Io con le lingue sono un vero disastro. Già mi agito a conversare in italiano con le altre persone, potete immaginare il mio stato d’animo al cospetto di uno straniero. Mi fa stare talmente a disagio che ho anche sviluppato e brevettato una nuova fobia, la paura delle lingue straniere, che poi ho scoperto che esisteva già, come tutte le cose che pensiamo di sperimentare o anche solo dire per primi. Il punto è che il nome di questa paura, xenoglossofobia, fa ridere, e non rende l’idea del terrore che si prova quando non c’è verso di farsi capire o, peggio, di comprendere il prossimo. Quindi possiamo chiamarla solo paura delle lingue straniere e basta. Decido io, una piccola rivincita al tiro che mi ha giocato il destino. Ho un bambino spagnolo in classe, da qualche settimana, che parla solo spagnolo. A onor del vero è talmente sveglio che se la cava alla grande, con i compagni e con noi, e in questo breve periodo di esplorazione della nuova vita in Italia ha già imparato diverse frasi. Io, invece, no. Sono al punto di partenza. E non credete a quelli che vi dicono che lo spagnolo è facile e intuitivo. Il mio alunno è peruviano e parla velocissimo e tutto attorcigliato. Io uso Deeplo in classe per tradurgli le cose più importanti e lui ride perché l’intelligenza dei traduttori artificiali non è poi così aggiornata ai bambini di oggi. Ho fatto però il calcolo delle parole che so nella sua lingua e ho capito che non farò molta strada. Posso incitarlo come si sentiva nei cartoni di Speedy Gonzales o far leva sul suo orgoglio cantandogli qualcosa degli Inti Illimani o, al massimo, del Sergente Garcia o di Manu Chao, ma qui le cose iniziano a complicarsi. Non conosce nulla dei miei punti di riferimento musicali in spagnolo e, anzi, quando gli ho chiesto che musica gli piacesse non ha saputo rispondere, ma forse perché non ha capito la domanda.
questione primaria
lombroso
StandardA scuola è successa una cosa che ha dell’incredibile. Qualcuno ha rubato una fotocamera 360 per la realtà immersiva dall’attrezzatura pronta per essere collocata nel laboratorio stem. Siamo riusciti finalmente a organizzare la formazione per i colleghi, la scorsa settimana. Per allestire il set della parte pratica del corso, ho messo in carica i visori e quando ho aperto la scatola della fotocamera dentro era vuota. La scuola è un porto di mare, purtroppo. Quest’estate hanno cablato tutti i plessi del mio comprensivo e a novembre hanno sostituito otto vecchie LIM con altrettanti modernissimi schermi touch. Se ho ricondotto il furto a questi due episodi è perché il dispositivo è talmente anonimo e da addetti ai lavori che solo uno del settore poteva rubarlo. Con tutta la tecnologia consumer che abbiamo a scuola – a partire da tablet e pc – più facilmente rivendibile, la sparizione di apparecchiature specifica restringe i sospetti sulle uniche persone in grado di riconoscere che il contenuto della scatola dalla sagoma di un telecomando non era, appunto, un telecomando. Se poi volete un parere personale, i tecnici che si sono occupati degli interventi nella mia scuola avevano qualcosa di losco ma, come potete immaginare, potrei anche essere stato io. Di certo non i miei colleghi – poco avvezzi alla realtà virtuale e mista – per non parlare dei bambini della scuola, la fotocamera non assomiglia né a un iPhone e tantomeno a un pallone. Mi sono improvvisamente ricordato di chi potrebbe essere il colpevole – uno di quelli che portava su per le scale i proiettori smontati per ammassarli nell’aula ripostiglio dove riponiamo tutto quello che non serve all’istante – proprio ieri pomeriggio, e unicamente perché a Milano esiste Via Lombroso e non so se si tratti proprio di quel Lombroso che matchava facce a tendenze criminali. Ma la vergogna per il rigurgito di pregiudizio che mi è fuoriuscito dai pensieri è stato sovrastato all’istante dal fastidio di ritrovarsi in mezzo alle migliaia di persone convenute nello stesso posto in cui mi trovavo io e per lo stesso motivo. Gli ex-macelli di Via Lombroso erano una delle principali mete delle iniziative del Fuori Salone, aspetto che si evinceva dalla coda all’ingresso che non aveva nulla da invidiare da quella da più di un’ora che avevo dovuto sopportare pazientemente qualche settimana fa fuori dai cancelli dell’Allianz Cloud per la partita di coppa tra Vakifbank e Vero Volley Monza. A Milano siamo in tanti e abbiamo tutti le stesse idee simultaneamente. Posso quindi confermare di esser stato al Fuori Salone non più di dieci minuti. Mi sono allontanato dalla folla, ho mangiato un gelato spaziale alla Gelateria Marchetti e ho trovato rifugio al Coin, dove sono tornate di moda le sedie con le strisce di plastica colorata e persino la gente che non era nata quando c’erano le sedie con le strisce di plastica colorata sorridevano toccando le sedie con le strisce di plastica colorata.
venti
StandardDa ieri in classe siamo in venti, cifra tonda. Fino a due giorni fa eravamo in 19, un inutile numero primo, e non potete capire quante occasioni mancate, per uno che insegna matematica. Nessun esempio a portata di mano per multipli e divisori. E invece avete presente quante possibilità ci sono per imparare le frazioni o formare gruppi di diversa composizione? “Dividetevi in cinque squadre!”, potrò dire d’ora in poi in palestra. Certo, fino alla metà della seconda eravamo in 18 ed era ancora meglio, per via della presenza del 3, e un po’ mi rammarico del fatto che non ci sia nessuna possibilità di arrivare a 24 – il non plus ultra: si divide per due, tre, quattro, sei, otto e dodici – entro il prossimo anno in quinta, anche se il flusso migratorio, che cresce in via esponenziale malgrado le farneticazioni propagandistiche dei fasciofratellistiditalia, potrebbe riservarci delle sorprese. Ne hanno parlato proprio ieri sera al telegiornale.
