lapidario

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A scuola il tempo passa in fretta. Basta giungere indenni alle vacanze di Natale che, in quattro e quattr’otto, ti ritrovi a cantare “è finita la scuola” sulla melodia di “Seven Nation Army” varcando l’ingresso, anzi, l’uscita per l’ultima volta prima dei cinque mesi di vacanze estive stipendiate che spettano a noi insegnanti. La velocità della scuola si percepisce in diversi dettagli. Due ore di lezione all’insegnante durano una manciata di minuti. I bambini che giocano scalmanati in classe negli intervalli post-mensa al chiuso in inverno riducono la lunga pausa dopo mangiato al tempo impiegato per sorseggiare un caffè. Al termine delle corpose e piene giornate del lunedì e martedì, quelle che cominciano alle otto e trenta e si prolungano fino alle otto di sera a causa degli incontri di programmazione didattica con i colleghi e organizzativi con gli altri dello staff della dirigente, ci si ritrova di venerdì sera, con un bicchiere di prosecco in una mano e una tartina salmone robiola erba cipollina e pane di segale nell’altra. Il guaio è che, trascorso nemmeno un ciclo completo dalla prima alla quinta, sei già carne avariata da pensionamento. Tutta questa frenesia, che attenzione mica è colpa nostra, rende impercettibili certi dettagli come Axios che, a valle di una migrazione nel cloud, si perde chissà dove i voti e i giudizi di metà corpo docente o Marco Giulio che si scompiscia dalle risate mentre sei voltato alla LIM, pardon, verso la Touchboard a cercare di disegnare un triangolo equilatero a mani nude perché il suo vicino di banco Nicolò imita i movimenti più esilaranti del balletto di Mercoledì. Ma, con la scansione temporale che vi ho riassunto prima, nessuno sa quando sarà Mercoledì perché, ripeto, è facile che di certi giorni, a scuola, non ci si accorga nemmeno.

giustificazione

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L’autonomia è un aspetto fondativo della scuola italiana in entrambe le accezioni sia di autonomia dei singoli istituti sia libertà di insegnamento dei singoli docenti. Per questo dobbiamo andarci piano quando parliamo – a me scappa sempre – di scuola come organizzazione, nel senso di azienda, un luogo cioè in cui le individualità professionali (ciascuna con le proprie peculiarità) concorrono a una finalità comune. Sia chiaro: tutti noi lavoriamo per fornire a bambini e ragazzi la più efficace esperienza didattica possibile per consentire a chiunque, secondo una logica inclusiva, di raggiungere gli obiettivi definiti nell’offerta formativa. Il punto è che in una struttura così articolata e capillare ogni cellula fa quel che vuole, e mi riferisco a chi sta dietro alla cattedra (modello didattico, approccio alla materia, stile di insegnamento eccetera eccetera) a seconda di svariati fattori. I primi che mi vengono in mente sono: attitudine alla professione, carattere, background esperienziale, background formativo, umore, serenità interiore, buon senso, condizioni economiche, ambiente, colleghi, appagamento nella vita privata, rancore accumulato, condizioni fisiche, condizioni psicologiche, capacità di avviare, coltivare e gestire relazioni interpersonali, buon senso, curiosità, disponibilità a mettersi in gioco costantemente, flessibilità, resilienza, pazienza, carisma, attitudine al comando, attitudine a mettersi al servizio di altri, capacità di riconoscere gli ambiti operativi dei vari stakeholder, disponibilità a sottoporsi a perpetuo aggiornamento, e molto altro.

Non è raro trovare quindi qualcuno che fraintende questa complessità per una condizione in cui una volta chiusa la porta dell’aula ognuno fa quel cazzo che vuole. Da docente mi dissocio da affermazioni di questo tipo, ma per qualche minuto – giusto il tempo di giungere all’ultima riga di questo post – facciamo pure finta che sia così. D’altronde non puoi mettere d’accordo decine di migliaia di prof di italiano sul territorio nazionale – per fare un esempio – e imporre per statuto di fare questo, questo e quest’altro canto dell’Inferno anziché quello, quell’altro e quell’altro ancora. A volte non si riesce nemmeno quando ci si trova a programmare gomito a gomito un percorso comune. Come valuteresti Carletto che ha recitato a memoria “L’infinito”? È meglio usare come esempio di moltiplicazione 35×7 o 46×8? È impossibile misurare gli aspetti rarefatti che costituiscono l’essenza dei lavori che hanno a che fare con cultura, sviluppo intellettivo e altre amene caratteristiche degli esseri umani, almeno fino a quando cose come ChatGPT non si ribelleranno a chi le ha inventate e ci scaraventeranno fuori dal pianeta Terra.

