scuole ci sono i bandi a cui si iscrivono cani e porci e bisogna sempre sperare di essere fortunati perché avere a che fare con gli scarti delle altre professioni è all’ordine del giorno.

Ricapitolando: il discorsetto per il collegio docenti, la traccia sulla musicofilia all’esame di stato, i continui allarmi degli antifurto delle villette che hanno funestato il sonno la scorsa notte. Una combo di eventi che ha generato una conseguenza a dir poco sorprendente.

STAMATTINA SI SONO MANIFESTATI GLI ALIENI

Stamattina si sono manifestati gli alieni, qui da noi, ma ho letto e ho sentito al telegiornale che anche da voi non è andata diversamente. Si sono manifestati in un modo a cui nessuno avrebbe mai pensato e che risulta un po’ essere la summa di tutte le cose che dicevo prima, insieme a un aspetto che sembra tratto da quel celebre film di fantascienza in cui, per parlare con gli extraterrestri, la sceneggiatura prevedeva che gli uomini utilizzassero un sintetizzatore, alla faccia dei chitarristi.

Stamattina, al nostro risveglio, si sono manifestati gli alieni in forma di suono, ma vi giuro che non è colpa mia, non li ho chiamati, è solo che è facile ricondurre questa apparizione (per modo di dire, come vedrete, anzi, come sentite) alla giornata intensa di ieri e alla notte che è seguita.

Gli alieni si sono manifestati nella forma di una nota continua, un si bemolle. Una -fania (mettete voi al posto del trattino la matrice che preferite) a cui nessuno ha dato peso, appena il si bemolle si è diffuso nel chiarore e nel brusio della mattina. Eccoci, ancora un sistema di allarme che suona, ho pensato io, ma scommetto di non esser stato l’unico. Il suono poi è continuato, nessuno si è precipitato a spegnerlo, la Polizia non sapeva dove andare perché il si bemolle continuo si percepisce ovunque e, soprattutto, al momento non si capisce da dove provenga, quale sia la fonte, tanto è omogeneo in ogni angolo del pianeta. Ora chiudiamo gli occhi insieme, concentriamoci sul suono alieno, sul si bemolle, e pensiamo a cosa possiamo fare. Ma non finisce qui.

senza rete

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Mia figlia sta per sostenere la maturità. A pranzo parlavamo del senso di sottoporsi a prove in cui si scrive a penna su un foglio e con il divieto di usare Internet. Così, per dimostrarle l’utilità di tutto questo, le ho fatto l’elenco delle professioni ma anche delle situazioni nella vita di tutti i giorni in cui si scrive a penna su carta e non si usa la rete, e che riporto qui di seguito nello stesso ordine in cui mi sono venute in mente:

 

 

 

 

Vero? E voi, prima di commentare, leggete bene:

  • non ho scritto che non si debba insegnare più a scrivere a penna su carta perché, comunque, resta la nostra più personale, intima e immediata arma comunicativa, ci sono gli studi neuropsichiatrici che ne sanciscono il primato e non ho alcun dubbio sul fatto che, scrivere a penna su carta, ci costringa a organizzare ciò che sappiamo in un modo che non ha eguali (la cui utilità, comunque, è sicuramente sacrosanta nel mondo come lo abbiamo conosciuto trent’anni fa e che, siccome è stato perfetto per noi, giochiamo a credere che è ancora tale e quale oggi. Ma, quanto servirà tra cinquant’anni, quando sarà quasi un secolo in cui utilizziamo Internet e un dispositivo per fare qualunque cosa, è tutto da vedere e non ho detto che sia meglio o peggio, sia chiaro);
  • non ho scritto che non bisogna più constatare e valutare le competenze e e le conoscenze dei nostri ragazzi tramite un esame finale al termine di un ciclo di studi. Per verificare se un alunno ha studiato e sa quello che gli abbiamo insegnato resta comunque la possibilità di sottoporlo a un esame orale in cui posso assistere alla soluzione di un calcolo in tempo reale, una traduzione di latino per accertarmi se conosce i meccanismi della grammatica, e mille altri casi specifici per ogni disciplina che si insegna a scuola.