Comunque vi presento il mio NAI, acronimo che sta per Neo Arrivati in Italia, un ragazzino di quasi 11 anni che ha raggiunto la sua mamma due settimane fa dal Perù. La collega della commissione stranieri me l’ha ufficializzato in corridoio allo stesso modo in cui si chiede in prestito la chiavetta per la macchinetta del caffè. Io credevo che per certe cose ci volesse un minimo di confronto ma poi ho pensato ai chirurghi del pronto soccorso che, in quanto a imprevisti, battono tutti. Era l’ultimo giorno prima delle vacanze, mentre l’inserimento sarebbe avvenuto subito al rientro. Al ritorno dalla mensa c’era già il banco e la sedia in più grazie allo zelo delle collaboratrici che hanno reso finalmente simmetrica la disposizione delle file in aula. I miei alunni mi hanno chiesto dettagli, ma io ne sapevo quanto loro. Fino a ieri, quando NAI è stato accompagnato nella mia quarta dalla bidella.
Il pomeriggio precedente, mentre mi documentavo per allestire una poco credibile slide di benvenuto da proiettare alla LIM, mi è venuto da giocare al gioco del lancio dell’omino giallo di Google Streetview a caso questa volta su Lima che, ho scoperto, è un gioco che non si dovrebbe mai fare con i posti più poveri di quello in cui si vive. Ho viaggiato virtualmente tra le strade sterrate della povertà e l’attesa di conoscere NAI si è trasformata in ansia allo stato puro. Al terrore di comunicare con lui senza capirci – parla solo spagnolo e combinazione la mia fobia più grande è quella delle lingue straniere, cioè vivere una situazione in cui nessuno si sforza di farmi capire cosa dice – si è aggiunto il fattore accoglienza nei confronti di un immigrato a tutti gli effetti. Non solo. Una delle tre informazioni che mi hanno passato è che sembra essere piuttosto chiuso e timido. Le altre due sono che la mamma è qui da un lustro a fare la badante e che l’offerta comprende un fratellino – un po’ più sorridente – che approda alla prima.
Il primo giorno di scuola di NAI non poteva andare peggio, a partire da me da solo che alternavo la presenza in classe con il ruolo di collaboratore tecnico per le prove invalsi della secondaria nel nostro laboratorio di informatica (la rete alla secondaria non regge). In più, l’attività che avevo previsto per rompere il ghiaccio con NAI si è rivelata un vero e proprio fiasco. Delle tre parole in spagnolo sottovoce che ha pronunciato (senza nemmeno togliersi il cappuccio del piumino dalla testa) ho afferrato che gli piace la matematica, così l’ho messo subito sotto con calcoli e problemi (senza testo ma con il disegno) in modo da non forzare con il gap linguistico e consentirli un po’ di tregua con quella specie di esperanto che sono i numeri. Quando l’ho accompagnato all’uscita tra le braccia della mamma prima della mensa – inizierà il tempo pieno solo la settimana prossima – mi ha concesso un mezzo sorriso. Mentre scendevamo le scale gli ho tradotto sul mio smartphone la domanda se si sentisse stanco, dopo quella mattinata nella nuova scuola. Mi ha risposto di sì.
caduta libera
StandardSe avete presente il momento in cui la natura pesta a tavoletta l’acceleratore per far tagliare ai vostri figli il temuto traguardo della prepubertà con il miglior parziale possibile, potete immaginare cos’è un’intera classe intorno ai 10 anni e cosa comporta avere venti bombe ormonali a orologeria da disinnescare per evitare il peggio stipate nello stesso luogo. La primavera della quarta la riconosci dal fuggi fuggi generale di tutte le qualità sulle quali l’insegnante ha costruito l’equilibrio di un insieme eterogeneo di cuori e teste, strappando mocciosi ancora caldi di latte e biscotti Plasmon dalle braccia delle educatrici dell’infanzia e coltivandone talenti e attitudini fino a quel punto. Oggi gliel’ho detto: siete irriconoscibili. Sentono tutti la primavera e in un momento in cui sono estremamente sensibili alla primavera. Ho detto loro che probabilmente sono tutti innamorati, e dai risolini che sono scaturiti, ho supposto di aver colto nel segno.
Quelli bravi sono regrediti di un semestre. Quelli con lo spleen si mettono a piangere per un nonnulla. Quelli che avevano mal di pancia nei giorni di verifica stanno a casa. Quelli permalosi passano all’attacco e spezzano direttamente le matite in segno di ritorsione. I più distratti hanno preso il volo con destinazione iperuranio a cavallo di un unicorno. Chi chiedeva permesso dà gli spintoni. Quelli che in condizioni normali sfoggiavano la memoria di un protista vanno direttamente in trance dopo la prima campanella e non li riprendi più. I più simpatici ti viene voglia di chiuderli in bagno. I meno simpatici pure ma poi gettare via la chiave.
