uomini e donne

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A scuola sono l’unico adulto di sesso maschile. Il corpo docenti, le insegnanti di sostegno e persino il personale ATA è interamente femminile. Le cose vanno un po’ meglio negli altri plessi dell’istituto. In secondaria qualche docente uomo c’è ma, partecipando al collegio docenti plenario, si capisce che siamo mosche bianche. Per me non è un problema, anche perché ci sono abituato e anzi, se devo dirla tutta, mi trovo molto meglio e non scrivo qui le ragioni perché non vorrei banalizzare la questione.

Il tema però diventa spinoso a proposito del contatto fisico con gli alunni. Chi insegna alla primaria sa benissimo quanto sia un mestiere di pancia. Stare in cattedra, spiegare a distanza, farsi rispondere da lontano non è una pratica efficace e non funziona con i bambini più piccoli. I miei alunni si avvicinano per dirmi le cose nell’orecchio, per timidezza perché non vogliono provare la vergogna dei compagni, per ricreare in parte quell’ambiente fatto di spazi intimi invasi che è proprio della famiglia. La mia statura poi, quando mi trovo in piedi, mi costringe a mettere la faccia al loro livello altrimenti non capisco niente e non mi va proprio di essere guardato dal basso verso l’alto. Senza contare che i bambini parlano a bassa voce, io sono sordo, insomma non è per niente semplice.

Le colleghe stringono e sbaciucchiano i loro nanetti per consolarli da una delusione, per gratificarli di un successo, perché sono i bambini spesso a chiederlo. Fino a quando mia figlia era piccola e ne ha sentito il bisogno la avevo sempre addosso. Quest’anno ho una prima e mantenere il distacco è controproducente. Per dire, Marco stamattina non ne voleva sapere di entrare e singhiozzava disperatamente aggrappato alla mamma. L’ho preso in braccio, si è calmato e l’ho portato dentro. In situazioni meno difficili, la mano sulla testa, sulle spalle, battere il cinque, sono pratiche che aiutano a entrare in confidenza. Eppure mi sono posto il problema se, visto da fuori, per un maestro uomo un atteggiamento di natura materna possa essere visto come un’anomalia.

la scuola digitale

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Quando ho superato il concorso per entrare di ruolo nella scuola primaria ho subito pensato a quanto mi sarebbe stato utile il background professionale maturato in venticinque anni nei settori del digitale e al valore che avrei potuto portare in classe. Ho fatto il programmatore, il tuttofare sull’Internet e sui social media, il progettista e sviluppatore di applicativi multimediali e interattivi e persino l’esperto di comunicazione sul web, seguendo tutti i trend dalla nascita della rete fino ad oggi. Durante l’anno che è trascorso dalla pubblicazione della graduatoria alla presa di servizio mi sono documentato e ho approfondito il modo in cui, quella che per comodità chiamiamo anacronisticamente informatica, può migliorare l’esperienza dei ragazzi in aula e a casa, sui libri. Mi sono guardato in giro e sono venuto a conoscenza di progetti interessanti portati a termine grazie all’impegno di colleghi anche molto meno digital del sottoscritto. Ho trovato in rete numerosi esempi che mi hanno ispirato e che ho pensato di applicare sul campo una volta entrato in ruolo. Al momento, però, i casi in cui ho potuto sperimentare l’approccio digitale all’insegnamento non mi hanno soddisfatto appieno. Mi risulta però difficile, al momento, trovare la causa di questo impasse. Probabilmente dovrei parlarne con chi ha più esperienza in questo campo. Ma per avviare un confronto su questi argomenti è utile fare il punto della situazione, o almeno provarci.

In questa fase di boom del digitale non è ancora chiaro se, a scuola, gli strumenti informatici e una forma mentis digital debbano essere il mezzo o il fine. Se sono un mezzo, la questione non è semplice: la tecnologia si evolve a una velocità impensabile per gli addetti ai lavori, figuriamoci per la scuola italiana, figuriamoci per la scuola primaria italiana. Basti pensare alle risorse online che sono disponibili oggi, mentre la mentalità più diffusa è ancora legata ad aspetti obsoleti come software e hardware, installare programmi, se non addirittura utilizzare dvd o cd e stampare materiale. A casa si usano solo dispositivi smart con interfacce touch interconnessi ad altissima velocità e always-on, mentre a scuola si trovano pc e laptop, anche potenti, con relative periferiche, il tutto però ancora legato alla precedente generazione.

Se mi chiedo però tra quindici anni, quando i miei alunni entreranno (si spera) nel mondo del lavoro, quali competenze digitali saranno più utili, è impossibile dare una risposta. Oppure, se non vogliamo pensare al futuro della tecnologia proprio per la velocità con cui essa si evolve, perché continuiamo a intendere l’informatica come un mezzo e non come un fine? Ha più senso insegnare a raccogliere e organizzare i contenuti delle ricerche sui software di presentazione (Powerpoint e simili, offline e online) oppure insegnare a trovare i contenuti e basta, tanto sono disponibili senza soluzione di continuità in rete? Anzi, perché insegnare i contenuti? Perché non superare il concetto del sapere in sé visto che la rete pensa e conosce per noi e noi possiamo fare altro? Per i millennials il sapere è già lì. Portarlo dentro di noi è uno spreco di tempo. Non è meglio concentrarsi su come utilizzarlo e applicarlo?

