Zhai è il mio alunno cinese campione mondiale di induzione a stereotipi. Il papà ha un nome italiano così improbabile per un italiano da fare il giro e attestarsi tra i nomi di cinesi in Italia più diffusi. Fa l’imprenditore e lui e la moglie hanno due auto che, insieme, fanno cinque anni di stipendi del maestro del loro figlio. Zhai parla così male la nostra lingua che si esprime a frasi che sembrano una trasposizione automatica in una versione inglesizzata dell’italiano, senza maschili e femminili, coniugazioni e declinazioni. Anche per questo, Zhai sembra un bambino digitalizzato da sovraesposizione ai dispositivi elettronici e poi convertito in testo dall’OCR di un algoritmo cheap. Però ormai siamo in quarta e la DAD non c’entra nulla se non è migliorato di un centimetro dalla prima, così abbiamo gettato la spugna e imparato a capirci lo stesso, una convenzione tra di noi che vige per salvare il salvabile.
Con una di quelle fuoriserie, con la mamma al volante vestita come una cosplayer della fashion week, me lo ritrovo spesso dietro nel pezzo di strada che percorriamo insieme all’uscita da scuola. Me lo fa notare Zhai stesso, il giorno dopo. “Maestro, ieri noi dietro seguire te strada casa”. C’è stato però un passo in avanti. Fino allo scorso anno sembrava quasi vergognarsi delle proprie origini, fingeva persino di conoscere gli involtini primavera. Quest’anno la mamma gli impone di imparare a memoria un verso di una poesia in mandarino al giorno e mi scrive persino qualche parola nei suoi ideogrammi sui fazzoletti di carta che poi appendo in classe. Sta sempre da solo, in mensa tiene le distanze e siede nel punto del tavolone in cui può mangiare il più lontano possibile dai compagni, detesta lavorare in coppia o in gruppo e il massimo della socializzazione – non dimentichiamo che anche se cinese è di base un maschio – è giocare a palla nell’intervallo lungo con gli altri. A casa, i fine settimana li trascorre da solo con i fratelli e un paio di cuginetti cinesi che hanno due nomi nelle due lingue proprio come lui.
I suoi parenti sono un cliché di quello che pensiamo facciano i cinesi in Italia. La zia gestisce un ristorante, lo zio con la moglie (cinese) lavora in una rivendita di articoli di telefonia e cover, ci sono anche dei cugini del padre che vendono vestiti al dettaglio e i nonni hanno quello che lui chiama un magazzino, che poi ho scoperto essere uno di quei giganteschi bazar di roba cinese dove si trova di tutto. La mamma lo porta spesso al magazzino, da dove torna pieno di giochi cinesi che poi, immagino, si rompano dopo qualche settimana ed è per questo che l’esperienza si ripete in modo periodico. Ieri mi ha detto di esser stato al magazzino a prendere per sé e per il fratellino il monopattino. La prima volta in cui mi ha parlato del magazzino ho pensato fosse una storpiatura di grande magazzino, la locuzione con cui negli anni ottanta definivamo i centri commerciali sull’onda dall’archetipo costituito dalla Rinascente che, comunque, resta un’altra cosa. Invece no. Se chiediamo di portare lo scottex Zhai arriva con una sottomarca da discount, stesso discorso per calcolatrici, compasso e altro materiale scolastico. Poi, parliamoci chiaro: che anche i proprietari della cartoleria si riforniscano al magazzino della famiglia di Zhai è un dato di fatto, quindi non è che gli altri in classe abbiano in dotazione materiale da boutique.
Questa dinamica trova poi la chiusura del cerchio nel modo in cui lo vestono, se pensiamo che abbigliamento cinese oggi è diventato un vero e proprio stile. Se mettiamo insieme le possibilità economiche della famiglia con la disponibilità di indumenti a cui hanno accesso unita alla velocità con cui i mocciosi crescono e al ciclo di vita irrisorio – dovuto alla qualità – di quel vestiario, ogni mattina faccio caso al suo look e vederlo più di un paio di settimane con le stesse cose addosso è impossibile.
Eppure, nonostante tutti questi stereotipi che ho sviluppato nei suoi confronti, Zhai me lo ritrovo sempre appresso con la sua voglia di raccontare, sempre nella sua lingua inventata. Viene alla cattedra in continuazione, o dal banco mi fa quella richiesta di avvicinarmi che usa solo lui, con tutta la mano e non solo con l’indice, perché è un bambino e scoppia dal desiderio di farmi sapere, di mettermi al corrente, di chiedere il perché, di farmi vedere quanto è bravo e intelligente. A casa l’italiano, anche se è la lingua ufficiale del business cinese in Italia, lo praticano poco e questo è un peccato. Ho addirittura pensato che qualcuno gli abbia insegnato a non mescolarsi troppo, proprio come ci insegnano gli stereotipi più crudeli, ma anche se fosse sarebbe un comportamento di cui non ho ancora compreso l’esigenza e le finalità.
questione primaria
male di stagione
StandardPassati in silenzio i quattro mesi della vacanza dei docenti, l’impatto con il palco della scuola è quasi sempre letale. A metà ottobre gli insegnanti sono afoni o lamentano il mal di gola oppure calibrano il proprio tono di voce sulle frequenze di Barry White che è perfetto per certe tecniche di seduzione anni 70 ma se devi spiegare le proprietà dell’addizione corri il rischio che sia controproducente. Un paio d’anni fa qualcuno aveva organizzato, presso la mia scuola, un efficace corso sull’uso della voce e da allora non passa occasione in cui manifesti il mio rimpianto per non essermi iscritto in tempo.