Per una fortunatissima coincidenza ho praticamente detto tutto quello che c’era da dire sugli argomenti del programma e, visto che potremmo salutarci qui e riparlarne a settembre (considerate che la scuola è già di per sé così, aprile e maggio sono poco più che due circoli ricreativi) posso permettermi di puntare sulle attività laboratoriali e tutti quegli approcci dall’altisonante nome in inglese di cui ogni insegnante si riempie la bocca per darsi un tono nelle conversazioni con chi svolge un lavoro normale. Questo, ripeto, è un lusso, perché posso fermarmi per stemperare i costanti impeti di sperimentazione privata e sociale, sdrammatizzare le reazioni fuori controllo o, agli opposti, tentare la rianimazione di un encefalogramma piatto al cospetto di prove che, solo prima di Natale, costituivano una abbordabilissima prassi. Il prossimo anno sarà peggio perché, come guscio di stati d’animo tormentati, al posto facce e corpi da bambini ci saranno entità aliene di difficile classificazione.
Per spaventarli un po’, stamattina gli ho ricordato che a settembre 2024, quindi tra poco più di un anno e mezzo, si troveranno alla secondaria. Mi hanno guardato con la stessa espressione che mi sono sentito in faccia mentre leggevo, qualche giorno fa, un articolo sui 50 anni di The Dark Side Of The Moon. Il pezzo era su una webzine di costume. Ho terminato la lettura e ho osservato sul frigo una vecchia foto in bianco e nero dei miei genitori poco più che ventenni negli anni cinquanta. A fianco c’è quella mia e di mia moglie quando ci siamo conosciuti. Ho pensato che sono entrambe foto storiche, anche se la mia è a colori, e che cinquanta anni corrispondono a mezzo secolo, e a mettere insieme anche solo una trentina di mezzi secoli si arriva quasi alla caduta dell’impero romano di occidente. Più o meno eh, era per darvi una data certa, il 476 dopo Cristo, avrete capito che non è questo il punto.
doppio live
StandardSe c’è in sala qualche non-proprietario di gatti, vorrei chiedergli com’è svegliarsi al sabato e la domenica dopo le sei del mattino. La narrazione che ci facciamo noi che dovremmo avere una sorta di pensione di invalidità – pagata grazie alle decine di migliaia di euro che abbiamo speso in scatolette puzzolenti (spesso vomitate e poi ri-mangiate per poi essere ri-vomitate) e interventi chirurgici presso cliniche veterinarie senza scrupoli – dicevo che la narrazione che ci facciamo noi proprietari di gatti è che tanto, durante la settimana, ci saremmo svegliati comunque con la sveglia mezz’ora più tardi. Ma il sabato, chissà come dev’essere quella sensazione di intorpidimento fisico che non provo più da quando ero giovane e felice non-proprietario di gatti del cazzo in casa, che consiste nello svegliarsi alle dieci del mattino, con il sole già alto e l’hinterland operoso che già impenna con il tosaerba nel giardino delle villette a schiera o fa la coda alle bancarelle del finto mercato contadino.
Questa mattina, poi, ho percepito quel rumore di motore termico in folle che emette la mia gatta di merda per attirare l’attenzione, unito alla sensazione di nasino umido sulle palpebre e sulle guance, proprio prima della scena finale di un sogno pazzesco. Mi trovavo con la mia collega di team a zonzo in un brocantage parrocchiale. L’allestimento era rigoroso, con tutte le cianfrusaglie ordinate per genere su tavoloni centrali, in una enorme sacrestia presa d’assalto da nostalgici curiosi e da antiquari senza scrupoli. Il successo dell’iniziativa mi faceva desistere dall’idea di trovare qualcosa di interessante, laddove qualcosa di interessante per me, anche in sogno, consiste in dischi in vinile e giradischi di valore a un prezzo stracciato. Fino a quando il sogno prende una svolta: in una stanzetta seminascosta noto due contenitori traboccanti di trentatré giri. Malgrado le copertine che riconoscono avvicinandomi non siano di mio interesse – noto un inesistente disco dei Van Halen dal titolo “77”, che a freddo interpreto con il fatto che anche nel sogno non mi venisse in mente un analogo titolo numerico che poi è “1984”, quello di “Jump” per intenderci, e che comunque anche in sogno non acquisterei mai, considerata la mia intolleranza all’hard rock – decido comunque di spulciare tra i vinili. Estraggo dagli scatoloni qualche disco dal prezzo molto interessante che metto da parte e poi ecco la vera perla della spedizione: un doppio live dei Cure risalente al tour di Wish. Ha una curiosa cover gatefold a specchio con un’etichetta adesiva che riporta il prezzo di 29,00 euro, le dimensioni sono circa 10 pollici, e nella parte interna riporta stampate le copertine della discografia della band di Robert Smith esistente al momento della pubblicazione di quel bootleg. Ricorda certe buste delle ristampe economiche di una volta, con il catalogo dei titoli a disposizione.