Al numero uno della classifica di questi modi di sentire la scuola difficili da conciliare c’è la percezione dei compiti a casa da parte delle famiglie, soprattutto nella variante compiti delle vacanze. Io ne do pochissimi nel weekend perché i miei bambini li metto sotto durante le lezioni e preferisco che si godano il tempo libero per quello che è. Nelle vacanze invece richiedo un impegno maggiore perché, per chi è rimasto un po’ indietro, il rischio dell’effetto tabula rasa al rientro è un dato di fatto. Questo per dire che ho calcato un po’ la mano per la pausa natalizia che terminerà tra qualche ora. Poco fa il papà di uno dei miei alunni di maggior talento mi ha scritto per chiedermi “di moderare le eventuali richieste di espletamento dei compiti assegnati ai ragazzi”. Mi ha quindi ricordato che “il periodo di vacanza è pensato per lo svago, il relax e la famiglia”, aggiungendo che si aspetta che, nell’immediato rientro, “nulla venga richiesto se non una condivisione delle esperienze passate”. Ora chiedo a ChatGPT la migliore risposta da mandargli.

cocci

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Se avete figli che potrebbero essere miei alunni è bene che sappiate che una raccomandazione che noi insegnanti della primaria diamo ai bambini è di non portare da casa cose di valore, sofisticate o a cui tengono molto. Per i giochi o gli accessori scolastici non è tanto un problema di alimentare l’invidia dei compagni, quanto che è facile che qualche compagno possa danneggiare l’oggetto o, peggio, che il proprietario lo smarrisca in giardino durante l’intervallo lungo. Quindi è meglio che smartwatch, bigiotteria o regali preziosi restino sotto la responsabilità dei genitori tra le mura domestiche perché io non ne voglio sapere niente, e consolare i bambini per la separazione dal regalo rotto o perso appena ricevuto è straziante. Il rischio più grosso però è che quello che hanno portato da casa caschi giù dal banco e finisca in mille pezzi. Voi non avete idea della frequenza con cui la forza di gravità attrae in modo inappropriato cose sul pavimento delle aule delle scuole italiane. Le mie lezioni sono costellate da tonfi e altri rumori di materiale non strettamente didattico che si frantuma sulle piastrelle e il punto è proprio che la fisica è la più acerrima nemica della tecnologia. Un banalissimo temperino in metallo, uno di quelli classici con i due fori uno più grande e il secondo più piccolo, se cade fa rumore e stop. Il maestro fa una battuta, se è già il ventesimo di fila al massimo si indispone un po’. Il bambino lo raccoglie e lo ripone sul banco, pronto per precipitare giù alla successiva inadempienza del maldestro proprietario. Oggi però vanno di moda temperamatite super-accessoriati in plastica delle fogge più disparate: coccodrilli, supereroi, unicorni parlanti, turbomacchine espandibili, vere e proprie stazioni orbitanti dotate di serbatoio trasparente in cui si depositano i resti di matita durante le operazioni di ripristino della punta che, appena toccano il suolo, esplodono in mille frammenti, sporcando il pavimento e causando danni incalcolabili. Il proprietario ci resta male, tutti gli altri scoppiano a ridere, e poi tocca a me deludere il bambino. “Mi spiace ma non si può aggiustare”, oppure “io non ne sono capace, prova a chiedere alla mamma o al papà” o ancora “te lo avevo detto che era rischioso tenerlo lì”. Il punto è che più lo sviluppo di questi prodotti tende alla raffinatezza, maggiori sono i pezzi in cui l’accessorio si frantuma in caso di incidente, e le espressioni dei bambini delusi da questa dinamica e orfani del progresso sarebbero da immortalare come monito per le generazioni future.