La voce è il nostro principale strumento di lavoro e un suo impiego scorretto ci mette in condizione di consumarla molto prima del periodo di tempo in cui è business critical averla funzionante. Io non pretendo tanto, diciamo che mi piacerebbe tirare almeno fino a Natale per poi avere quella quindicina di giorni per mettere a riposo l’apparato fonatorio. Invece va a finire sempre così. A ottobre non sai come vestirti, le finestre aperte dell’aula danno il colpo di grazia specie quando rientri sudato dopo l’intervallo lungo trascorso sotto il sole, e via con i primi starnuti.
Da questo punto di vista, noi insegnanti siamo come gli attori. Anche la gestualità è importante e aiuta a potenziare il significato della parola. Quando osservo i divulgatori alla tele cerco di lasciarmi trasmettere il modo in cui tengono le mani e accompagnano con i loro movimenti le cose che dicono. C’è una consonanza – a volte sin troppo impostata – e si vede che è frutto di un genere di studi la cui matrice può essere ricondotta a quella stessa tradizione teatrale italiana che fa sì che i nostri attori siano dei cani, la nostra fiction una merda e i dialoghi una sequenza di banalità difficili da cogliere, peraltro, complice quell’inqualificabile stile di dizione inutilmente sospirata e dialettale che si tramanda di generazione in generazione.
Per fortuna, quando sono in classe e Carmen mi interrompe in continuazione perché le sanguina un dentino, difficilmente riesco a concentrarmi sulla performance, così nel bene e nel male torno a essere me stesso, un ciarlatano prestato alla didattica. Qualcuno mi ha suggerito di riprendermi con una telecamera, mentre spiego, ma non ha mai visto come è fatta una classe. I guru della comunicazione dicono addirittura di non farsi vedere troppo dinoccolati perché si trasmette insicurezza di sé. Se è così, ho capito perché appena mi giro verso la LIM scoppia il finimondo. Torno a voltarmi verso di loro, alzo i toni per ricatturare l’attenzione ed è a quel punto che la mia ugola si ribella. Sento pizzicare dentro al collo e capisco che, anche per quest’anno, ottobre mi vedrà baritono.
fino all’osso
StandardLa mia collega Maria si ricorda benissimo di me mentre mi rammarico, lo scorso anno e più o meno di questi tempi, di non aver ancora imparato a far fruttare i mesi estivi, quando cioè le scuole sono chiuse e noi insegnanti ci godiamo i quattro mesi di ferie o forse più che immeritatamente ci spettano. «È vero», sostiene Maria, «lo avevi detto anche l’anno scorso».
Probabilmente quindi mi ero già lamentato della stessa cosa un mattino dell’ottobre passato e posso scommetterci che ero vestito proprio come oggi. D’altronde il ricambio del guardaroba della mezza stagione occupa sempre la posizione più bassa tra le priorità. Si tratta di pochi indumenti che indossiamo per una manciata di giorni, tra il caldo e il freddo, che non si sgualciscono mai proprio perché li mettiamo poco e prima di comprarne nuovi ci pensiamo due volte. E sicuramente, quando l’ho detto, eravamo nella stessa posizione: io seduto sulle gradinate del campetto di basket, a godermi il sole, e lei con gli occhiali scuri in piedi pronta a tornare all’ombra archiviata la pratica della conversazione del più e del meno dell’intervallo post-mensa, a malincuore esposta a quel calore illusorio, malcelato solo in parte dagli aliti della brezza autunnale, pronta a rifugiarsi in un punto più omogeneo sotto il profilo delle condizioni meteo percepite. Tutti e due, insieme al maestro della 4C, a parlarci messi di profilo, con gli occhi rivolti ai bambini che sono tornati a mescolarsi tra classi e che hanno ripreso a contagiarsi anche al di fuori della propria bolla di sicurezza. Intorno a noi il foliage, le castagne matte in terra, gli scoiattoli che sfuggono alla furia esploratrice dei nostri alunni, i battibecchi tra quelli che giocano con la palla di spugna sul fatto che sia fallo o no. Alla mia collega Maria d’ora in poi rimarrà impresso tutto questo, come la scena di un film, nemmeno fosse il finale di Casablanca.
E vedrete che verrà fuori che devo aver condiviso quella considerazione anche alla ripresa dell’anno scolastico precedente allo scorso, e non va per nulla bene perché non solo non mi piace passare per un vecchio rincoglionito che ripete le cose e mi offendo se qualcuno tiene a mente certi particolari che io ho già categorizzato come errori grossolani e che eviterei che fossero oggetto di conversazione, ma significa che quello di non essere in grado di organizzarmi durante i mesi estivi è un problema che si ripresenta – e so benissimo che si ripresenterà – e non ho ancora preso provvedimenti per trovare una soluzione, con l’aggravante che rimane impresso tra i colleghi in quanto, evidentemente, quello della pausa tra un anno scolastico e quello successivo costituisce un tema centrale nella vita di un docente, il vero core business, quasi come i sindacati o pretendere di ridurre al massimo le ore buche quando gli incaricati a preparare l’orario si mettono al lavoro o considerare i PDF sacri e inviolabili, pena il licenziamento e conseguente ricorso al TAR.