Noto però uno dei volontari dell’iniziativa di beneficienza sistemare le cose lasciate alla rinfusa dai visitatori durante la giornata. Mi avvisa che, al giro successivo di riordino, il mercatino chiuderà. Mi affretto così alla cassa ma mi accorgo di aver lasciato i vestiti e lo zaino in una cassetta di sicurezza, come quelle dei guardaroba fai da te dei musei, all’ingresso dell’oratorio. Mi precipito di corsa attraversando il cortile per recuperare il portafogli e rivestirmi. Come le scene oniriche delle serie tv più blasonate, l’aria è costellata da una specie di nevischio che non si capisce se sia innocuo come nel sottosopra di “Stranger Things” o tossico come in “Chernobyl”.
Trovo i miei jeans su un appendiabiti e, mentre li indosso stando in equilibrio a fatica (non ero proprio in mutande ma indossavo, al posto dei pantaloni, una specie di tuta bianca di carta leggera che usano quelli che verniciano le automobili), chiedo alle due attempate dame di San Vincenzo che presidiano la reception le chiavi della cassetta di sicurezza che, ovviamente, non hanno. Le chiavi restano ai visitatori come è giusto che sia. Mentre mi allontano le ascolto biasimare gli adulti dei tempi che corrono per l’inadeguatezza della loro capacità di stare al mondo, commentando la mia richiesta. Mi volto e rispondo loro che almeno, ora, nessuno muore più di appendicite, che non so cosa voglia dire e non è nemmeno riconducibile a una sequenza di numeri da giocare al lotto.
Torno di corsa al mercatino perché voglio recuperare in fretta, prima che chiuda, le chiavi della cassetta che deve avere per forza la mia collega, pagare i dischi e tornare a casa ad ascoltare il bottino inatteso di quella giornata, anche se so che in tutto mi costerà non meno di sessanta o settanta euro e che mia moglie avrà da ridire, ancora una volta, sui soldi che spendo in dischi. Non sono ancora rientrato nella sacrestia quando mi assale il dubbio, il vero plot twist del sogno: forse il disco live dei Cure l’ho lasciato nella stanzetta, che è un comportamento sconsigliatissimo nei mercatini, oltre che dal comune buon senso. Se trovate un disco che vi interessa, ricordatevi di estrarlo dal contenitore e proseguire la ricerca tenendolo con voi, anche se non siete sicuri che alla fine lo acquisterete. Se lo rimettete a posto o, come credo di aver fatto io nel sogno, lo appoggiate sopra alla fila di dischi nel contenitore, sicuramente qualche altro interessato se ne approprierà. E, manco a dirlo, succede proprio così: tra i dischi che ho chiesto ai volontari alla cassa di tenermi da parte per precipitarmi a recuperare il portafoglio, il doppio live dei Cure non c’è. Corro nella stanzetta dei vinili ma lo zelante inserviente che mi ha messo fretta ha già riordinato i titoli rimasti fuori posto. Dovrei rimettermi a scartabellare tra le centinaia di copertine – sempre che invece, nel frattempo, qualcuno non se ne sia accaparrato – ma non c’è più tempo. Nelle bancarelle dell’usato difficilmente i dischi sono collocati in ordine alfabetico. Il mercatino chiude e la mia gatta ha fame.
E tutto torna. Mentre, in piedi al lavandino della cucina, cerco di limitare la nausea da puzza di scatoletta alle sei del mattino, riconduco il disco del sogno a quelli che ho cercato – per puro passatempo – in rete durante il corso di formazione online che ho seguito ieri, nel tardo pomeriggio. Fare della formazione è un’arte perché il grafico che riporta la curva dell’attenzione di chi sta ad ascoltare è sacrosanto e comprovato ed è importate aver pronto qualcosa di completamente diverso per ravvivare l’interesse di chi ti segue. Ne so qualcosa io che mi dilungo ben oltre i venti/trenta minuti regolamentari con i miei bambini portandoli allo stremo. E, ironia della sorte, il corso in questione è dedicato al rapporto tra arte e scienza. Ho deciso di iscrivermi perché, tutto sommato, mi sento riconducibile alla categoria degli artisti che detestano la scienza, essendo troppo complicata e faticosa da studiare, figuriamoci da insegnare, cosa che purtroppo sono costretto a fare. Il fatto è che in questi giorni, a scuola, stiamo trattando la riproduzione delle piante, e proprio mentre la spiegavo ho condiviso con la classe la considerazione di quanto questa fondamentale funzione sia un’arte a tutti gli effetti. Pensate a come ci accoppiamo noi esseri umani. Per le piante sarà altrettanto piacevole? La struttura dell’apparato dedicato, la polpa del frutto che protegge i semi ma che è stata pensata così buona per far sì che poi vengano sparsi attraverso le nostre feci, la messinscena delle api che si impiastrano di polline, sono altrettanto appaganti? Ma anziché trattare di queste cose, lo specialista che teneva il corso ci dimostrava l’esatto momento della storia e della filosofia in cui arte e scienza si sono separate, che ha (o è) coinciso con l’esatto momento in cui il corso si è giocato la mia attenzione. Ho aperto una scheda di Chrome e mi sono messo a cercare dischi che vorrei acquistare tra Amazon e negozi di dischi online tra i quali paragono i prezzi. E pensare che i dischi live io nemmeno li compro. Non mi piacciono proprio.