per pochi intimi

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Sono entrato in classe alla terza ora e sono rimasto a bocca aperta. Nemmeno ai tempi più duri del Covid mi sono trovato al cospetto di una scolaresca così sguarnita. Erano in dieci su diciannove. Poi Sandy è andata a casa per pranzo, Cecilia ha vomitato dopo la mensa (in cui ha passato il tempo addosso a Jasmin, tossendole più volte in faccia e con il fazzoletto sempre in mano, pronto a tamponarsi il naso sgocciolante, segno che domani i presenti saranno ancora meno, potete starne certi), così ho fatto avvisare i nonni. Infine, come se non bastasse, Anna è uscita alle 14.30 per una visita medica. Ho deciso di fare finta che, anziché essere una classe ridotta, fossimo una famiglia numerosa. Un papà con sette figli. Ho corretto i compiti del finesettimana e poi ho detto che non c’era occasione migliore di quella per farsi avanti per tornare su argomenti poco chiari, a partire dalle divisioni con il divisore a due cifre e il metodo del numero fortunato. Terminato il lavoro, mancava poco meno di un’ora alla fine. Ho preso qualche foglio e ho proposto un bell’allenamento con il compasso, quello di disegnare le palline di natale di carta da colorare con i pennarelli e appicciare sulla silhouette dell’albero che traccerò con lo scotch di carta sulla porta verde dell’aula. Ho messo un bel disco su Spotify al pc di classe – il nuovo ellepì di Santigold – e ho visualizzato sulla LIM qualche fantasia da riprodurre. L’atmosfera era surreale, per una scuola primaria. Hanno lavorato con impegno e nella massima serenità. Alcuni muovevano la testa a tempo con il ritmo, qualcuno faceva i versi alle canzoni facendo ridere gli altri, ma nell’insieme c’era un silenzio e una calma anomala rispetto agli standard a cui siamo abituati. Io ho girellato tra i banchi, ho addirittura indossato una FFP2 perché non si sa mai, anche se ho già fatto la quarta dose per l’influenza che c’è in giro sono ancora vulnerabile. Poi mi sono messo dietro a tutti, nell’ultima fila, seduto su un banco. Qualcuno si è girato a vedere che cosa facessi. Stavo lì a giocare a fare il bambino come loro, a cercare di ricordare cosa si prova, a pensare se ci fosse qualche motivo per chiedere alla mamma, il giorno dopo, di stare a casa, tanto in classe non c’è quasi nessuno.

fenomeno di costume

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– Maestro, presto corra! C’è bisogno di lei!

La bidella Esmeralda viene da qualche parte dell’America latina e non saprei dire altro perché è un tipo di geolocalizzazione antropologica che mi riesce sempre difficile. Per me dalla California in giù sono tutti uguali. Era quasi l’ora di scendere in mensa e in classe stavamo ammazzando il tempo in attesa del nostro turno con le solite richieste di ascolto dei miei bambini. Questo per dire che è inutile che mi scervelli a tentare di ricordare quale video di musica di merda stavamo seguendo alla LIM, anche se questa è stata la mia principale preoccupazione non appena mi sono lanciato fuori dall’aula per vedere che cosa stesse succedendo. Al momento la lista delle priorità vedeva al primo posto il rischio che, concluso il brano in questione, su Youtube partisse automaticamente il pezzo correlato e che le immagini contenute fossero sconvenienti per una scolaresca della primaria. Già me li vedevo i genitori a scambiarsi lamentele contro di me sulla chat di classe perché alimento l’immaginario erotico di quei mocciosi alle soglie della pubertà. Il punto è che la richiesta di aiuto sembrava così urgente che l’ultima cosa che mi è passata per la testa è stata quella di mettere in pausa la riproduzione.