Mi chiedo il senso di una prova scritta a mano su carta e svolta con il divieto di usare Internet, che secondo me è come dire continuiamo a lavorare, leggere e fare le nostre cose solo con la luce del giorno perché c’è il divieto di usare la luce elettrica, oppure scaldiamo il pranzo di ieri con il calore del nostro corpo perché c’è il divieto di accendere i fornelli. Internet è una commodity come l’energia elettrica o il gas o la benzina o qualunque cosa oggi diamo per scontato per fare qualunque cosa. Perché devo sforzarmi a pensare a portare a termine un lavoro, una prova o una qualunque attività facendone a meno, se non per scrivere su Facebook che sono un luddista o che vivo con gli elfi solo come un cane nei boschi dell’Appennino?

Dico solo, e qui lo ribadisco: perché non ci si sforza per pensare a una prova scritta che, per essere portata a termine nel migliore dei modi, renda necessaria la capacità di cercare e trovare le informazioni giuste in Internet, la loro rielaborazione tramite le competenze e le conoscenze degli alunni, il loro confezionamento magari sullo strumento o sulla piattaforma online o offline più adeguata? Il divieto di usare Internet a scuola mette ancora al centro l’antitesi tra scuola e Internet, tra adeguatezza della didattica e vita e società contemporanee, tra giovani e mondo che dovranno abitare, tra teoria e pratica.

 

l’ultimo giorno degli ultimi giorni

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Pensate un po’ se anche il vostro lavoro, a un certo punto, si interrompesse per poi riprendere a settembre. E non è la solita questione dei tre mesi di ferie degli insegnanti, perché semmai i mesi senza lezioni in classe sono due, e in questi due – al netto del sistemare le cose dell’anno scolastico appena terminato a giugno e di preparare quelle del successivo a settembre – poi, a veder bene, ci sono una quarantina di giorni puliti di vacanza.

Pensate, che ne so, se fate i muratori e periodicamente, ogni anno, vi si chiede di non salire più sui ponteggi per un po’ ma di dedicarvi alla manutenzione del vostro equipaggiamento. Oppure fate i tassisti e poi vi impediscono per qualche mese di mettervi in strada per seguire un corso di aggiornamento sullo stress da traffico in città. Ne so una ancora migliore: avete un negozio e vi si chiede di chiuderlo per mettere ordine alle vostre scartoffie e vi si tiene alla larga dal vostro core business per occuparvi forzatamente di cose di cui non vi importa, vi annoiano, o addirittura non siete capaci a fare perché – che so – siete ottimi panificatori ma se dovete pianificare una campagna marketing delle baguette non sapete da dove iniziare e vi tocca improvvisare.

Gli insegnanti lavorano per nove mesi con le persone, in particolare con una categoria di persone ben precisa e che sta a cuore a tutti voi, fino a quando l’interruttore si spegne e ti ritrovi a vagare per le aule vuote con un caldo porco in bermuda a occuparti di una serie di questioni collaterali che, con la didattica sul campo, c’entrano poco. Dal punto di vista emotivo, essere privati della controparte con cui si esercita una professione – le costruzioni i muratori, le Toyota Corolla station wagon bianche i tassisti, le michette i panettieri, gli alunni i docenti – provoca un contraccolpo mica da poco. Certo, il mondo è pieno di aridi che, ancora con l’eco dell’ultima campanella nelle orecchie, salgono sul primo intercity (prenotato a carnevale) per raggiungere il paesello sul mare senza porsi alcun problema. Voglio dire, la scuola è finita da nemmeno quattro ore e già sono qui al PC a scrivere parole intrise di malinconia mosse dalla realtà dei fatti e cioè che, a dirla tutta, i ragazzi senza la scuola stanno benone. Meglio che in classe con me.

