a lezione di dispiacere

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La cosa che invidio di più alle mie colleghe è quella magia di riuscire a rendere ogni argomento in una favola e che con i bambini di prima si rivela sempre una strategia vincente. Ne ho una che insegna inglese e che indossa un mantello da streghetta per trasmettere il messaggio che, quando si trasforma in questa specie di sé aumentato, la nuova identità comporta anche l’esprimersi in una lingua diversa. La sua classe immagino si diverta molto più della mia, verso la quale semplicemente sposto in basso di qualche tacca il registro didattico, ci infilo una sfilza di trovate (che almeno io reputo) appassionanti ma poi, vedila come vuoi, c’è sempre un insegnante che fa la paternale a dei mocciosi con l’obiettivo di adultizzarli.

Anche il caso della musica può farvi capire la dinamica: in genere in prima è tutto un zecchino d’oro, per non parlare di chi tenta approcci alla musica classica con Ludovico Einaudi e Giovanni Allevi come terapia di relax durante le attività, roba che solo a scrivere il nome mi viene da addormentarmi. Il coro dell’antoniano e le cose su quella fascia lì – ci siamo capiti – risultano sempre efficaci. Si tratta di canzoncine in cui i messaggi – anche quelli più seri e da grandi – passano lisci che è un piacere al target di riferimento. L’effetto serra, il bullismo, i genitori separati, la guerra e la pace, persino chi non si lava e la lotta di classe. Poi ci sono quelli che insistono con il “Carnevale degli animali” e “Pierino e il lupo” che sono belli e tutto quanto ma alla lunga rompono i maroni.

Tra le varie cose che propongo – molto ritmo per insegnar loro ad andare a tempo, qualche canto e un mix tra il solfeggio e la body percussion – insisto molto sull’ascolto/visione dei video musicali. Cerco clip  con storie belle, di senso, magari animate, dei cortometraggi da seguire come se fossero film muti con una colonna sonora sotto. “Paradise” dei Coldplay, per esempio. “Coffee and TV” dei Blur. Trame in cui ci sia qualche aspetto da sottolineare insieme, particolari da notare, finali da commentare, effetti speciali, accompagnati da musica però di qualità. La musica è il fattore imprescindibile. Una collega – che segue anche lei questo modello – mi ha suggerito “Birds” degli Imagine Dragons. Ho assistito alla lezione che ha tenuto con i suoi e l’effetto è stato straordinario. Il video mostra tutti i temi più difficili da trattare con i bambini di quell’età – accettazione della diversità tra i pari, morte della madre della protagonista – ed è in grado di far esplodere le ghiandole lacrimali persino ai bimbi più cinici. Lei poi ha tenuto un vero e proprio dibattito magistrale – è proprio il caso di dirlo – al termine che ha letteralmente conquistato tutta la classe, ha aperto i cuori di tutti, ha portato l’attenzione e l’emozione a livelli top. Ho provato a fare la stessa cosa con i miei ma non è andata altrettanto bene. La mia classe è caduta in uno stadio di depressione perché una storia in cui muore una mamma proprio non si può vedere. Altro che Bambi. E io l’ho gestita di merda perché, fondamentalmente, mi sentivo più depresso di loro.

Ho capito così che per proporsi come guide di stati d’animo come la collega che ti tira fuori tutto quello che provi bisogna essere autorevoli, psicologi, carismatici, sicuri di sé. Io forse vado meglio come intrattenitore, un mattatore un po’ cialtrone che ti fa notare gli elefanti in monopattino che ritrovano la famiglia che poi è una band per suonare insieme, proprio come quella che avevo io. Un DJ per la scuola primaria dietro alla console che tira su i bassi delle casse perché in “Paradise” la linea che scende per lanciare il ritornello pompa di brutto. E pensare che poi i Coldplay nemmeno mi piacciono, tantomeno gli Imagine Dragons.

la leggenda del parka verde con il pelo che, con i capelli bianchi, fa sembrare l’uomo un anziano dimesso