E se ne parlo qui è solo perché ho la coscienza sporca, so perfettamente di essere in torto. E tra gli svariati modi di buttare il via il tempo facendo cose senza fare nulla, un paradosso tipico dell’Internet, quest’estate ho aumentato a dismisura il mio interesse per l’archeologia. Una passione che, se siete di genere maschile come me e conseguentemente a rischio ossessività nella pratica degli hobby, è meglio lasciar stare perché soffermarsi su troppe foto di scheletri umani dell’antichità, alla lunga, porta alla depressione. Riflettere su ossa e teschi ricomposti o lasciati in mostra nella posizione in cui sono stati sepolti a suo tempo o addirittura colti nell’ultimo sforzo con cui il corpo che sorreggevano ha tentato un’estrema difesa dal cataclisma che lo ha inghiottito o incenerito ci permette di calcolare di quanti miliardi di persone di cui ci resta solo un mucchio di spoglie anonime non si sappia nulla. Niente. Nemmeno un ricordo, un’epigrafe, un nome, un’iniziale, un ciondolo al collo o un corredo funebre o un attrezzo rinvenuto in prossimità. D’altronde, se ci pensate bene, quanti esseri viventi animali e vegetali ci hanno già lasciato le penne dai tempi del big bang? La terra è una palla ultra-millenaria abitata e percorsa da entità semoventi e autonome tutte soggette a un meccanismo a tempo e il senso di questa cosa non si è ancora capito, sempre che ci sia qualcosa da capire. Voglio dire, perché ci interessa il fatto che oltre a noi c’è stato un prima e ci sarà un dopo?
Così mi permetto di mostrarvi questa foto. Vedete? Questo sono io a metà luglio, seduto alla scrivania con il pc acceso, solo in casa. Mia moglie è al lavoro. Mia figlia è in giro per l’Europa con le sue compagne di classe, tutte munite di interrail, a godersi le vacanze tra la maturità e l’università, le ultime in cui ci si può permettere di non fare un tubo. Anzi no, se sceglierà di fare l’insegnante avrà tutta una vita davanti di mesi estivi da buttare via. Dicevo, nella foto mi vedete al computer senza aria condizionata nella stagione più torrida dai tempi del neolitico, con il condominio impacchettato per i lavori del 110% e i teli esterni che faranno anche ombra ma impediscono a qualsiasi materia allo stato aeriforme – a partire da ciò che respiriamo – di circolare liberamente. Se ingrandite il monitor noterete una pagina Facebook con una foto scattata negli scavi di Ercolano e, allargando ancora, degli scheletri che, a loro modo, chiedono di essere risparmiati. Evidentemente nessuno li ha ascoltati.
Il fatto è che ci sono cose ben più gratificanti che pensare a cosa siamo e da dove veniamo ispirati da un mix di osteociti e calcio di duemila anni fa, per di più sporchi di terra.
Qui ci sono parchi, vie con negozi, musei e chiese da visitare. Biciclette da lanciare lungo corsie pensate ad hoc per i temperamenti più ecologisti e opportunità di ogni tipo per il turista a km zero. Basta saper cercare le informazioni giuste e organizzarsi. Trovare in rete orari e occasioni da cogliere e imbastire cronoprogrammi e organizzarsi. Scovare eventi, iniziative, incontri e qualunque tipo di happening a cui presenziare e organizzarsi. Individuare cinema e teatri e persino mostre all’aperto, mercatini e bancarelle di quartiere, conferenze e festival e fiere e organizzarsi. Setacciare il territorio in cerca di scorci, attrazioni, street art, archeologia industriale, riqualificazioni di quartiere e organizzarsi. E al limite anche amici che non si vedono da mesi, parenti quasi dimenticati, colleghi ed ex colleghi e semplici conoscenti con altrettanto tempo libero e organizzarsi. Per non parlare dei concerti: acquistare i biglietti, pianificare la trasferta e organizzarsi.
Ecco. Solo una efficace organizzazione del proprio tempo ci tiene alla larga da Internet, da cercare immagini di scavi archeologici con gli scheletri di gente morta secoli fa e da pensare che tra mille anni qualcuno troverà il mio di scheletro, intento a guardare foto di resti umani mentre gli altri insegnanti cucinano peperonate in roulotte parcheggiate dodici mesi l’anno in camping sul lago, o sonnecchiano sotto l’ombrellone di una spiaggia del sud, o ancora meglio visitano luoghi esotici o spingono carrelli tra i saldi del centro commerciale di Arese. Qualcuno, dicevo, troverà il mio, di scheletro, senza sapere che è il mio. Pazienza.
in balia della tv
StandardA così tanti anni di distanza nessuno ricorda più i dettagli sul primo e unico sorteggio in cui ha avuto luogo l’abbinamento tra le numerose comunità di fedeli del territorio al relativo santo patrono. Chi sia stato l’ente organizzatore dell’evento, chi fosse la madrina e come fosse vestita, quale emittente televisiva abbia curato in esclusiva la diretta, se c’era Cristiano Malgioglio tra gli ospiti, per non parlare dei particolari più chiacchierati come eventuali sospetti brogli nella procedura, ormai all’ordine del giorno. Per questo fa bene chi propone che, come qualunque cosa ricorrente che si rispetti, l’estrazione debba ripetersi ogni anno in modo che nessuna di queste concessioni secolari possa dare adito a conflitti di interessi o comunque per evitare di istituzionalizzare consuetudini poco trasparenti.