Ho chiesto a Esmeralda di badare ai miei alunni e mi sono precipitato seguendo l’istinto. Ora, non ho un ricordo lucido di ciò che è successo ma l’impressione che ho a posteriori è di essermi trovato nel mezzo di un corridoio umano di gente che invocava il mio intervento e, a dirla tutta, io correvo in quello spazio lasciato dalla folla già vestito del costume da Superman. Mi è bastato quindi seguire il percorso per giungere a destinazione, e in quella manciata di metri ho appreso dalle parole di sgomento di bambini e colleghi tutti i dettagli della missione che mi era stato chiesto di compiere. Nessun insegnante aveva versato il caffè sulla tastiera del portatile di classe. Non c’erano fogli rimasti inceppati nella stampante. Non si trattava dell’ennesima telefonata della segreteria per informarmi di qualche genitore che aveva smarrito la password. Al contrario, questa era roba grossa: Fabio della seconda A è rimasto chiuso nel bagno.

E mentre raggiungevo le bidelle – in servizio con Esmeralda – che mi attendevano all’ingresso dei servizi maschili, già pregustavo la mail che avrei mandato a valle di quell’intervento di salvataggio, indipendentemente dall’esito. L’elenco delle richieste di manutenzione inevase dal Comune ha raggiunto le due cartelle di Word, anzi, di Google Documenti. Oltre ai neon da sostituire e le protezioni dei termosifoni che vanno in pezzi ci sono anche diverse porte difettose, tra cui quella che probabilmente Fabio della seconda A non riesce più ad aprire dall’interno.

Intorno al bagno bloccato c’era già un capannello di curiosi, forse anche i giornalisti e gli inviati della RAI. Le avevano già provate tutte, ma per scrupolo ho tentato come prima cosa anche io con la forza, invano. L’intuizione è arrivata però in modo così tempestivo che, ancora oggi, non me ne capacito, di solito trovo sempre la soluzione sbagliata ma fuori tempo massimo. Ho percorso il corridoio a ritroso verso lo sgabuzzino delle bidelle per recuperare la scala in alluminio, fedele compagna di mille interventi alle lampade delle LIM e al router che più in alto di così non poteva essere posizionato, che ho calato dall’alto nel bagno dando istruzioni a Fabio della seconda A di metterla a terra in modo corretto evitando che scivolasse nel buco della turca.

Quando il bambino è salito, l’ho guidato a sedersi sul muretto che separa il bagno da quello ha fianco, ho riportato la scala dalla mia parte, sono tornato in quota, l’ho aiutato a scavalcare la porta e ho assicurato che fosse con i piedi ben in sicurezza sulla scala dalla mia parte per accompagnarlo a terra. Nel mentre, le bidelle che assistevano all’operazione lo hanno tranquillizzato in tutti modi anche se non ce n’era bisogno perché Fabio della seconda A non si è minimamente scomposto.

Anzi, forse quello da rincuorare ero io perché, proprio nella fase conclusiva del salvataggio, mi sono risvegliato dalla trance in cui ero piombato al momento in cui Esmeralda si era rivolta a me in classe. Fabio della seconda A scendeva con cautela da un gradino a quello inferiore e io pensavo a perché mi trovassi lì, a cosa era successo, al perché indossassi quella stupida tuta blu attillata con una esse sul petto.

apparizione

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Sollevai gli occhi dal libro avvertendo un presagio, e mossi lo sguardo verso la porta che si spalancò in perfetto tempismo un istante dopo. La sua figura si delineò in controluce sulla soglia e tutti tacemmo. Giravano diverse leggende su di lui. Dicevano che bastasse il suo avvicinarsi e tutto tornava in vita, altri giuravano di aver assistito a veri e propri miracoli, solo con un suo tocco. Si sapeva quanto fosse sfuggente anche se bastava invocarlo e si manifestava dove c’era bisogno. Il suo compito era proprio quello: essere presente sempre, ovunque e simultaneamente, anche se era uno solo, anche se era solo lui. Si mosse, e in pochi passi raggiunse la postazione. Il silenzio era totale così, quando si sporse leggermente in avanti, si sentì distintamente il rumore dei tasti. Control, alt, canc, invio. Il pc di classe si riavviò, la LIM si riaccese, la lezione della maestra era salva, e l’animatore digitale svanì nel nulla, proprio come era apparso.