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Leggevo su “The Vision” l’ennesimo dibattito sulla scuola del nord vs scuola italiana su cui vi invito a riflettere soprattutto a proposito degli stipendi degli insegnanti. I detrattori della tesi secondo cui in Finlandia è molto meglio che in Italia riconducono il problema alla qualità dei programmi di quello che si insegna qui, sostenendo che non si può parlare di didattica solo in termini di strutture, digitalizzazione e soldi. A me il mantra che abbiamo la scuola migliore del mondo non mi ha mai convinto: se siamo così messi male, così ignoranti, così razzisti, così retrogradi, così meschini e così abietti è merito di un sistema scolastico che non va affatto bene. E se ce la caviamo così male in educazione civica non è che nelle altre discipline vada meglio. In giro senti solo illetterati e volgari e vedi solo tamarri e cafoni con i jeans strappati. Saremo più solari dei finlandesi, ma in quando a senso civico e a estetica siamo sotto terra.

In questo pessimo scenario noi docenti possiamo dividerci la responsabilità del declino fifty-fifty con la famiglia, altra istituzione che lascia a desiderare in quanto a esempi educativi, per quanto insieme a dio e patria sia l’argomento retorico più in voga come toccasana sociale per una buona fetta di creduloni. E chi crede al potere della retribuzione netta in busta – come me – sa bene come la scuola potrebbe essere molto più appealing per i cervelli spesso in fuga se prendessimo il doppio. Dirò di più. Se avessimo più soldi magari ci presenteremmo in classe con le camicie con le iniziali ricamate sopra come i manager delle aziende. Solo qualche collega delle superiori veste azzimato, in linea con la materia altisonante che insegna. Li vedi al ricevimento parenti con le file di perle e i colletti button down quando non ti concentri sul fatto che noi alla primaria aspettiamo i genitori fino alle otto di sera mentre al liceo c’è l’ora al mattino prestabilita e se non puoi ti attacchi al tram. Non solo. Alla primaria il look è l’ultimo dei problemi perché è fondamentale vestirsi comodo. Siamo tutti in jeans, felpa e sneakers perché con gli studenti di quella statura è tutto un chinarsi in basso, per non parlare di quelli che vomitano lo stracchino in mensa e se ti trovi sulla direttrice del gettito con un capo costoso puoi dire addio all’outfit del giorno. Ci distinguiamo anche quando varchiamo il portone all’uscita per tornare a casa. Lì i genitori ci osservano e se indossiamo abiti che non si addicono al nostro ruolo è bene riflettere anche su questo aspetto. Forse i prof della secondaria dovrebbero essere un po’ come noi maestri: dei tuttologi/nientologi convinti a dismettere il parka verde che ci fa sembrare anziani dimessi e pronti a prendere in braccio (da grandi solo metaforicamente) i ragazzi. I nostri figli arriverebbero alla maturità molto meno preparati, come gli studenti finlandesi, ma sereni con il mondo e, soprattutto, con il futuro.

gli ultimi

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Ai bambini che si buttano in terra, che strappano le tovaglie di carta in mensa, che fanno i buchi con le forbici alle copertine di plastica colorata dei quaderni, che ululano quando fai ascoltare la musica, che fanno volare con un soffio in terra tutti i coriandoli di carta in cui hanno ridotto i rimasugli della scheda che hanno incollato al contrario sul quaderno e che, quando gli chiedi di raccoglierli, non escono più da sotto il banco, che quando li solleciti a mettere via tutto in cartella perché sta per suonare la campanella si muovono apposta al rallentatore, che urlano quando gli chiedi di abbassare il tono della voce. A tutti gli alunni che non sono – tra virgolette – problematici, perché quando sento parlare le colleghe ci sono casi che, se capitassero a me, non saprei davvero da dove iniziare, ma la cui gestione quotidiana è una rottura di maroni perché se fossero figli tuoi basterebbero due tirate d’orecchie ben assestate, roba che a scuola nel migliore dei casi ti sospendono dal servizio e, nel peggiore, ti becchi una testata sul naso dal genitore, e invece è tutta una concertazione fatta di bastoni e carote, pugni di ferro in guanti di velluto, poliziotto buono e poliziotto cattivo, escamotage di ogni sorta con una spruzzata di didattica inclusiva. Ai bambini simpatici come un’emicrania latente, di quelle che c’è sempre e basta un nonnulla per accorgersi della sua esistenza. I bambini che sono come un disco che salta, come l’immagine di una tv digitale che si freeza in pixel senza audio proprio nell’istante in cui attendevi da mezz’ora l’informazione che ti serviva, come una telefonata di lavoro quando hai la pizza appena sfornata nel piatto, come il gatto che vomita appena ti sei coricato dopo una giornata pesante. Quelli cioè che sono cari e belli come tutti gli altri ma che si impegnano – perché sono sicuro che si impegnano – per mettere un po’ di fatica nel mestiere più bello del mondo. A questi bambini vorrei chiedere, in tutta onestà: ma a casa, ai vostri genitori, spaccate la minchia così?