Per esempio ci sono paesi che festeggiano il loro intercessore con il divino in estate e a cui, a differenza di chi lo celebra in inverno, viene negato un diritto e si ritrovano una festività in meno nel calendario scolastico. Ma ci sono altri fenomeni ampiamente discutibili e che rendono urgente provvedimenti come quello, per esempio, di scegliere un giorno dell’anno, lo stesso per tutti i santi come festa nazionale, e morta lì. Non credo che nessuno di questa sorta di demiurghi mentori si offenda e, a onor del vero, il giorno in cui si celebrano tutti i santi c’è già da un pezzo ma ha perso il suo fascino da quando è stato messo in secondo piano dal più accattivante Halloween.
Il fatto è che quella della festa del santo patrono è una convenzione che fa acqua da tutte le parti. Sant’Ambrogio, che come Beppe Sala è una specie di super amministratore nazionale nel suo campo, ha un potere tale da fermare ogni attività non solo nel comune di sua pertinenza ma anche in quelli dell’hinterland, con il risultato che qui dove vivo io ci sono due santi patroni che si contendono le 25mila anime, mie concittadine. Anzi, la zona se l’erano già spartita in due fratelli, Gervasio e Protasio, e per questo possiamo vantare un vero e proprio triumvirato e forse va ricondotta a tale polverizzazione del potere temporale la scarsa cura con cui, qui, sono gestiti il territorio e la cosa pubblica in generale.
Ma basta spostarsi nel rhodense e oltre che l’influsso del vescovo teologo non si percepisce più. Il comune in cui si trova la scuola dove insegno – sarà anche per l’elevata percentuale di nuclei famigliari trapiantati dal sud per provvedimenti di confino – non riconosce alcuna autorità al patrono di Milano. C’è un santo, anzi anche lì una coppia di martiri che si dovrebbero celebrare durante l’estate così, per non scontentare i fedeli, il primo lunedì di ottobre – qualunque esso sia, un po’ come succede per la pasqua che si designa a tavolino – scuole e negozi osservano un giorno meritato di chiusura. Il fatto che molti dei genitori lavorino invece in area ambrosiana guasta la festa perché poi madri e padri che non hanno nonni a supporto non sanno dove mollare i mocciosi mentre sono in ufficio.
Senza contare che la cosa scontenta anche me. Mia moglie avrà un bel ponte da mercoledì 7 a domenica 11 dicembre, mentre io giovedì 8 sarò in classe a fare lezione, e lo scorso lunedì 3 ottobre – il giorno di finta festa patronale – sono rimasto inutilmente a casa da solo, che poi è finita che ho lavorato tutto il giorno, la scuola per gli insegnanti non si esaurisce al suono della campanella ma questo è un altro discorso.
Qualche genitore però si è lamentato del fatto che io non abbia dato compiti di matematica. Il punto è che i compiti alla primaria sono inutili, li eseguono genitori e sorelle e fratelli maggiori mentre i bambini si sparano su Fortnite o giocano alla ps. L’abilità sta nell’assegnare attività da sbrigare a casa pensate in un modo che ogni supporto altrui sia inutile o, almeno, riconoscibile dall’insegnante in fase di check. Io cerco di strutturarli così durante l’anno, ma in queste prime settimane di scuola – chi si occupa anche della parte organizzativa del proprio istituto sa bene cosa succede a settembre e ottobre – mi è stato impossibile. E piuttosto che caricare i miei alunni di paginate di operazioni o problemi a cazzo (i libri di testo sono arrivati solo ieri) ho preferito lasciarli liberi.
E durante il weekend finto-patronale la rappresentante dei genitori ha pensato di inoltrarmi un messaggio di una mamma, che più o meno, anzi, copio e incollo da whatsapp, diceva
«Buongiorno a tutti. Scusate, ma di matematica non ci sono compiti da fare?? Mi chiedo come mai visto che hanno anche un giorno in più a casa. Scusate se chiedo, ma sinceramente qualche esercizio di matematica alla mia non gli farebbe male, piuttosto che lasciarla in balia della tv mentre sono al lavoro😅 »
Ho replicato alla mia rappresentante chiedendo di rispondere che – una verità parziale – abbiamo lavorato sodo in classe ripassando, per iniziare, alcuni argomenti dello scorso anno in attesa dei testi. Ho consigliato però di far leggere ai bambini un buon libro. Non rientra nell’ambito delle STEAM – l’isteria collettiva per le discipline scientifiche sta oltrepassando ogni limite – ma comunque costituisce un efficace diversivo alla tele.
Una risposta che, se me la sentite dare a voce, risulta un pacato e saggio suggerimento ma che, con il potere distorto dell’asetticità della parola scritta, trasmette tutto il disprezzo nei confronti di una mentalità all’opposto della mia. Ho comunque verificato con la rappresentante che non ci fossero stati fraintendimenti, e la cosa è finita lì.
Ho dovuto però faticare a trattenermi dal caricare la classe, in questo primo fine settimana successivo al santo patrono, assegnando una caterva di esercizi tratti dai libri appena ritirati. Ho deciso di non farlo perché adoro i miei bambini e spero che trascorrano questo soleggiato weekend autunnale a bearsi del foliage nei parchi e della raccolta delle castagne piuttosto che a fare matematica, sempre che i genitori abbiano intenzione di organizzare qualcosa di bello per loro.
Ma se pensate che abbia sposato la vision di quel collega divenuto celebre per aver divulgato la sua lista di compiti delle vacanze new age, sbagliate di grosso. Ho voluto mandare un messaggio di buon senso a me stesso, prima che alle famiglie dei miei alunni.