arriva la bomba

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Ordine scolastico che vai, puzza che trovi. Nelle classi medio alte della secondaria le ragazze ci danno già dentro con i profumi da profumeria, cosa che manda fuori di testa non pochi compagni di classe, e si gioca un campionato a sé. Nel biennio dicono si stabilizzi l’odore degli ormoni, lo stesso che alla secondaria di primo grado impesta le aule insieme alla puzza di piedi e agli effluvi dei post-bambini la cui igiene non è ancora delle più accurate, con picchi da paura dopo le ore di motoria in quelle scuole all’antica in cui non è prevista la doccia a coronamento delle attività sportive. Le finestre restavano spalancate anche con temperature sotto allo zero già in tempi non sospetti, molto prima che qualcuno in Cina decidesse di mordere senza ritorno un pipistrello e l’aerazione della classe si prefigurasse come una procedura obbligatoria.

Alla primaria, al netto di qualche studente precoce, che è molto più frequentemente una studentessa precoce, il monopolio è ancora di tutte quelle creme da bambini che, a noi romanticoni, ci inducono alla malinconia di quando i nostri figli erano in quella fascia evolutiva. Unguenti, balsami protettivi contro questa o quella allergia, ammorbidenti scaccia-pidocchi per i capelli più ingrovigliati, prime essenze dalle fragranze naturali volte all’affermazione della femminilità in erba. Un paradiso olfattivo per un tripudio dei sensi, almeno fino a quando qualcuno tira la bomba.

Alla primaria tirare le bombe in classe è ancora ammesso. La bomba alla primaria è un fenomeno che si può manifestare per svariati fattori e, a differenza degli studenti più grandi, nessuno lo fa per mettersi in mostra. Dare aria al corpo è considerato ancora un atto liberatorio che, a differenza degli stimoli che portano alla produzione di materia solida o liquida, non comporta l’impiego di un ambiente dedicato. Già in terza si studia lo stato aeriforme che non ha colore né forma, quindi i colpevoli non sono da biasimare, soprattutto perché è molto frequente che la causa sia un disagio fisico, il preludio a qualcosa di grave o di più impegnativo. E poi non tutti ancora si sanno controllare come gli adulti, almeno questa è la lezione che ho imparato perché, da me, ogni tanto capita. Qualcuno tira la bomba e nessuno dice niente, come se quell’atmosfera letale fosse la normalità.

Ma la scuola, almeno la mia, è esposta al rischio di un ordigno ancora più devastante, micidiale il doppio di quella bomba lì. Ho un’alunna che va a casa a pranzare tutti i giorni e, al rientro, bastano pochi minuti che l’aula si saturi di miasmi di aglio misto a odore di fritto. Io non so quale sia la dieta che seguono tra le mura domestiche, e che praticano con così meticolosità da osservarne le linee guida ogni giorno, almeno in quei tre in cui sono di servizio io in mensa e, al rientro, vengo accolto da tutta la tradizione gastronomica della sua famiglia che sublima nell’ambiente didattico, l’anima di un popolo che fuoriesce attraverso i respiri dei suoi rampolli. Le ore pomeridiane ormai hanno un marchio di fabbrica che si riversa tra i banchi e i libri e la LIM, i lavori di gruppo, le tecniche di flipped classroom, la pedagogia di ultima generazione. Una forza invisibile che si deposita su tutte le superfici reali e virtuali ma di cui, e non smetterò mai di sorprendermi, nessuno dei compagni si accorge. Anni di frequentazione dei fast food e di tutto quello schifo che resta appiccicato ai vestiti probabilmente hanno incartapecorito le loro superfici olfattive, o magari stare alla larga dagli olezzi sconvenienti – indipendentemente da quale bomba si tratti – non costituisce ancora una convenzione sociale da rispettare. Ci vivono in mezzo ancora con naturalezza come piccole bestiole per le quali gli odori corporei più forti altrui rimandano in modo innato alla sicurezza del branco. Una sorta di protezione animale, un tratto utile a far fuggire a gambe levate i più feroci predatori. Da questo punto di vista, anzi di odorato, non sono pochi i colleghi che rimpiangono la FFP2 obbligatoria.