livello superiore

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Ogni tanto penso a come sarebbe se fossi un insegnante della secondaria di secondo grado. Si tratta di una riflessione in cui mi perdo soprattutto quando varco l’austero portone d’ingresso per incontrare i prof di mia figlia ai ricevimenti e saluto, nell’ordine, il custode della scuola con i mustacchi e la statua dell’autore dei Promessi Sposi che, dall’alto della sua autorità e del materiale con cui è stato ritratto, mi fa sentire giustamente una merda. Non so come sia negli altri istituti ma al liceo i prof hanno proprio le facce da prof e non si capisce se le avevano anche prima oppure è una fisionomia che ti viene a forza di far capire le cose agli adolescenti. Voglio dire, molti dei miei compagni di università poi hanno fatto gli insegnanti – dopo lettere non c’era molta scelta – eppure quando ci devastavamo di Martini a 50 lire al bicchiere al bar della mensa alle dieci del mattino non mi ricordo avessero quello sguardo glaciale che oggi sfoggiano ai genitori quando, in aula colloqui, devono fornire spiegazioni sui voti bassi. Il bello del mio umile ruolo di maestro elementare è proprio che non metto voti. O, meglio, li metto quando è strettamente necessario ma sono in un ordine in cui non è ammessa la bocciatura e prima di dare un’insufficienza devi passare attraverso il dirigente scolastico, i tuoi colleghi, i genitori, il sindaco e il presidente del consiglio. Ma comunque, anche se si potesse, me ne guarderei bene. Faccio l’insegnante per insegnare, mica per demolire l’autostima. Se qualcuno non riesce lo aiuto finché non ce la fa. Se non ce la fa gli preparo qualcos’altro. E credo che tutti meritino di crescere con una speranza, anche solo per stare otto ore in classe ad ascoltare gente come me e ad aspettare che si faccia qualcosa di pratico. Ballare. Fare gli esercizi sulla LIM. Contare cose che possono toccare. Correre in bagno in sella a motociclette invisibili. Usare in classe i giochi che si sono portati da casa. Disegnare. Quando incontro i prof di mia figlia – non tutti, eh – mi sembra però di parlare con persone che abitano in una dimensione distante nello spazio e nel tempo e mi chiedo se poi, a casa, oltrepassino la porta del mondo in cui vivono e lavorano i genitori dei loro studenti come me e – con i loro figli, con le loro mogli, con i loro mariti – riescano ad applicare nella pratica le discipline che devono trasmettere durante le lezioni. Oppure no, hanno poi un metodo diverso per affrontare la gioia, il dolore, il caldo, il freddo, la sete, il prurito, la stanchezza, l’odore di chiuso, le ricette più comuni, la spesa, l’ultimo libro del loro scrittore preferito e tutto il resto. La vita, insomma. A me non sembra di essere diverso, quando sono in classe, ma forse con i bambini piccoli è tutto più facile.

giorgino e gli altri riti della classe

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Giorgino è l’amico invisibile di Marco. Me lo ha presentato Marco stesso giovedì scorso appena tutti si sono seduti, ho chiuso la porta e ho acceso la Lim per iniziare la lezione. Ho pensato così di riservare una sedia vuota, quella che solitamente occupa l’insegnante di sostegno, a Giorgino. A chi mi ha chiesto dove fossero i suoi libri e i suoi quaderni ho risposto che Giorgino usa materiale invisibile tanto quanto lui ed è fortunato perché noi insegnanti non possiamo avere la certezza che completi le attività che proponiamo. Marco ha un cognome composto, di quelli formati da azione più complemento oggetto che derivano dalla notte dei tempi e richiamano antiche professioni. Su questo tema ci sarebbe tanto da scrivere, a partire dal veterinario che mi ha regalato i gatti e che si chiama Tagliabue. Marco invece lo ho soprannominato Sempreinpiedi, il motivo è facilmente intuibile. Indossa spesso una felpa con una crew di supereroi di grido e, sotto, una t-shirt con uno di quei personaggi nel dettaglio e secondo me c’è un piano dietro, come se la felpa fosse un menu su cui clicchi e si apre la pagina con l’approfondimento del supereroe che hai scelto.