Poi è successo che mi ha scritto la mia collega che ha un figlio DSA alle medie, un ragazzone che passa ogni santo giorno a fare in modo che la sua autostima non si esaurisca del tutto dietro a decine di verbi da coniugare, fogli A4 da squadrare e espressioni da risolvere. Mi ha mandato le foto delle svariate pagine di grammatica che gli hanno assegnato per lunedì, in aggiunta a tutto il resto delle materie. Le ho risposto che non riconosce la fortuna che ha avuto: almeno suo figlio non passerà il tempo davanti alla tv.
grazie
StandardCi sono mestieri in cui una delle prime cose che t’insegnano è che non devi dire grazie ogni volta che qualcuno ti passa un martello, ti tiene ferma una trave mentre la inchiodi o ti raccoglie un bullone che è volato giù mentre sei in cima a una scala. Sono gesti che fanno parte del lavoro quotidiano, componenti ordinari che, rimarcati, rischiano di svilire un feedback che fuori dal contesto professionale incarna il riconoscimento della gentilezza con adeguate buone maniere. Non credo c’entri il fattore linguistico. I ponteggi intorno al mio palazzo sono una babele di carpentieri in cui si opera per mettere a punto la riclassificazione energetica dell’edificio, gente proveniente da diverse parti del mondo ma che, abitando in Italia, si esprime con la lingua del lavoro che fanno nel posto in cui lo esercitano, per cui c’è un solo grazie ed è in italiano ma glielo senti proferire solo quando gli offri un caffè mentre stanno montando pannelli al tuo piano o, come successo lungo quest’estate torrida finalmente agli sgoccioli, in risposta quando ti chiedono dell’acqua. Il problema è che, a meno che tu non sia una bestia, ai più viene naturale. Quando qualcuno invia comunicazioni alla mailing list dei colleghi – in tutto siamo quasi duecento insegnanti – passa una manciata di minuti ed è tutto un rimbalzare di email di ringraziamento inviate non al mittente ma al gruppo stesso. Anche su cose di poco conto l’usanza è sempre la stessa. Non è la fine del mondo, sia chiaro. Basta cancellarle una ad una man mano che si ricevono, oppure organizzare GMail in modo che annidi tutte le conversazioni dello stesso soggetto e lasciare che quel sottoinsieme si gonfi di mail di ringraziamento e eliminarlo una volta per tutte alla fine, e il fastidio è ridotto al minimo. Qualche volta mi vien voglia di intervenire e di mandare una mail a tutti chiedendo di non ringraziare in massa per ogni cosa inviata, oppure scrivendo che diamo per scontato che il primo che risponde con un grazie vale per tutti gli altri. Ma mi sembra un gesto poco corretto, quello di limitare la gentilezza spontanea dei miei colleghi e le loro buone maniere. E poi sono certo che, in risposta, mi ringrazierebbero tutti per l’idea, e così saremmo daccapo.
senza filtro
StandardNessuno ha avuto dubbi quando ho chiesto quale fosse la principale novità del nuovo anno scolastico. A dirla tutta a qualcuno è scappato che era morta la regina Elisabetta, che poi è vero, ma si è reso conto subito che la risposta giusta era un’altra e che doveva avere noi come protagonisti. Così sono fioccati gli indizi. Un unico ingresso per tutte le classi con un unico orario. I banchi allineati a file di due e tre ma ravvicinati. Libri e quaderni negli armadi e sugli scaffali al posto degli zaini pesanti gonfi di tutto il materiale perché non si sa mai. Il rompicapo matematico da svolgere in coppia, senza problemi se qualcuno, ridendo, sputacchia sul compagno perché, aspetto fondamentale, le facce ora sono libere e visibili.
Qualcuno ho fatto fatica a ricollocarlo nel ricordo che avevo di lui. Avevo avuto il tempo per osservarli con attenzione e calma venerdì 28 febbraio 2020 quando ci siamo congedati senza sapere ancora – anche se già girava la voce – che avrebbero chiuso tutto, a partire dalla scuola. Un arrivederci che suonava un po’ come un addio e che strideva con le maschere, quelle di carnevale autoprodotte durante le ore di arte – che presto sarebbero state soppiantate da quelle chirurgiche – e che brandivano con orgoglio all’uscita, correndo verso i genitori, inconsapevoli della clausura che avrebbe inghiottito una parte della loro infanzia.
Erano in prima e ora cominciano la quarta. I lineamenti – la cui evoluzione ho potuto solo immaginare, dietro la mascherina – ora sono quelli dei bambini aumentati, lievitati, vere e proprie versioni in scala di quel prototipo che ho accolto ormai tre anni fa e che ho sostenuto nei momenti di sconforto, gratificato con giudizi di tutto rispetto per sopravvivere in tempi difficili, seguito passo dopo passo nel corso di interminabili e surreali sessioni di didattica a distanza con connessioni e dispositivi inadeguati all’empatia, tentato di interpretare, all’incerto rientro l’anno successivo, lungo improbabili conversazioni con le bocche e la capacità di farsi capire occultate dietro a FFP2 dalle dimensioni sproporzioniate rispetto ai loro volti.