Nella mia scuola ogni aula è dotata della LIM. Prima di fare l’insegnante, abituato alle tecnologie di collaborazione e comunicazione integrate alle smartboard con cui spesso mi trovavo a lavorare, non avevo capito che le LIM non fossero altro che dei proiettori di quello che si vede sullo schermo del pc, con l’aggiunta della funzionalità touch sulla superficie di proiezione. Credevo che fosse un sistema in cui docente e alunni – dotati di tablet o altro terminale – concentrano in un ambiente virtuale condiviso i materiali e i contenuti delle lezioni e sono connessi tra di loro. Da quando sono in classe mi sono reso conto invece intanto dell’infondatezza delle mie supposizioni, quindi di quanto possa essere utopistico un sistema progettato in questo modo, e spero che una scuola digitale così sia solo frutto della mia immaginazione distorta e che nessuno arrivi mai a pensare di delegare la relazione fisica tra i protagonisti della scuola a una piattaforma di lavoro come quelle che si usano nelle aziende moderne.

Con i ragazzini che ho in classe non riesco proprio a immaginare una didattica basata su strumenti e risorse di questo tipo, e non credo che il problema sia riconducibile ancora al fatto che viviamo in una fase di transizione. Nella mia aula ci sono le cartine geografiche e i manifesti appesi, c’è la gomma pane che devo requisire mentre spiego, ci sono i gessi colorati per distinguere l’ordine dei milioni da quello delle migliaia e persino la linea del tempo appesa alle pareti. Ci sono un branco di bambini cresciuti che si voltano, fanno cadere di continuo astucci e quaderni, si scambiano i bigliettini frutto dei primi turbamenti sentimentali, non riescono a stare seduti composti per più di una manciata di secondi. Proprio non me li vedo con gli occhi piantati su uno schermo touch, magari con gli auricolari, separati dai loro compagni anche solo per litigare, separati dal maestro, dalla finestra verso la quale si voltano in continuazione attirati dal richiamo ancestrale delle vestigia della natura o di quella poca che è rimasta e che comunque ancora fa piovere, fa posare le cavallette e le cimici sulle tapparelle, accende e spegne la luce del sole con le nuvole.

La LIM comunque la uso. Mostro ai ragazzi qualche diavoleria che trovo sul web, i video, i soliti giochini didattici che un’intera generazione di insegnanti affamata (giustamente) di novità ha confuso come porta di accesso per le competenze. Ascoltiamo la musica, leggiamo le slide che mi preparo a supporto delle lezioni, faccio provare ai ragazzi l’ebbrezza dell’interattività: poggiano il dito sulla lavagna touch e succede qualcosa, di certo meno entusiasmante dell’esperienza che provano sulla Playstation, sullo smartphone del papà o sull’iPad da millemila euro che hanno a casa. Ambienti virtuali di apprendimento e cloud costituiscono una bella sfida ma prima non dobbiamo esimerci dal mettere nero su bianco un piano per capire bene in che modo possano essere utili, perché l’approccio basato sulla dimestichezza individuale degli insegnanti lascia il tempo che trova.

In questa fase, e chissà ancora per quanto tempo, il digitale funziona ancora come dimensione collaterale dell’attività in classe. Anche gli esperimenti di classe capovolta o le alternative ai modelli tradizionali che mescolano la multicanalità (passatemi il termine) sono meno che un ibrido. Permettetemi, per chiudere, una metafora che trovo piuttosto calzante: abbiamo applicato dei sensori alla didattica cartacea per informatizzarla, ma ben altra cosa sarà un metodo nativo sul digitale. Ma, a quel punto, chissà se sarà ancora necessario un corpo docente.

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Oggi ho distribuito i pc portatili destinati alle classi raccogliendo le firme al momento della consegna, ho appeso un poster con le puntine e una cartina dell’Italia dal lato politico con le stecche rimuovendo prima i punti metallici a mani nude e una casa gigantesca che ho preparato ieri con il cartoncino in cui incollerò le foto dei bambini mettendoli in posa come se fossero alla finestra, ho letto un’ordinanza di tribunale che dovrò rileggere perché è piuttosto importante, ho preparato un file di Excel, ho cercato una regola che non ricordavo più, ho scritto il mio nome su un libro di esercizi per le prove Invalsi, ho verificato che Zygote funzionasse sulla LIM, ho insegnato a direzionare le lamelle delle tapparelle nuove, ho memorizzato la prassi da seguire per due alunni che possono aver bisogno di medicinali, ho sistemato un orologio da muro, mi sono messo in maglietta perché la temperatura era torrida malgrado le pale in azione sul soffitto, ho connesso una stampante di rete a un pc che non aveva gli accessi giusti, ho piantato due chiodi usando una paletta per l’evacuazione con il nome della mia classe come martello, ho pianificato la distribuzione delle mie materie nell’orario settimanale, ho dato un’occhiata alle prove d’ingresso facilitate per gli alunni BES che faranno insieme a tutti gli altri, ho chiesto a una collega se era possibile pianificare insieme un percorso per immagine che andasse a toccare vari approfondimenti monografici su artisti moderni e contemporanei e lei ha accettato con piacere. Tutto qui.