La prima volta che mi ha chiesto di essere aiutato a togliere la felpa – in classe c’è una temperatura tropicale anche nei giorni della merla – ci siamo inventati il gioco che, rimanendo in maglietta, Marco si trasforma nel personaggio che ha stampato sul petto. Riproduco una specie di sigletta e riesco a creare la suspense. Da allora, ogni mattina, c’è un andirivieni alla cattedra di bambini che vogliono giocare alla metamorfosi. Felpe con l’unicorno che lasciano il posto a effigie di città americane. Divise di noti team calcistici locali che, una volta levate, svelano illustrazioni casuali stampate da catene di abbigliamento fast fashion. Con alcuni capi comprensivi di cappuccio corro il rischio di soffocare i miei alunni, così per sdrammatizzare il momento interpreto la scenetta del bambino che scompare fagocitato da quello che veste e poi torna con noi. Ci sono persino quelli che si vergognano di mostrare l’addome, così chiamo un aiutante a tenere ferma la t-shirt sotto mentre sfilo la felpa.

Infine c’è la questione dell’oro e dell’argento. Ho portato in classe una scatola piena di matite colorate che avevo in casa, appartenute a mia figlia e, come il resto del suo vecchio materiale scolastico, oggetto di culto famigliare. Si tratta di un set di mozziconi di varie marche che comprende anche una matita color oro e una color argento. Ho detto ai bambini che, in caso di bisogno di matite di cui non sono provvisti, possono prendere in prestito quelle comunitarie. Da quando hanno scoperto l’oro e l’argento sembra che non ne possano più fare a meno, così quando ci apprestiamo a completare una scheda in bianco e nero è tutta una richiesta di poter fare gli uccellini color argento o gli alberi color oro. Io cerco di farli ragionare: va bene la fantasia, ma quando mai si sono viste dal vero o in tv cose così?

avversativa a prescindere

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Vittoria inizia ogni frase dicendo “però”. Alza la mano sempre ma solo se non c’è da rispondere a una domanda, però basta che si parli di cose come il vestito per Halloween o la festa di compleanno di qualcuno che alza la mano e quando le concedo il permesso di intervenire si mette di tre quarti e guarda alla mia destra, nemmeno dovessimo fare un’intervista e io fossi il cameraman. Guarda alla mia destra e introduce quello che vuole dire dicendo “però” anche se non vuol prendere le distanze dalle posizioni generali sull’argomento dei suoi compagni di classe, sulla posizione di chi ha espresso il suo punto di vista prima di lei, su quello che ho chiesto o, peggio, su di me tout court. Anche se non è contraria in modo particolare. Vittoria è italiana e mi chiedo dove abbia imparato che ogni tipo di frase debba essere avversativa a prescindere. Se a casa sua si parla così. “Però mi passi il sale?”. “Però metti sul terzo canale che tra poco inizia il telegiornale”. “Però mi accompagni a fare la spesa?”. “Però non trovo l’ombrello e piove di brutto”. Forse il modello linguistico a cui è sottoposta è stato sviluppato seguendo linee grammaticali differenti. Forse a casa di Vittoria vince solo chi si mette di più in contrasto, un ambiente che ha favorito la diffusione di una specie di giungla non tanto dal punto di vista floristico e faunistico quanto delle leggi naturali dettate dall’attitudine alla sopravvivenza. Un vezzo espressivo che sarà difficile da debellare. Però ci riusciremo.