Ieri era il primo giorno di scuola e il primo giorno di rientro a ciò che consideriamo la normalità, per una delle attività più redditizie per la nostra società (un po’ meno per chi ci lavora, ma questo è un altro tema). Le mascherine le abbiamo finalmente buttate. Sono tornate i sorrisi, le stupidaggini, le domande argute e quelle ingenue, gli aneddoti strampalati, i tempi verbali sconnessi, le canzoni, gli sbadigli e le grida in giardino. Evviva la scuola, evviva la libertà.
trovatevi un partner che vi guardi come vi guarda il vostro dirigente quando accettate l’incarico che vi propone
StandardLa funzione strumentale per gli alunni DSA della mia scuola la riconosci subito perché scrive la sua carica quando si firma nelle email. Non c’è nulla di male. Nelle aziende di qualunque settore indicare il proprio job title in calce al nome è la prassi e non vedo perché non dovrebbero farlo anche i docenti. Tanto più che i ruoli ricoperti oltre a quelli strettamente didattici costituiscono una sorta di volontariato e sono decisamente prestigiosi ma solo dal punto di vista etico. Ore a babbo morto che si dedicano alla scuola pubblica e che trasmettono abnegazione e dedizione alla causa.
La gente normale – intendo chi non fa l’insegnante – però non coglie questo spirito di sacrificio e sostiene che per un docente virtuoso ce ne sono almeno cento scansafatiche pagati con le tasse dei cittadini (che per la maggior parte, ricordiamo, operano nel privato quindi quasi sicuramente evasori fiscali) che fanno quattro o cinque mesi di vacanza l’anno e che, ottenuta la cattedra, nel migliore dei casi si mettono in malattia, nel peggiore tornano al paese del sud da cui provengono per rimediare certificati medici farlocchi e svolgere un secondo lavoro mentre comunque continuano a percepire lo stipendio dallo stato.
Al netto delle leggende metropolitane, certe creature mitologiche come le funzioni strumentali, i membri di commissioni, il responsabile della sicurezza, il responsabile di plesso e chi fa parte dello staff di collaboratori della presidenza ricoprono posizioni altamente importanti sotto il profilo organizzativo ma tutt’altro che ben retribuite e decisamente sottovalutate. Le ore annue riconosciute, ore extra rispetto a quelle in classe e pagate una miseria rispetto alla miseria con cui sono corrisposte quelle in classe, si esauriscono prima di natale, il che significa che segnare il resto del tempo dedicato a queste attività non serve a nulla e, a quel punto, è meglio non pensarci.
Il fatto è che nelle scuole, in media, non c’è un metodo per distribuire gli incarichi in modo equo tale da indurre tutto il personale a farsi carico di un pezzettino. Non credo che, peraltro, prender parte alla componente organizzativa e gestionale sia compreso tra i nostri doveri nel contratto degli insegnanti e questo è un peccato. Chiaro che lavorare gratis non piace a nessuno, ma finché la situazione è così i carichi sono tutt’altro che bilanciati.
Il trucco è non farsi vedere troppo disponibili – o ciula come il sottoscritto – altrimenti avrete il destino segnato. A me capita che ogni volta in cui esco dall’ufficio della preside ho un incarico nuovo che va a sommarsi a quelli che ho già. L’ultimo, in ordine di tempo, è anche bello impegnativo perché sarò vicario, che è una cosa che più o meno somiglia a quello che una volta si chiamava vicepreside.
Non so come prenderla ma quando mi è stato proposto non ho saputo dire di no ma perché è difficile dire di no alla mia dirigente. Ci sa davvero fare nel convincere le persone. Muove le giuste leve, conosce i punti più sensibili del suo personale e, almeno nel mio caso, li sa a menadito. Impiega un mix di senso di responsabilità e qualche lusinga ma non infondata, anche se l’ambiente potrebbe dar l’idea del contrario. Non è raro infatti che chi lavora in classe si senta svilito a causa dell’inadeguatezza del riconoscimento sociale ed economico di quello che fa. Per questo, scrivere qualcosa di altisonante sotto la propria firma ci sta. Soprattutto perché, fuori dalla scuola, nessuno è in grado di capire di cosa sia una funzione strumentale per gli alunni DSA. Tradotto nel linguaggio di un lavoro normale, cioè fuori dalla scuola, corrisponderebbe a un “Learning & Developmental Disorders Manager”, che suona decisamente meglio.
amaro
StandardUn collega della secondaria ha confessato di seguirmi su Instagram e di aver riconosciuto tra le mie recenti foto il paesino natio di suo nonno, scenario di indimenticabili estati di quando era bambino e destinazione iniziale delle mie ultime vacanze. Ho cercato così di riassumergli il viaggio itinerante di agosto ma mi sono visto costretto a fermarmi al primo bed&breakfast e, a questo giro, senza nemmeno poter prenotare una camera. Il blocco pensavo fosse dovuto in parte alla difficoltà dei nomi di certi borghi lucani, però poi mi sono ricordato delle stranezze della toponomastica lombarda e di quanta ilarità mi inducessero, quando ero ancora un giovanissimo cittadino ligure, certe forzature geografiche del calibro di Paderno Dugnano o, peggio, Bulgarograsso. Ne deduco che riusciamo, anzi, parlo per me, riesco a conservare in memoria stranezze linguistiche facilmente individuabili nelle query mentali perché indubbiamente originali ma solo se archiviate da ragazzo. I nomi bizzarri dei posti visitati quest’estate e di quelle degli ultimi dieci anni, senza la consultazione di una mappa stradale, mi mettono in forte difficoltà. Non ditelo ai miei alunni. La paternale con cui li gravo l’ultimo giorno di scuola è di rientrare a settembre con gli occhi pieni di cose belle viste in vacanza e la testa in grado di completare con efficaci didascalie i racconti del primo giorno di ripresa. Mi viene la tentazione, mentre scrivo, di consultare Google e farvi un bel resoconto di viaggio ma non mi sembra corretto nei loro confronti.