compagni di scuola

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Quando ho cambiato lavoro per fare l’insegnante pensavo che mi sarei trovato in un ambiente composto da persone di sinistra e comunistoni. Vivevo nel mito dei docenti ipersindacalizzati, dell’Unità letta in classe, degli scioperi e delle manifestazioni sotto la sede del Provveditorato e del Parlamento. Non so se invece sia capitato solo a me ma nel mio istituto comprensivo, nel migliore dei casi, c’è gente che si fa gli auguri per gli onomastici e bazzica gli oratori mentre, nel peggiore, ho colleghe che vanno in pellegrinaggio a Medjugorje, partecipano alle veglie di preghiera per Formigoni e postano le news dalla convention di Rimini. In occasione delle festività cattoliche le chat sono tutto un batti e ribatti di gif sacre con citazioni del vangelo annesse e, nei momenti più cupi, è facile che ci si rivolga direttamente al padreterno bypassando le funzioni strumentali, lo staff a supporto della dirigente, il vicepreside, la dirigente stessa, il provveditorato, il ministro dell’istruzione e persino sua santità. C’erano persino i novax, quelli contrari al greenpass e tutto quell’underground della disinformazione lì. Il reggente nominato prima dell’attuale preside era un militante ciellino e, quando era nata l’esigenza di attribuire il nome a un plesso della scuola dell’infanzia che ne era ancora privo, aveva proposto al consiglio d’istituto nientepopodimeno che un cardinale locale. Un prelato che poi, a cercare informazioni in rete, non ne usciva proprio uno stinco di santo. Nella mia scuola non stento a credere che la percentuale che supporta il governo in carica – e che sposa in toto i venti di restaurazione che spirano da qualche tempo – sia elevata, e spero che da voi non sia così. Ma basta leggere gli esiti delle recenti politiche e fare due calcoli per capire che, comunque, un sacco della gente che incontriamo per strada –  e che quindi ci ritroviamo al nostro fianco sul posto di lavoro – sta dall’altra parte. Questo vale anche per le famiglie dei miei bambini. A parte i musulmani e il mio dva cinese, gli altri non sono esonerati da religione e frequentano il catechismo con l’obiettivo di smarcare tutte le tappe dei sacramenti. Lavoro in un piccolo paese di provincia con un elevato tasso di immigrazione dal sud, forse il motivo è quello. Magari chi insegna in città beneficia di più della secolarizzazione.

zucche e meloni

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Oramai il culto del travestimento all’americana, quello della festa di Halloween, per intenderci, in questi tempi di stretta alleanza atlantica si è fortemente radicato e finalmente nessuno più si lamenta della meticolosa stravaganza che si sfoggia in giro e del contrasto con la sobrietà che una celebrazione di morti e santi – secondo le linee guida della religione che va per la maggiore – imporrebbe. Oserei dire che Halloween fa parte della nostra tradizione tanto che i più piccini, che non hanno mai vissuto che cosa si celebrava durante il regime comunista spazzato via dalle ultime elezioni, ben se ne guardano da mettere l’osservanza del rito in discussione né più né meno di un natale o una pasqua qualsiasi. La maestra Fiorella l’ho vista uscire da scuola venerdì con tutti i suoi nanetti di prima con il volto coperto da una maschera a forma di zucca, o meglio jack o’lantern, come si insegna nell’ora di inglese, costruita durante le lezioni di arte insieme alla riproduzione di disegni di pipistrelli, ossa di morto e altri amabili resti macabri a tema. Ma da quello che mi è passato in rassegna sui social non ci si concia più solo da rampolli degli Addams. Negli USA si emulano personaggi di ogni tipo, per questo da noi la kermesse dei cosplayer di Lucca, che si tiene simultaneamente in questo ponte che, pur essendo decadente, per fortuna non crolla, è la più appropriata. Ho visto foto nelle mie timeline di amici, conoscenti e celebrità che seguo truccati e travestiti in modo sorprendentemente realistico, e che ci siano persone che dedichino così tanto tempo e cura per celebrare un culto pagano mi riempie di ammirazione e invidia. Io non saprei da che parte iniziare: sono ignorantissimo in fantascienza, fantasy e supereroi, gli unici fumetti che ho letto sono quelli di Topolino e in più mi trovo già grottesco a sufficienza nella mia versione naturale. Ma non è certo per questo che in classe io, di Halloween, me ne stavo quasi dimenticando. La settimana a ridosso del ponte era agli sgoccioli e mi restavano poche ore a disposizione, così ho pensato di leggere una riduzione di “The Canterville Ghost” in lingua originale, una storia che trasmette un po’ di goticità, in modo che nessuno poi, a casa, potesse avere qualcosa da recriminare sul fatto che, in piena restaurazione, non santifico le feste.