Oggi all’uscita non c’era per nulla l’atmosfera da ultimo giorno, se non per le quinte a cui è stato riservato un cancello dedicato tutto pieno di palloncini e festoni. Nella mia classe l’idillio è stato guastato poche settimane fa da qualche genitore che si è lamentato in modo piuttosto acceso per l’ostinazione con cui facciamo osservare il regolamento anti-Covid in ambiente scolastico. In previsione di un’uscita didattica organizzata a fine maggio, comprensiva dello spostamento a piedi dalla scuola al parco avventura di destinazione, ci è stato chiesto di permettere ai bambini di toglierla. La mia collega ed io ci siamo opposti, naturalmente, visto il regolamento imposto dal ministero e dall’ATS locale (e di conseguenza dalla nostra dirigente).

Un manipolo di genitori esagitati – qualche giorno prima della gita – mi ha espresso le proprie rimostranze cogliendomi di sorpresa all’uscita e, non riuscendo a trasmettere in modo esaustivo l’opportunità delle mie ragioni, mi sono lasciato tentare da un linguaggio piuttosto colorito – c’era qualche bambino che giocherellava nelle vicinanze – trattenendomi però – almeno questa ricercatezza spero sia stata apprezzata – dal bestemmiare. Per farla breve, i rapporti non sono più collaborativi come un tempo. Con un’aggravante: la mattina della foto di classe non ero in servizio e avevo programmato un appuntamento inderogabile. La collega ha ritenuto giusto esimersi dal posare con gli alunni, trovandosi senza di me. Nella foto, quindi, i bambini sono abbandonati a se stessi. Ho quindi l’impressione che questo sciopero dei buoni sentimenti sia stato interpretato come una presa di posizione contro le famiglie e il rispetto dei loro ricordi che verranno. Oggi, smistati i miei bambini ai rispettivi genitori, c’è stato qualche vago e generico augurio di buona estate e nulla di più. Peccato, ci tenevo ad avere un sostanzioso regalo di fine anno, magari un buono Amazon da spendere in dischi.

In più quest’anno ha avuto il suo peso il fatto che è stato l’ultimo giorno di scuola anche per mia figlia, nel senso dell’ultimo giorno degli ultimi giorni, quindi il mio da docente è sceso di priorità. D’ora in poi, basta scuola se non per gli imminenti esami di maturità e quello che succederà dopo, che non conosco ancora e non sa nemmeno lei. Nella vita delle persone – diciamo un’ottantina di anni, se va tutto bene – la porzione che trascorriamo con chi ci ha generato è a dir poco marginale, nell’economia di un’esistenza intera. Non dico sia di poca importanza sul resto, ma si tratta veramente di poco tempo. In questo battito di ciglia i nostri figli li accompagniamo il primo giorno di scuola materna e improvvisamente li ritroviamo al rientro dell’ultimo giorno del liceo, dopo che hanno trascorso la notte alla montagnetta di San Siro a spaccarsi di birra e erba per aspettare l’alba della fine di un capitolo infinito, per loro, e troppo breve, per padri e madri. Il vantaggio di aver un blog da vent’anni è che ora potrò cercare tutti i post come questo, scritti l’ultimo giorno di scuola dei precedenti cicli, e scoprire come l’avevo presa allora.

E poi, lunedì scorso, ho partecipato al rinfresco di una collega che va in pensione e che, se la vedete, sembra più giovane di me. Era visibilmente commossa e consapevole del fatto che il prossimo 31 agosto sarà l’ultimissimo giorno degli ultimi giorni di tutti gli ultimi giorni. Poi ho letto il biglietto che le hanno scritto i colleghi più stretti, in cui si parlava di tutte le opportunità che le sarebbero presentate, d’ora in poi. L’ho letto e l’ho trovato solo un modo per riflettere su un giorno ancora più ultimissimo degli ultimissimi di tutti gli ultimi giorni degli ultimi giorni. Ma non credo sia giusto, davvero, vedere sempre le cose così.