Per i nomi, mi limito a Venosa, Pietrapertosa (la desinenza comune aiuta) e Muro Lucano, ma ne mancano almeno una ventina. Per la gente è più facile: posso associare ogni borgo della Basilicata visitato a una persona incredibile conosciuta al momento, sul posto. Anziani al bar, guide turistiche, proprietari di strutture ricettive, artigiani, emigrati ritornati in Italia dopo il Covid, ex sindaci eletti da meno di cento residenti, salumieri, ciascuno con una storia fuori dal comune da raccontare. E poi la cornice, a dir poco straordinaria. Si fa presto a trovare la bellezza nei luoghi più semplici da raggiungere. Vi sfido quindi a scovarli, questi ammassi di case arroccate sulla cima di rocce impervie in cui ho soggiornato quest’estate, dopo strenue lotte con Maps che mi ha indicato strade che voi umani non potete nemmeno immaginare e che fanno capire che, davvero, Cristo si è fermato a Eboli anche solo per fare benzina, considerato il rischio di rimanere a secco – vista la totale assenza di infrastrutture – che nell’interno della Lucania non è così remoto, a differenza di quei paesi lì.
pon pon
StandardSo che gli amanti del paranormale stravedono per quelle trasmissioni realizzate con materiale proveniente dalle tv a circuito chiuso – ora soppiantate dalle più economiche webcam per la videosorveglianza – raccolto durante le ore in cui gli ambienti risultano inabitati (o almeno dovrebbero esserlo) quindi durante la notte, i weekend o il periodo di chiusura per ferie. Al netto delle sortite di gatti e altri animali o, nei casi peggiori, di malintenzionati a caccia di refurtiva, il motivo di attrazione per questo segmento di pubblico è costituito dagli oggetti che si spostano da soli o altri fenomeni difficili da giustificare attraverso elementi razionali.
E probabilmente sono le anime dei docenti estinti, lungo i tanto vituperati quattro mesi di ferie dei colleghi ancora in attività, che nel corso dell’estate si divertono a tornare di ruolo nei luoghi che li hanno visti protagonisti per una vita e mettere a soqquadro classi, laboratori e aule dedicate. Altrimenti non si spiegherebbe lo stato in cui si presentano le scuole alla loro riapertura verso fine agosto, quando il personale più volenteroso – spesso ancora in vacanza – comincia a scaldare i motori per il nuovo inizio. E se fosse possibile installare un sistema di video-sicurezza interno agli spazi didattici senza generare una levata di scudi per la violazione della privacy, sono certo che potremmo ricavare girato per intere stagioni utili a programmi del calibro de “Il boss del paranormale” o “A caccia di fantasmi”.
Il punto è che non si spiega che cosa accada nel corso della serrata agostana, dentro le scuole. So di certo che collaboratrici e collaboratori (quelli che, giustamente, non bisogna più chiamare bidelli) prolungano il loro servizio ad anno scolastico ampiamente chiuso per tenere in ordine i locali mentre studenti e docenti si trasferiscono al mare o in montagna. Poi vanno in ferie anche loro, ed è nel corso di quella manciata di settimane che le scuole probabilmente si infestano di entità inquiete tanto che al rientro le classi risultano irriconoscibili.
Ma i meno superstiziosi riconducono le macerie che si presentano all’avvio del nuovo anno a inconfutabili spiegazioni scientifiche. I tornado che avviluppano in violenti vortici banchi e sedie per poi ammassarle in fondo all’aula. Uragani di polvere che si riversano sul materiale didattico dentro e fuori gli armadi. Violente scosse sismiche che alterano il posizionamento dei proiettori delle LIM rendendo necessario una nuova taratura. Tempeste elettromagnetiche che mandano in tilt la rete wireless e non so quale tipo di radiazioni in grado di mettere ko il sistema operativo dei pc di classe e di laboratorio, quell’effetto per cui al primo avvio si presenta la schermata nera con gli arcani segnali in linguaggio macchina provenienti da chissà quale civiltà estinta.
Uno tsunami a cui si aggiungono i lavori di manutenzione ordinaria a cui le amministrazioni comunali più lungimiranti provvedono nei momenti di stop dell’attività didattica (il che vi sembrerà una banalità, eseguire lavori strutturali a scuole chiuse, ma, credetemi, non è assolutamente detto, perché spesso gli interventi di operai, muratori ed elettricisti del comune – che seguono il calendario dei lavoratori pubblici – vengono fatti coincidere con le ore di lezione).
A scuola c’è sempre qualcosa da fare: muri da ristrutturare, caldaie da sostituire, illuminazione da riparare, cablaggi da aggiornare e arredi da montare e posizionare. Negli ultimi due anni, poi, i PON – Programmi Operativi Nazionali, le iniziative in cui il Ministero mette a disposizione cospicui investimenti per modernizzare la scuola, si susseguono senza tregua. La scuola, sotto questo profilo, non conosce pace. Da me, per farvi un esempio, quest’anno hanno rifatto la rete e a breve sostituiranno le LIM più obsolete con i nuovi display interattivi. La scorsa estate hanno sostituito i vecchi neon con un sistema di lampade di ultima generazione che si spengono quando in classe non c’è nessuno e si accendono a seconda della luce che c’è fuori. Due anni fa hanno cambiato gli infissi e l’anno prima avevano messo il cappotto termico alle pareti esterne. Mi sono chiesto se non si faceva prima a buttare giù tutto per ricostruire da capo, ma sono certo che chi ha deciso sa il fatto suo.