chopin
StandardSiamo riusciti a confermare lo specialista di musica/teatro dello scorso anno, un tipo fuori di testa che ci sa fare con i bambini, ha un metodo efficace e propone una formula inclusiva anche con i casi più complicati. E poi è proprio bravo. Ha dei capelli assurdi e in segreteria lo chiamano “Chopin”. La mia dirigente non è molto d’accordo nell’affidare progetti a specialisti esterni di materie di cui dovrebbero occuparsi gli insegnanti, forti delle loro competenze. Sostiene che se deleghiamo la didattica agli insegnanti madrelingua, agli esperti di motoria e a quelli di musica, noi che ci stiamo a fare, senza contare che si paga tutto due volte. Mi trovo abbastanza d’accordo con lei, ma c’è un vizio alla base dei progetti scolastici. Agli insegnanti della primaria si richiede di essere onniscienti ma, superato il livello delle nozioni standard che bene o male siamo tutti in grado di trasmettere a terzi, è difficile che si trovino concentrate in ogni singolo docente le specializzazioni che richiediamo agli esperti esterni. La formazione entry-level ongoing a cui siamo soggetti non ci renderà mai attori, atleti e musicisti, tantomeno inglesi di nascita. Ci vorrebbero al limite corsi professionali, anni di scuole di teatro, di allenamento e di studio della musica, il tutto a nostre spese. Piuttosto, il messaggio da passare è che i progetti con specialisti verticali esterni sono l’eccezionalità e devono essere considerati come tali. Quello che sa fare Chopin, per dire, non sarei in grado di farlo nemmeno io che ho una preparazione extra in musica non richiesta dalle mie mansioni. Malgrado questo, ogni anno è sempre la solita solfa: si propongono i progetti, si approvano, si pubblica il bando, si procede alla selezione e finalmente comincia il corso anche se, nel frattempo, è quasi primavera. Come tutte le cose, il fuso orario della scuola è diverso da quello del buon senso. Basterebbe proporre e approvare i progetti per il successivo anno scolastico ad aprile, a maggio si pubblicano i bandi, entro la fine di giugno si procede alla selezione e all’inizio dell’anno scolastico si può partire con tutti i crismi. Che poi è anche fuori dal mondo che, ogni anno, per gli stessi progetti, si debba pubblicare un bando. Non avete idea di quante volte nessuno presenta la domanda, non chiedetemi il perché. Non capisco perché, se mi trovo bene con Chopin, non possa confermarlo in automatico fino a quando mi stufo. Quest’anno, per dire, il progetto CLIL inglese se l’è aggiudicato un’organizzazione che ci ha mandato un’insegnante russa che ha vissuto negli Stati Uniti. Dovreste sentire il suo accento cockney come lascia a desiderare.
plastica
StandardC’è certa gente che sceglie la macchina per aspetti come il tettuccio trasparente. Vi confesso che per me è la priorità top, e, davvero, tutto il resto è optional. Il rischio, ora, è che mentre guido – specie se c’è bel tempo – mi venga da stare con il naso all’insù a godermi un punto di vista inusuale sul cielo sereno. Un ulteriore fattore di distrazione, come se non ne avessi già abbastanza, come se già non fosse sufficientemente faticoso combattere contro l’angolo cieco che è quel punto tra parabrezza e finestrino dove amano nascondersi i pedoni quando attraversano la strada e le auto che si approssimano alle rotonde. Ci sono persino detrattori del tettuccio trasparente di altro tipo e sostengono che, quando piove, fa un effetto parete in plexiglass dopo la doccia, avete presente? Ho soggiornato in appartamenti il cui proprietario aveva messo a disposizione, per gli ospiti paganti, uno di quegli attrezzi che usano i lavavetri ai semafori per asciugare le superfici trasparenti del box doccia al termine dell’uso. Non scriverò certo qui, in questo posto in cui mi leggono migliaia di persone, che non mi è mai passato per l’anticamera del cervello l’idea di dotarmi di uno strumento in grado di peggiorare l’esperienza d’uso di una delle abitudini più rilassanti della vita. Chi ha voglia, tutto bello pulito e profumato, di mettersi a fare le pulizie? Dobbiamo però partire da alcuni amari dati di fatto: piove sempre meno e, di conseguenza, al massimo il tettuccio trasparente della mia nuova Yaris raccoglierà i lasciti di qualche volatile. E, le docce, sempre per lo stesso motivo, a breve saranno giustamente dichiarate fuorilegge. Una delle domande che mi fanno i miei alunni durante l’ora di scienze riguarda proprio questo principio: gli insegnanti menano il torrone da sempre con il ciclo dell’acqua e allora come è possibile che di acqua ce ne sia sempre di meno? In quale fase del processo si trova la falla?
Un secondo spunto di riflessione sulla difficile relazione tra plastica è acqua può essere ricondotto alle cartellette con i buchi che si utilizzano nei raccoglitori con gli anelli. Nelle scuole italiane ce ne sono quasi più che bottigliette vuote da mezzo litro di acqua di plastica nel mare, ma impiegati di segreteria e docenti che non si arrendono mai alla dematerializzazione dei documenti continuano ad acquistarne, sui cataloghi di prodotti dedicati alla scuola più blasonati. Saprete meglio di me, tra parentesi, che non è che il personale scolastico può comprare come vuole su Amazon, vero? C’è tutta una procedura da seguire che talvolta si protrae per mesi rendendo l’acquisto, una volta portato a termine, superato.