un bel posto

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Great Place to Work® è una società di ricerca, tecnologia e consulenza organizzativa che analizza gli ambienti di lavoro raccogliendo e analizzando le opinioni dei collaboratori e la employee experience. Sul loro sito si legge anche che

Attraverso la nostra Survey Platform aiutiamo le aziende a raccogliere le opinioni e i feedback dei propri collaboratori (in modalità anonima e tutelata) rispetto all’ambiente di lavoro e alla cultura aziendale e con attività di consulenza mirata supportiamo le organizzazioni nel percorso di crescita e di trasformazione, fino a riconoscere e premiare le migliori organizzazioni per cui lavorare in Italia, Europa e nel mondo.

Alcune aziende clienti dell’agenzia di cui facevo parte prima di operare nella scuola si sottoponevano con entusiasmo al processo che, ogni anno, rilascia una classifica degli ambienti di lavoro in cui ci si riesce maggiormente a realizzare con soddisfazione. Si tratta di operazioni di marketing la cui efficacia e veridicità lascio al vostro giudizio. Sta di fatto che nel B2B e in certi network – a partire da LinkedIn – sono riconoscimenti che danno un certo credito e si sfoggiano (giustamente) con il dovuto vanto.

Dico questo perché sarebbe fantastico se la scuola italiana con tutti i suoi operatori – docenti, dirigenti, ATA, personale amministrativo e collaboratori vari – fosse coinvolta in un’indagine di questo tipo. Con il suo milione e rotti di dipendenti la scuola italiana è probabilmente una delle organizzazioni più numerose al mondo. Il risultato è facile da intuire, come le criticità che la contraddistinguono. D’altronde, se da una parte il fatto che non ci siano dei profitti economici misurabili nel breve periodo di mezzo allontana la scuola dal mercato, dall’altra vi sfido a trovare un’organizzazione con altrettante complessità in termini di dimensioni, processi, modelli di (passatemi il termine) business, distribuzione sul territorio, selezione e gestione del personale, esigenze di flessibilità ai cambiamenti sociali e politici, procurement, marketing e comunicazione, questioni legali, logistica, gestione e manutenzione degli asset e facility management, tanto per iniziare.

Proviamo quindi a pensare a come risponderebbe chi ne fa parte: stipendi inadeguati, caos organizzativo, strutture fatiscenti, carriere chiuse, burocrazia ed esposizione a stress lavorativo farebbero precipitare la scuola italiana ben al di sotto dei posti meno prestigiosi (per non dire più umilianti) di questa classifica. E il fatto che la scuola sia un servizio non ci deve per forza indurre a coinvolgerne gli utenti in una valutazione di questo tipo, per attestarne l’autorevolezza. Le famiglie riconducono principalmente ai docenti la responsabilità del cattivo funzionamento del sistema, mentre gli addetti ai lavori – al netto dell’autocritica – vedono le cose in modo più aderente alla realtà.

Qualche giorno fa è stato indetto uno sciopero nel comparto istruzione dalle principali organizzazioni sindacali del settore. Le ragioni di questa giornata di astensioni dal lavoro sono state raccolte in modo esaustivo dalla collega Mariangela Vaglio in un post sul suo profilo Facebook. Se il budget costringe ad aumentare il numero di utenti del servizio per singolo dipendente, è facile intuire quanto sia penalizzata la qualità. Se questo vale per qualsiasi settore produttivo, figuriamoci per la scuola e tutte le sue variabili, visto che parliamo di prestazioni rivolte a esseri umani. E non c’entra nulla il fatto che nella scuola non insegnino i migliori. Anche a fronte di un utopistico aumento consistente di stipendio in grado di attirare talenti, chi entra nella scuola e ha voglia di darsi da fare sa di infilarsi in un ginepraio. Tanto vale adeguarsi a certi standard e tirare a campare.