E il fatto è che queste preziose opere di ristrutturazione purtroppo sporcano, lasciano teli di copertura e stracci in giro, residui di vernice sulla cattedra e cose alla rinfusa. A memoria di insegnante non c’è anno scolastico in cui l’esperienza del nuovo inizio abbia trasmesso la sensazione di entrare in una macchina nuova, silenziosa, pulita e igienizzata, con i sedili confortevoli e facili da posizionare a seconda delle nostre richieste di comodità, pronta a partire senza dare problemi, magari con uno di quei pulsanti che usano adesso e che rendono superfluo l’impiego di chiavi, il volante in pelle per una presa sicura ma allo stesso tempo arrendevole, e, perché no, anche bella da guardare e che ti viene voglia di tenerla con cura.
Invece, i giorni a ridosso del primo collegio docenti sono quelli in cui si va a scuola con le bermuda cargo e la maglietta da campeggio. Si spostano armadi pesantissimi che qualcuno ha voltato con le ante verso il muro (il rischio che qualcuno entri per rubare acquerelli è all’ordine del giorno), si sale su scale per raggiungere le viti più in alto che si sono allentate, ci si sporca mani e scarpe con i calcinacci, sudando come maiali e lottando contro i pruriti provocati dalle zanzare agguerritissime.
E forse saranno queste le immagini video che verranno trasmesse nell’episodio della nuova stagione de “Il boss del paranormale” dedicato alla scuola dei misteri. Docenti che, fuori dall’orario di servizio, rimettono in sesto un intero sistema fondamentale per la società che, non si sa come e non si sa perché, a ogni ripresa impone di ricominciare tutto da capo.
materia prima
StandardLa materia prima della scuola è il genere umano. Se siete sensibili a quello che può accadere al genere umano – parlo di quel disagio che prova chi è sensibile a una cosa – la scuola non è un lavoro che fa per voi: il via vai di colleghi e di alunni con cui ti cimenti vi risulterà insopportabile.
Se avete lavorato in aziende private di qualunque settore industriale, in cui l’obiettivo è il prodotto e il profitto che ne deriva, il genere umano è un di cui. Eppure, paradossalmente, in genere il livello di turn-over è pienamente accettabile. A parte i contratti a tempo determinatissimo e i fantomatici stage, chi sa lavorare resta nella stessa mansione per un po’ di anni, ci sono casi eroici di impiegati che giungono sani e salvi addirittura alla pensione. In tutti gli altri casi, se sai fare il tuo mestiere, le aziende cercano di trattenerti con aumenti o miglioramenti delle condizioni lavorative, e quando arrivi al punto in cui è inevitabile passare alla concorrenza a causa di un’offerta che sarebbe immorale non accettare, oppure cambiare strada, nel frattempo è trascorso almeno un lustro, se non di più.
Nella scuola, dove l’obiettivo è far trascorrere un’esperienza di apprendimento più significativa possibile a bambini e ragazzi, dove le riunioni si fanno per parlare degli esponenti del genere umano con cui si ha a che fare quotidianamente, dove ogni docente è chiamato a mettere tutto se stesso al servizio dei colleghi per il bene degli studenti, è tutto un andirivieni che, nei casi migliori, dura da settembre a giugno.
La scuola ingaggia una percentuale di precari e di precari più precari dei precari che ha dell’incredibile. E se considerate che la didattica – e tutto quello che concerne – è uno degli esempi più palesi di strategia di successo a lungo termine, è facile immaginare il risultato di un processo in cui, ogni anno, occorre ricominciare da capo con nuovo materiale umano che, quasi sempre, ha indole diversa da chi lo ha preceduto. Ne deriva che anche quel poco personale che è lì a tempo indeterminato si deve adattare. Non solo. Anche i lavoratori stabili chiedono trasferimenti in altri istituti o passano ad altri ordini o cambiano vita oppure, come è giusto, vanno in pensione.
Ci sono due momenti, agli estremi di ogni anno scolastico, in cui questo trambusto è causa di sconforto emotivo alle persone sensibili di cui parlavo prima. A settembre e ottobre ogni scuola si riempie di gente mai vista prima che va a colmare i buchi dell’organico, una fase di assestamento che può prolungarsi anche fino a novembre inoltrato. In questo momento preliminare è fondamentale quindi darsi da fare per riaggiustare il senso di team che viene polverizzato nell’ultimo collegio docenti di giugno, quando ci sono i saluti dei cosiddetti supplenti annuali che, l’anno successivo, chissà dove finiranno ed è un miracolo, se si tratta di docenti in gamba, se riescono a farsi confermare nello stesso posto, quando la ruota riparte.
Provate a immaginare: la tua classe va in vacanza e, come se non bastasse, i tuoi colleghi evaporano con ampie possibilità di non incontrarli mai più, e ti ritrovi con i soliti quattro gatti dei colleghi di ruolo, il dirigente, il vicario, i vari responsabili di plesso, tutti a non dirsi quanto sarebbe bello, per il genere umano, per i docenti, per la società, che le cose si normalizzassero e che la scuola diventasse un posto di lavoro come tutti gli altri in cui, al di là di far trascorrere un’esperienza di apprendimento più significativa possibile a bambini e ragazzi – la nostra mission – si può anche contare su una squadra di persone, più o meno sempre le stesse, a lavorare per il lungo periodo.