Comunque l’impiego che si fa di queste cartellette è vario ma, nelle scuole come la mia in cui c’è personale coraggioso che si batte per abolire le fotocopiatrici, inizia a palesarsi un problema di inutilizzo e conseguente surplus. E sono sempre più comuni i cartelli di segnalazione manoscritti dal personale ATA e posizionati in esterno, collocati dentro una cartelletta di plastica con il bordo con i buchi, con l’obiettivo di proteggere il contenuto dell’avviso dalla pioggia. Pioggia che, anche se rara, finisce per introdursi dentro e ad annacquare l’inchiostro dei pennarelli con nuance sorprendenti. C’è anche chi sostiene che i raccoglitori con gli anelli siano pericolosi per gli alunni delle classi più basse, probabilmente qualcuno si è fatto male, in passato, o si tratta solo di una leggenda metropolitana come centinaia di altre che riguardano la scuola italiana.
l’asse nella manica
StandardNon sapevo che il sellino da bici, quello con il buco pensato per evitare problemi a chi percorre lunghe distanze con continuità, si chiamasse comunemente sella antiprostata. Ammetto l’efficacia della semplificazione del concetto, ma è una vulgata che non rende giustizia al prodotto, perché allora un anticomunista è uno che si fa da parte per evitare che un partito di sinistra possa avere dei problemi seri? Non sono un appassionato di ciclismo e, a dire la verità, non sapevo nemmeno che esistessero, ma mi è bastato vedere la bici da passeggio di una delle collaboratrici della mia scuola per capire il motivo per cui una superficie destinata ad accogliere morbidamente una seduta dovesse essere priva della sua parte centrale. Il fatto però che una sella antiprostata fosse montata su un modello da donna mi ha confuso ancora di più, ammetto però che la mia conoscenza limitata della ricerca in campo ciclistico potrebbe essere all’oscuro degli analoghi benefici sull’apparato riproduttivo ed escretore femminile. In realtà, un bidello uomo ora lo abbiamo, finalmente, e anche lui viene in bici al lavoro, ma la sua la conosco benissimo e ha il sellino tutto intero. Le sue colleghe si lamentano un po’ di come pulisce. Dicono che, in quanto uomo, non ha attenzione per i dettagli. Malgrado sia più giovane di me e anche ben piazzato, se c’è da rimettere nei cardini la porta in legno dell’auditorium che qualche buontempone delle medie ha divelto per fare uno scherzo, chiamano ancora il sottoscritto. E proprio mentre mi precipitavo a risolvere questa emergenza ho notato al piano terra la collaboratrice Nunzia, il vero boss della scuola, tutta presa dalla lettura di un tomo piuttosto corposo. La cosa mi ha sorpreso. Nunzia trascorre molto tempo seduta alla cattedra in corridoio, e quando non cerca ricette sullo smartphone si dedica all’enigmistica. Ma, fino a quel momento, non l’avevo mai vista con un libro in mano. Così, quando mi ha mostrato la copertina in risposta alla mia curiosità, ho capito quanto le storie sulla famiglia reale inglese potessero avvicinare tutti alla cultura. Completa il quadro la collaboratrice (Assun)Tina. Lei non sopporta il mio collega di sostegno perché sostiene che faccia la pipì sull’asse del water del nostro bagno e non pulisca mai. Non so come faccia a distinguere la sua pipì dalla mia o da quella del bidello che non usa il sellino antiprostata. Ho confessato però a Tina che io mi siedo come fanno le femmine, e lei mi ha guardato come se la stessi prendendo in giro.
disordinati
StandardLa narrazione che impone che i bambini debbano restare relegati nel loro mondo di unicorni e babbi natale vede entusiasti e detrattori anche tra le fila dei pedagogisti e psicologi dell’età evolutiva più titolati, figuriamoci tra la bassa manovalanza che finanziate con le tasse affinché si badi al babysitteraggio dei vostri figli mascherato da scuola pubblica.
Qualche giorno fa, in mensa, mi si è avvicinata Cecilia. Teneva le mani giunte al petto, come si fa nelle fasi parossistiche delle funzioni sacre. Le ha aperte solo al mio cospetto, mostrando tra i palmi un tovagliolo di carta inzuppato di sangue. “Maestro”, mi ha detto con quell’espressione che sa fare solo lei, siamo in quarta, come se dovesse improvvisamente ruotare la testa di 360 gradi, vomitare a spruzzo la pasta pasticciata e parlare al contrario secondo i migliori cliché dei film horror. “Maestro, mi è caduto un dentino”.
In un istante mi è passata davanti tutta la mia vita precedente come dicono che accada in punto di morte. Ho pensato a quando sedevo ai tavoli degli amministratori delegati per definire insieme le loro strategie di comunicazione o quando intervistavo i rettori degli atenei più innovativi per farmi raccontare le sessioni di tesi di laurea in videoconferenza con le università dall’altra parte del mondo. Un istante solo, e poi sono tornato a quella conversazione surreale, io di fronte a Cecilia e al suo dentino insanguinato. “Vuoi gettarlo via o tenerlo per la fata dei dentini?”, le ho rivolto la domanda cercando di mostrarmi il più serio possibile. “No, voglio tenerlo per la fata dei dentini”, mi ha risposto Cecilia, quasi risentita del fatto che pensassi che esiste al mondo qualcuno disposto a disfarsi di una parte di sé e compiere un sacrilegio di empietà senza confronti. Un immotivato sentimento di irriconoscenza a fronte del massimo di gentilezza che, in quel momento, mi sono forzato a dimostrare.