Io invece vorrei lavorare 40 ore a settimana come tutti, con uno stipendio come tutti. Venticinque ore in classe e il resto in un ufficio messo a disposizione dalla scuola in cui faccio programmazione didattica, mi preparo le lezioni, partecipo a riunioni, incontro studenti e genitori in una scuola aperta 40 ore a settimana, mattina e pomeriggio. Un ufficio che mi permetta di non portarmi in continuazione pezzi di scuola a casa. Con un responsabile IT che non sono io che lo faccio perché smanetto con l’informatica ma che chiamo e mi fornisce assistenza in tempi utili quando ne ho bisogno. Un ufficio personale (con gente che ha studiato per quel mestiere lì) che seleziona i docenti che si sono candidati mandando un curriculum e a cui posso rivolgermi quando occorre. Un sistema che valuta il mio lavoro e che, se sono bravo, mi fa trovare in busta paga i premi produzione. Un dirigente che è un general manager a tutti gli effetti, strapagato come nelle aziende private, che opera per il bene della scuola di cui è a capo.

Comunque, se vi interessa saperlo, pur in accordo con le ragioni di questo sciopero, io non ho aderito. Ad oggi non ho mai scioperato perché credo che in alcuni settori critici – scuola, trasporti, sanità e giustizia – lo sciopero non porti a nulla se non a penalizzare gli utenti e ad aumentare, nel cittadino, il rancore verso le categorie coinvolte. Lo sciopero è efficace nelle aziende private, nelle grandi industrie, nelle fabbriche. Se il tuo datore di lavoro è lo stato, ci sono canali più efficaci per manifestare il dissenso, a partire dalla scheda elettorale.

non è un’opinione

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Mai e poi mai avrei pensato che, un giorno, sarei diventato un insegnante di matematica. Vanto svariate umiliazioni al liceo compensate, però, da un’appagante tesi di laurea sulle Metamorfosi di Ovidio. Il fatto è che alla primaria i nuovi arrivati prendono il primo posto libero – due insegnanti per classe a coprire le due aree disciplinari – e non c’è abbastanza margine per fare gli schizzinosi. L’impressione che mi sono fatto io è che noi della popolazione docente di quest’ordine scolastico ci somigliamo un po’ tutti, un’opinione rafforzata dal fatto che il mio collega responsabile dell’area stem della secondaria del comprensivo in cui insegno, si lamenta un po’ della preparazione in matematica dei ragazzi che arrivano, ogni anno. Non tanto che siano scarsi, piuttosto che siano poco pronti a mettere le competenze acquisite in pratica.

L’indole media dei docenti della primaria forse è più umanistica, e il risultato è che l’intelligenza numerica degli studenti rischia in coerenza con il resto perché stimolata di meno, frutto di una didattica meno appassionata, variegata e divertente rispetto alle lettere proprio perché – e mi ci riconosco – in linea con una vocazione figlia di un dio minore. Il problema sarebbe da prendere alla radice, con lauree magistrali di didattica della matematica ad hoc per la scuola primaria. Posso però immaginare un professionista con un grado di formazione di questo tipo alle prese con le riunioni di programmazione tra colleghi, quando si trascorrono ore a decidere – in venti – se per la verifica parallela di fine quadrimestre è più opportuno dare come operazione 22+9 o 34+7.

C’è un equivoco di fondo, e cioè che contare e riconoscere e usare figure geometriche sia una astratta speculazione e non, invece, una tecnica di sopravvivenza alle insidie del mondo, a partire da non farsi fregare con il resto quando si compra un gelato al bar dello stabilimento balneare o – da grandi – a ordinare una metratura di reticolato adeguata al perimetro del proprio giardino.

C’è poi un ulteriore spunto di riflessione. Il programma di matematica sembra così entry level che io passo il tempo a pormi dei dubbi su cose che faccio automaticamente. Insegnare matematica ai bambini è una rogna, ve lo posso assicurare, ed è per questo che nessuno lo vuole fare, chi lo fa lo fa a cazzo, ed ecco perché, quando crescono, i ragazzi che scelgono la carriera scientifica per passione – e non perché l’unica in grado di attirare l’attenzione delle aziende – sono in netta minoranza. Finché ci saranno insegnanti come me, prestati alla materia da un’organizzazione che non ha ancora preso provvedimenti su come garantire standard di reclutamento del personale adeguati, la scuola italiana sarà così.

