Allora siamo d’accordo. L’appuntamento è per martedì prossimo alle 14.30, prima ora dopo la mensa. Andiamo in terza B a insegnare lo sturdy a quei mocciosi di otto anni. Tutto perché ci siamo incontrati per una supplenza e ho notato un paio di nanetti arroganti che, nel solito gioco del jukebox, hanno accennato due mosse di breakdance. Si tratta di quello con la coda che – paradossalmente – quando è stato il suo turno di scegliere ha richiesto il “Pescatore” di De André, e il suo compare con i capelli rossi e il ciuffo, quel piccoletto che sembra uscito dalle vignette della Settimana Enigmistica, avete capito, quello dell’ultima fila che interviene sempre senza alzare la mano. Le femmine no, loro sono ancora nella fase dei balli di gruppo che è diventata una vera e propria disciplina a sé all’oratorio che è una cosa che non ho mai capito, quella di insegnare le mosse di “Danza Kuduro” e di “Bomba” ai bambini, con l’aggravante degli ammiccamenti sexy in un luogo frequentato da preti, insomma ci siamo capiti. Ha ballato persino una specie di reggaeton anche la bimba cingalese, per un corto circuito di integrazione e inclusione che non ha eguali. È una tipetta fortissima, ogni volta che la incrocio nei corridoi o in fila all’uscita le chiedo di pronunciarmi tutto d’un fiato il suo cognome da record: 18 caratteri spazi esclusi in un’unica parola. Lei obbedisce sorridendo, sa che mi diverte di brutto e devo esserle simpatico.
Allora ho colto la palla al balzo e ho condiviso l’idea con la loro docente che poi è la collega con cui ci lanciamo in questi esperimenti di classe fuori dalla classe. Lei ha accettato con entusiasmo, non è facile trovare idee fresche per organizzare attività di musica ai bimbi se non hai una formazione didattica apposita, cosa che non ho nemmeno io, sia chiaro. I miei alunni, ormai da un paio di mesi, si sono dati anima e corpo allo sturdy. Marco, che non avrei mai detto in prima che avesse la stoffa della leadership, ha contagiato il suo gruppetto più stretto con la sua passione e poi, grazie allo spirito di emulazione dei pari proprio dell’età, la pratica dello sturdy si è estesa a quasi tutti, a parte le ragazzine più recidive, compresa quella a cui i genitori, estremisti cattolici novax, impediscono persino di festeggiare halloween come tutti gli altri. Nell’intervallo corto e in quello lungo, quando non scendiamo in giardino perché fa freddo o c’è brutto tempo, si mettono in cerchio nello spazio antistante la Lim, scelgono su Youtube le canzoni più adeguate e poi, a turno, vanno in mezzo e si esibiscono con i passi standard di quella specie di Kazačok, il ballo dei cosacchi, o come diciamo noi in Italia dai tempi del Cantagiro e di Dori Ghezzi, Casatschok. Mi soffermo spesso a osservarli, ognuno con il suo stile. Chi è più atletico ma fa sembrare la danza una disciplina della ginnastica. Chi è più goffo. Chi ha meno forza nelle gambe, quindi con i risultati peggiori. Chi invece ha più stile, che poi è solo Marco, ma non glielo dico perché non voglio che i suoi compagni restino delusi. La danza è una questione di personalità ed è bello sentire di potersi muovere liberamente, fuori da ogni categoria.
Il problema è che la musica che fa da base allo sturdy fa cagare a spruzzo a livelli stratosferici e poi il repertorio a loro disposizione è piuttosto limitato. Quindi, alla terza o quarta riproduzione in loop dei successi di Rondo o di “Manzi in Romania”, chiedo a Marco e alla sua crew di eseguire i loro balletti a memoria, senza canzoni di sottofondo. Mi verrebbe da mettere “Roots Bloody Roots” o i Carcass a manetta ma so già che, con l’approccio genuino dei preadolescenti alla contrapposizione con gli adulti, riuscirebbero a deridere anche le cose più estreme che conosco. È impossibile estinguere le emancipazioni culturali devianti delle nuove generazioni, l’unica cosa che possiamo fare è intercettarle per sminuirne la portata trasgressiva, declassarle a componenti strutturali della società per far sentire i giovani non così fuori di testa come gli competerebbe. Nessun alternativo cresciuto nel sessantotto o nel settantasette o negli anni ottanta o nei rave party sopporta di avere qualcuno che lo sorpassa a sinistra con qualche trovata più estrema della sua e certa trap, sturdy compresa, è oggettivamente la cosa più folle mai vista e sentita da sempre.
Ho proposto alla crew dello sturdy della mia classe di far vedere di che pasta sono fatti, trasferendo a quelli di terza B le tecniche delle acrobazie che ostentano nelle loro esibizioni e mettere a frutto il loro talento. La strategia è chiara: diventare insegnanti di qualcosa significa mettersi in una posizione di autorevolezza e non c’è nulla di più antitetico all’autorevolezza come chi pratica la cultura della strada e dei parchetti e delle canne e delle gang della trap, che poi è cultura inconsapevole, nel senso che chi la professa non sa che sta professando una cultura ma pensa di fare delle cose a cazzo. Che infatti sono cose a cazzo ma, in qualche modo, le famiglie e la scuola e gli adulti in genere devono fare qualcosa, altrimenti, le nuove generazioni, le perdiamo definitivamente. Andremo a insegnare lo sturdy in terza B, e i miei alunni sono già gasatissimi.