Mi ha punto sul vivo, così stavo per ricordarle che i denti da latte sono forse l’unica cosa che si separa dal nostro corpo e poi ricresce meglio di prima, una grazia di cui però ci è concessa una sola chance. Ma poi non me la sono sentita di mettere Cecilia di fronte alla realtà dei fatti. Anzi, avrei potuto sottolineare, arriverà un giorno in cui, se perdi un dente, dovrai lavorare diversi mesi per avere i soldi per rimpiazzarlo con uno fittizio. Ah Cecilia, dimenticavo: la fatina dei denti è una balla grande come questa mensa che ti hanno raccontato i tuoi genitori perché, a loro, l’hanno raccontata i tuoi nonni dopo che anche i tuoi bisnonni avevano fatto lo stesso proprio perché, come dicevo sopra, la corrente pedagogica da sempre più in voga è quella che vuole sviluppare una scenografia di realtà aumentata intorno ai nostri figli per rimandare il più possibile in avanti lo scontro con l’amara realtà reale degli adulti.
L’episodio del dentino di Cecilia è accaduto a ridosso della Giornata della Memoria e ha riaperto in me – come accade sempre nei giorni che precedono la ricorrenza da quando faccio l’insegnante – i soliti annosi dubbi. A che età possiamo iniziare a mostrare la ricca documentazione che ci testimonia gli orrori e le nefandezze dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani nei confronti di civili innocenti durante la seconda guerra mondiale? I bambini – quelli che frequentano le sale immersive dei cinema con il dolby surround per seguire complicatissimi film di supereroi intrisi di violenza, effetti speciali e in cui spesso non si va tanto per il sottile nell’ostentare la morte e il dolore – possono impressionarsi se esposti alle fosse comuni traboccanti di corpi straziati nei campi di sterminio? Per tenersi alla larga da situazioni pericolose – mi viene in mente il caso della collega che ha mostrato “Love Actually” a un pubblico di quinta elementare, bambini cioè che probabilmente conoscono già, grazie ai fratelli più grandi e agli amichetti più sgamati, la varietà delle categorie di PornHub – c’è tutta una letteratura pensata da gente più esperta di me e voi per traghettare i più piccoli dagli unicorni e babbi natale agli esperimenti sui corpi degli esseri umani del dottor Mengele.
Cartoni animati e film che declassano gli orrori del secolo breve a uno sfondo sul quale si dipanano storie che, di certo, si svolgono come conseguenza ma in cui le brutture che dovrebbero essere il nocciolo della questione sono ridotte al rango di chiose. Anzi, meno di chiose. Un posto che, peraltro, sarebbe già occupato egregiamente dal “Diario di Anna Frank” se non fosse che, di questo libro, non ne è mai stato tratto un film significativo, per non parlare di una serie Netflix (che, lasciatemi dire, sarebbe un prodotto di sicuro successo). Il passo successivo, voi mi insegnate, potrebbe quindi avere come testo di riferimento “Se questo è un uomo” alla secondaria di primo grado, seguendo una scala di propedeuticità della tragedia. Un palinsesto che svecchierebbe un po’ la retorica della Giornata della Memoria riportandone il focus sul fattore centrale che racconterei così ai miei alunni: l’umanità, a un certo punto della storia, un momento nemmeno troppo distante in cui i vostri bisnonni potevano scegliere da che parte stare, è impazzita, e ci sono tutti i presupposti che accada di nuovo.
In giornate come questa, insegnare materie dell’area logico-matematica può costituire una fortuna ed esimere il docente dall’esporsi in rischiose prese di posizione. La collega di religione ha mostrato un cartone disponibile su RaiPlay (che peraltro avevo già fatto vedere io in seconda), quella di italiano si è occupata di alcune letture sul tema. Io ho preferito riportare i miei alunni con i piedi per terra e ho dato loro un’informazione incontrovertibile: la shoah non è stata una favola, la vita non è affatto bella.
Da lì ho collegato – era l’ora di musica – la storia del “Quatuor pour la fin du temps” per tornare a essere marginale all’orrore dei campi di sterminio e mettermi al riparo da eventuali genitori elettori di Fratelli d’Italia, che facendo un calcolo della percentuale considerando due persone per 19 alunni, nella mia classe dovrebbero essere almeno una dozzina. Il “Quartetto per la fine del tempo” è l’apocalisse in musica, composta da uno che aveva capito come sarebbe andata a finire a ridosso dell’apocalisse degli uomini. Ho proposto quindi l’ascolto di qualche minuto della composizione di Olivier Messiaen. Date le premesse – li avevo già traumatizzati a sufficienza con i più cruenti aneddoti su Auschwitz – non è volata una mosca. I miei bambini – come immagino i vostri – sono davvero sorprendenti. Ho chiesto poi l’impressione che ne avessero avuto e qualcuno ha colto perfettamente lo spirito del brano: un’esecuzione senza tempo (intendevano il ritmo) e, soprattutto, molto disordinata.
dove si balla
StandardMio cugino Piero e io – avremmo avuto dieci o undici anni – avevamo allestito il campo del Subbuteo sul tappeto nell’ingresso della casa dei nonni e ci stavamo dando dentro con le rispettive squadre. Io le acquistavo scegliendole non certo per il prestigio sportivo quanto per la maglietta. Per questo avevo schierato la nazionale del Perù, avrei dato qualunque cosa per poter indossare quella elegante casacca bianca con la banda rossa diagonale. Quella domenica pomeriggio, però, non sapevo di aver condannato i miei mini-calciatori al sacrificio estremo. La vista di nonno Pietro, in quanto a efficienza, era scesa ai livelli del resto della sua testa. Cercando di raggiungere frettolosamente il bagno si era reso protagonista di un’invasione di campo vera e propria e buona parte delle compagini della partita si erano disintegrate sotto la suola delle sue pantofole da casa.