Dimenticavo: manco a dirlo, parlo per me. Poche cose mi irritano come non poter spiegare le moltiplicazioni con i numeri decimali non potendo incolonnare i fattori nella corretta posizione come si fa con le altre operazioni. Fosse per me, la virgola starebbe sotto la virgola, la parte intera tutta da una parte, quella decimale dall’altra, centinaia sotto centinaia, decine sotto decine, unità sotto unità, decimi e centesimi idem. Se non altro, anche solo per un principio estetico, per non parlare di ordine e chiarezza.

Un’altra patata bollente è la scelta delle attività da assegnare. L’Internet pullula di blog di insegnanti che condividono schede e lavori di ogni tipo. Il mio consiglio è di controllare tutto, prima che la fretta – la stessa che vi ha fatto preferire una verifica pronta all’uso compilata da uno sconosciuto a una pensata e costruita da voi su misura – non vi metta a rischio di errori che poi, in fase di esecuzione in classe, mandano in vacca la prova.

Mi è capitato qualche giorno fa, con una scheda scelta dalla coordinatrice di interclasse per una prova comune di fine quadrimestre. Un esercizio di confronto tra numeri – il solito maggiore minore e uguale – in cui si chiedeva – tra gli altri – se il confronto 04 = 4 fosse vero o falso. Si è aperto un dibattito tra i sostenitori delle due fazioni. Io ho dato per certo che la risposta corretta fosse vero. Lo zero vale zero e se digito 04 su qualunque calcolatore lo intende come 4. Molti, invece, hanno espresso contrarietà: 04 non è un numero, non si scrive così, quindi l’uguaglianza non sussiste. Uno pensa che la matematica non sia un’opinione, una tesi a cui è stata dedicata persino una frase fatta, e invece la scarsa preparazione induce a mettere in discussione anche le cose più scontate. Spero tanto, al prossimo ciclo, maturata un po’ di anzianità, di riuscire a passare dalla parte giusta.

decoro

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La mia collega Fiorella di grembiuli non ne vuole sentir parlare. Il fatto è che alla dirigente non piacciono le pance scoperte, le canotte, il leggings attillati e le chiappe che spuntano dagli shorts, tipiche di questa stagione. Apriti cielo. La provocazione dei detrattori è che, se siamo un istituto comprensivo, il grembiule lo devono indossare tutti, dalla materne alla secondaria di primo grado. Già me li vedo i genitori. Il fatto è che i grembiuli di cotone non esistono più, soppiantanti da ammassi di acrilico che fanno irritare la pelle anche solo a parlarne. Volete sapere la mia? A me non dispiacerebbe. Dirò di più: estenderei l’uso del grembiule ai docenti. Il maestro Mimmo, per dire, non ha nemmeno trent’anni e con questa bomba di caldo si è presentato in classe con le bermuda, per giunta di jeans. O quell’altra che mette le tute informi con il logo sbiadito della nazionale brasiliana, nemmeno nelle favelas. O quell’altro, che poi sono io, che indossa gli stessi jeans, da settembre a giugno. Pensate che rivoluzione: tutti a scuola con il grembiule. Si abbatterebbero le differenze e nessuno giocherebbe a primeggiare per i propri abiti firmati, per non parlare di fisicità, tatuaggi, curve, magrezza. Tutti con il grembiule, un grembiule blu per tutti. Vi ho convinto?