medio

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La regola per ascoltare canzoni in classe proposte da loro è che nei testi non debbano esserci parolacce. Ognuno deve studiarsi bene le liriche del brano che intende condividere con i compagni e con il maestro per sincerarsi che non ci siano passaggi poco adatti al contesto, pena il divieto di scegliere musiche per due settimane. Poi succede che qualche parolaccia salta sempre fuori perché ci sono termini che alcuni – e probabilmente di conseguenza anche le famiglie che hanno alle spalle – non considerano inappropriati. Fottere, per esempio. Abbiamo ascoltato insieme “Soldi” di Mahmood almeno una decina di volte e quando si ripresenta quel passaggio lì la classe si divide tra quelli che si sorprendono che la didattica ammetta espressioni così colorite e quelli che invece non se ne sono mai accorti o, addirittura, non sanno cosa significhi. Anche nella versione non censurata di “Zitti e buoni”, altro tormentone degli scorsi anni, c’è una parolaccia grossa come una casa. Il punto è che toccarsi i coglioni e fottere, nel senso di fregare, sono vocaboli sconci ma per modo di dire. Ai miei alunni, esposti ai peggio turpiloqui in famiglia, tra gli amichetti del parco e sui social, dico sempre che le parolacce fanno parte della nostra vita e che sta a noi capire il contesto in cui si possono o non si possono dire e si possono o non si possono ascoltare. Nell’arte sono all’ordine del giorno. Ricordo loro che quando è il mio turno di proporre canzoni scelgo sempre un brano diverso di Caparezza e anche lui, ogni tanto, qualche parolaccia ce la mette, e quando succede ribadisco quello che penso.

La cosa che mi fa sorridere è che, al netto della loro infima conoscenza della lingua inglese che risente del fatto che – a differenza delle passate generazioni – ascoltano pochissima musica angloamericana, quando qualcuno propone successi non in italiano fanno a gara a segnalarmi che, nel brano trap o rap in questione, ci sono parolacce in inglese. A ogni selezione chiedo anche se il video si può vedere o no, per lo stesso motivo di contesto, e quando mi indicano l’alternativa alla clip ufficiale che quasi sempre è il lyric video, ecco stagliarsi ben visibile un fuck ogni tre o quattro parole.

Fuck è una parola che tutti riconoscono come scurrile ma, se poi chiedi il significato, nessuno ha assolutamente le idee chiare. Sono quindi giunto alla consapevolezza che il modo più efficace di insegnare le lingue straniere sia insultare il prossimo o imprecare tutto il tempo. Proprio per questo dovremmo dare meno importanza alle parole e non condannarle ingiustamente. Non è vero che le parole sono importanti. Quando le scriviamo sono segni che lasciano il tempo che trovano, anche se si dice che restano. Quanto le diciamo durano un millesimo di secondo e, se siete un po’ sordi come me, è facile anche che ve le perdiate, le sconcezze altrui. Qualche giorno fa Nicolò ha mostrato il dito medio ai compagni che non lo volevano in squadra. Mi sono arrabbiato moltissimo perché invece il gesto si impone come espressione della ragione o dell’istinto ma in ogni caso si fissa per sempre nell’idea che gli altri hanno di te. Ho detto a Nicolò, la prossima volta che succede, di mandare tutti affanculo. La parolaccia è un petardo che esplode, ronzano le orecchie ma tutto torna come prima, pochi attimi sono sufficienti.