Ho ripensato a quel gigante e alla sua strage involontaria degna di una storiella di Jonathan Swift proprio ieri. Ero in quella che io chiamo aula di musica (un’aula normalissima ma ubicata al secondo piano con tutte le altre aule vuote in cui porto la mia classe quando c’è da fare caciara), seduto come un prof dell’Attimo Fuggente su un banco sotto la LIM, con il pc al mio fianco a mettere su Youtube i brani che i miei bambini a turno sceglievano per ballare. Non avevo notato due flaconi con nebulizzatore di disinfettante sul banco a fianco e, quando inavvertitamente li ho fatti cadere nel cestino della spazzatura sottostante, mi sono spaventato per il rumore inaspettato. I miei alunni si sono messi a ridere, vedendomi così sbigottito e quasi sgomento nel cercare di capire la dinamica di quanto successo. Sono stati loro a spiegarmi l’accaduto e non l’ho presa bene. Com’è possibile che non avessi notato i flaconi dietro di me? Eppure è così. Invecchiare significa perdere pezzi. La mia sicurezza quando guido, mentre cammino e in svariate altre attività banali e quotidiana vacilla, per non parlare del divario tra l’elasticità e la velocità di pensiero e di intuito dei miei alunni rispetto alla mia. Mi sento pieno di dubbi e capita spesso che chieda a loro di dire e fare le cose di cui non ho certezza durante le lezioni, con la scusa di farli partecipare attivamente.
L’unica cosa che continuo a sapere di sicuro è che hanno gusti musicali davvero di merda anche quando si tratta di compilare insieme una playlist per fare quattro salti a scuola. Sto mettendo in pratica un programma che copra varie dimensioni del rapporto con il suono: dopo la musica nella testa e le emozioni che ci fa provare in relazione a quanto abbiamo intorno (un cavallo di battaglia della didattica della musica alla primaria, che poi, a conti fatti, lascia il tempo che trova); dopo la musica nelle mani con quattro sessioni di drum circle in cui ci siamo spellati palmi e dita come forsennati su tamburi anche se, così piccoli, ottenere anche un singolo istante tutti a tempo è impossibile, terminate le vacanze di Natale sono passato alla musica nella pancia e come ci fa muovere, il cui senso era – come direbbe quel trapper con gli occhiali scuri – “fottitene e balla”. Questo perché li vedo, i miei bambini, mentre ascoltiamo la loro musica di merda seduti al banco che smaniano per scatenarsi muovendo le braccia a ritmo o imitando qualche gesto dei loro beniamini.
Detto fatto. Su diciannove c’erano solo due irriducibili a far da tappezzeria, mentre tutti gli altri – maschi e femmine indistintamente – si dimenavano scomposti e forsennati ciascuno con il proprio approccio: chi voleva far ridere gli amici, chi voleva mettere a frutto il corso di hip hop, chi voleva far colpo su qualcun altro, chi si è lasciato prendere dal giusto spirito e si è lasciato andare. Io sorteggiavo il dj che, di volta in volta, proponeva una canzone. Malgrado alcune fossero assolutamente imballabili, la prima lezione non è stata per niente male. Il problema è che i bambini di oggi, lo saprete meglio di me, sono cresciuti dai genitori con la bulimia da sorpresa continua, decontestualizzata e ingiustificata. Per questo, già alla seconda lezione l’esito non è stato dei migliori. L’attenzione si è dispersa già al terzo brano, si sono formati gruppetti di alunni che parlavano o tentavano mosse per i fatti loro, è aumentato il numero di chi non se la sentiva di lanciarsi in pista, con l’aggravante che la scaletta è stata vergognosa.
Non mi ero preparato a questo colpo di scena, visto l’esito della lezione precedente, ma a scuola l’imprevedibilità è all’ordine del giorno e, se fossi un insegnante con più esperienza, dovrei saperlo bene. Così, quando la ruota del sorteggio è capitata su di me, per recuperare l’attenzione e ristabilire le good vibe dell’ambiente ho pensato di mettere qualcosa di coinvolgente, toppando miseramente. Ho scelto un bel pezzo tamarro di David Guetta e Sia di qualche anno fa, dimenticando che “di qualche anno fa”, per gente di nove e dieci anni, significa prima che nascessero e che il tasso di obsolescenza della EDM è elevatissimo. Come se non bastasse, ho confuso il pezzo. Volevo mettere “She Wolf (Falling to Pieces)” ma, nella fretta, ho messo “Titan” che è altrettanto carino ma ha molto meno pathos. Il feeling si è rotto immediatamente e, per tornare a nonno Pietro, mi sono sentito come lui quando ci metteva i suoi 45 giri di liscio nel mangiadischi per farci divertire ignorando che, dopo l’esibizione di Anna Oxa a Sanremo, niente sarebbe stato più come prima.