otto e mezzo

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La mia collega ha lo stesso timbro di voce di Lilly Gruber. In più parla proprio come lei, con le stesse cadenze e rispettando i ritmi e tempi della conduttrice de La7. Quando facciamo il passaggio di consegne in classe, tra un turno e il successivo, senza farmi vedere chiudo gli occhi e immagino di essere un opinionista di “Otto e mezzo” a cui è stato richiesto il parere su Carletto che non ha giustificato, sul PDP di Nicolò o sul comportamento della mamma di Lorenzo che continua a tenere il figlio a casa con il raffreddore. Questo in condizioni normali. Come tutti gli insegnanti, però, è pronta a farsi sentire se c’è qualcosa che non va. Nella sua voce l’aumento di volume coincide con la discesa della sorgente sonora giù per il collo, non so se mi spiego, un fenomeno probabilmente dovuto a un uso scorretto dell’apparato fonatorio e a una errata respirazione. Invidio molto, invece, i colleghi che sanno mantenere toni molto bassi per costringere i propri alunni a fare silenzio. A volte ci provo, con i miei, ma non sono credibile. Ci sono corsi dove si possono imparare le tecniche migliori per la gestione della voce in classe. Il primo anno ricordo che a metà ottobre ero pressoché afono. In più, venendo da un lavoro in cui trascorrevo otto ore al giorno in silenzio al computer – anche perché ci sarebbe stato ben poco da dire – ho faticato ad abituarmi a non andare in iperventilazione. Una volta ho assistito a una lezione in cui l’insegnante usava un piccolo ampli agganciato alla cintura e un microfono, forse la soluzione più adeguata a spiegare senza farsi venire mal di gola. Ci sono poi docenti che urlano e basta, ma secondo me i loro alunni, alla fine, si abituano e dopo un po’ non ci fanno più caso.

cosa fai quando non ti vedo

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Provo un po’ di invidia per la mia collega Tiziana perché nell’intervallo lungo, ora che ci sono le belle giornate, si siede sul prato del giardino e una buona parte della sua classe – sia maschi che femmine – forma un cerchio insieme a lei come quella scena di “Tutti insieme appassionatamente” oggetto di meme in cui Julie Andrews canta con la chitarra in mano durante il pic-nic. A differenza mia, lei deve profondere molto appeal sui bambini se scelgono la sua compagnia anche oltre le ore di lezione. Racconta cose, conduce piccoli giochi, li intrattiene. I miei alunni, al contrario, si fanno bellamente i cazzi loro. Così, quando scendo in giardino, mi metto in maglietta, tengo giù la mascherina tanto non c’è nessuno vicino e mi prendo il sole in faccia, seduto sulle gradinate del campetto da basket. Prima restava spesso Erik con me ma ora che fa più caldo preferisce l’ombra e ogni dieci minuti viene a chiedermi quanto manca a tornare in classe, proprio come fanno i bambini nei viaggi in treno.

In quei minuti di rara solitudine scolastica, la cosa che mi viene più spesso da pensare è come trascorresse mia figlia tutto quel tempo, quando frequentava la primaria. Se giocava con il gruppone, come fanno i miei dietro a una noce usata come palla da calcio, oppure se era come Jolanda e Jasmin che perlustrano il giardino in cerca di tesori. O come Erik, appunto, che non vuole stare con nessuno.

Sono episodi in cui mi torna in mente una cosa che ho letto non ricordo detta da chi, e che dice che bisognerebbe tornare a fare gli educatori anziché i fan dei propri figli. Così, mentre controllo che dei miei alunni nessuno si faccia male, provo a calcolare a mente la percentuale di tempo che, tenendo conto che che mia figlia ora ha diciott’anni, non ha trascorso con me. Il naturale prosieguo di questa riflessione è che, probabilmente già a partire da ora, con me ci starà sempre meno. Il bello di insegnare alla primaria è che un po’ cristallizza queste sensazioni, non so se riesco a spiegarmi. E non so nemmeno se sia davvero bello.


siamo a cavallo

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L’insegnante che tiene il corso madrelingua di inglese è completamente strabica, caratteristica che unita alla lingua che usa per rivolgersi ai bambini rende impossibile ogni comunicazione a scapito della didattica. I miei alunni non solo non capiscono cosa chieda ma nemmeno a chi si stia rivolgendo perché, in più, non si ricorda i loro nomi e spesso li confonde. Anch’io non ho proprio uno sguardo calibratissimo ma oramai con me hanno fatto l’abitudine. L’esperto che fa il corso di musica invece è un portento perché viene dal teatro e in più fa l’allevatore di cavalli. Ho googlato il suo nome e ho scoperto che usa un metodo che ha dell’incredibile. Li convince a coricarsi su un fianco e poi si sdraia sopra di loro, una tecnica molto fisica. Nel suo profilo ci sono persino diverse foto in cui assiste sua figlia mentre impara ad andare a cavallo. Ho pensato che dev’essere bello avere qualcosa da insegnare ai propri figli, una passione da tramandare. Persino quel cretino di mio cognato, che grazie alle tasse evase si è potuto permettere una moto da gran turismo che nascondeva nel fienile della nostra casa di campagna per non avere problemi con la guardia di finanza – naturalmente mi riferisco alla stessa casa di campagna che poi ha sottratto alla mia famiglia con una truffa, unendo quindi al danno la beffa – dicevo che persino quel cretino di mio cognato ha trasmesso a sua figlia la sua passione per la moto, peraltro comprando anche a lei una moto gigantesca, penso con gli stessi soldi ottenuti grazie all’evasione fiscale o comunque alla rendita della cascina di famiglia che ci ha sottratto con la truffa. Mia figlia, per dire, non suona e non corre, ma quando parla aspirando l’aria riproducendo quell’effetto da voce horror con cui solo io so stupire i miei interlocutori, un po’ mi commuovo.

in esametri

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La mia maestra poteva sfoggiare uno dei nomi più belli in circolazione. Si chiamava Iside e, se non ricordo male, trascorreva con noi quattro ore ogni mattina per sei giorni ogni settimana. Oramai è passata un’eternità, malgrado questo sono certo che si facesse carico dell’insegnamento di tutte le materie, a tempo pieno. Quello del maestro unico è un modello insostenibile, con i tempi che corrono. Eppure, io che ho accettato di occuparmi dell’area logico-matematica dato che era l’unico posto disponibile, vivo con il costante rammarico di lasciare ad altri il compito di forgiare le coscienze letterarie dei miei bambini. La collega con cui condivido la mia terza è molto poco flessibile su tutti i fronti. Questo mi fa desistere dal tentativo di proporle una gestione della didattica diffusa e mista. Sarebbe bello se, per ogni materia, facessimo un po’ lei e un po’ io a seconda degli argomenti. O, ancora meglio, se si potesse procedere con le pluripremiate unità didattiche che raccolgono stralci di ogni bendidio di discipline diverse. Sai come si divertirebbero i bambini a passare da una materia a un’altra con la scusa di trattare argomenti che necessitano di un approccio disruptive. Ma questo non è possibile e non può rientrare nei piani programmatrici di una scuola molto old fashioned. La collega si occupa di italiano, storia, geografia e motoria, io dei miei compartimenti stagni in cui sono conservati singolarmente i kit di matematica, scienze, inglese, arte, musica, tecnologia. Inutile dire che è un peccato ma non perché io sia Gianni Rodari. Solo che qualche volta mi piacerebbe uscire dai canoni e leggere qualche poesia, raccontare qualche storia, presentare tutti gli stili narrativi che conosco, far scrivere i miei alunni e, perché no, registrare podcast. Nessuno mi vieta di farlo ma poi, malgrado le più buone intenzioni, desisto dall’idea. Mia moglie lavora in biblioteca e capita che mi porti a casa dei libri per bambini, io li porto a scuola ma mi dimentico persino di averli nello zaino, sopraffatto come sono dalle equivalenze e dai poligoni regolari. Oggi, a proposito di geometria, mentre correggevo un’attività dedicata proprio al ripasso di figure piane, angoli e lati, anziché scrivere “esagono” sulla LIM ho scritto “esametro”. Ed è stato subito #tityretupatulaerecubanssubtegminefagi