nome punto cognome

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Quando i colleghi mi chiedono a cosa serva avere un indirizzo e-mail ufficiale con il dominio della scuola penso a tutti quelli che si registrano ai portali del ministero o inviano comunicazioni ai dirigenti con indirizzi del calibro di fragolina75@libero.it oppure mischiano il loro nome e quello del partner o, ancora, riescono a storpiare in una manciata di lettere i diminutivi dei nomi più comuni sostituendo vocali e consonanti con lettere dell’alfabeto inglese. L’indirizzo ufficiale della scuola, ottenuto grazie alla Google Suite, conferisce un carattere istituzionale allo strumento di contatto. Finalmente anche gli insegnanti possono avere una e-mail aziendale che non sia su istruzione.it. Se il mio mestiere è quello di offrire un servizio, peraltro pubblico, è giusto che la mia sfera privata non venga coinvolta, indirizzo e-mail compreso. D’altro canto credo sia corretto che l’e-mail, a questo punto, diventi il canale principale di contatto con i clienti proprio come accadeva nelle aziende in cui ho lavorato prima di vincere il concorso da docente. E i clienti, nella scuola, sono le famiglie. Le colleghe mi hanno avvertito: sei pazzo a dare la tua e-mail ai genitori dei tuoi alunni. Non vedo però il problema: se qualcuno si espone a contattarmi sullo strumento ufficiale di comunicazione dell’organizzazione di cui sono dipendente lo fa assumendosene tutta la responsabilità. Scripta manent. E comunque lo trovo doveroso. Da genitore, se devo prendere contatto con un professore di mia figlia cerco l’e-mail sul sito della scuola gli scrivo. Ovviamente lo faccio se c’è una ragione. In caso di abuso, pubblicherò tutto qui, anche perché sono certo che gli spunti di divulgazione saranno motivo di interesse per i miei lettori.

perché si dice mettere le mani avanti

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Gli ostacoli che si interpongono lungo i processi di comunicazione tra bambini e adulti, nel dettaglio tra i vostri figli e me in classe, sono molteplici. Metto le mani avanti, anche solo per entrare nel merito del titolo di questa mia considerazione, e ammetto di essere duro d’orecchi per non dire di peggio. Ma non è solo colpa mia, giuro. La maggior parte dei vostri figli parla come se esalasse l’ultimo respiro quando poi, se c’è da fare caciara, gli indicatori a lancetta sul visore virano indiscutibilmente sul rosso. Quando mi devono dire qualcosa che riguarda qualcun altro che si trova nella direzione opposta alla mia, interponendosi a metà tra il compagno in questione e me parlano rivolgendosi verso il compagno in questione senza tener conto di esprimersi a bassa voce, di avere un vocabolario individuale ancora oltremodo limitato, del fatto che magari intorno è esplosa la gioia collettiva dell’intervallo e che, come ho esordito sopra, il maestro è sordo e conseguentemente la lettura del labiale potrebbe tornare utile. Tenete anche conto che quando alzano la mano (se la alzano) durante lo svolgimento regolare della lezione, l’argomento dell’intervento raramente è contestuale e spazia in una gamma che va da “sai che mio zio si chiama Roberto come te?” a “un giorno la mamma mi porta al Parco Natura e poi mi compra Minecraft sul computer” a “maestro mi brucia il dito” quando magari sto affrontando un numero più alto del dieci, quindi a volte che io non capisca nulla di quello che mi dicono può essere interpretato come una forma di autodifesa, di sopravvivenza e di sicurezza sul posto di lavoro. Chantal, oltre a tutto questo, si mette costantemente le mani davanti alla bocca, per non dire in bocca. Quindi con lei i fattori da decriptare sono, nell’ordine: parla con me rivolgendosi verso qualcun altro con un volume ridottissimo in un linguaggio tutto suo e sgrammaticato con l’aggravante delle mani che, nei rari casi in cui potrei intercettare il labiale, occultano la componente visiva della comunicazione. Vanto record personali con vette di cose ripetute almeno cinque volte, spesso comprensive di un mediatore linguistico che, dal banco vicino, mi dà una mano nell’interpretazione e nella traduzione bambinese – adultico. E avete visto che sono riuscito a non dire nulla sul fatto che i genitori l’hanno chiamata Chantal? Se avessi studiato pedagogia, cosa che avrei dovuto fare per svolgere il ruolo che ricopro, dovrei essere in grado di dare un nome allo stimolo che spinge i bimbi a portare le dita in prossimità dell’apparato fonatorio. Ora lo cerco su Google e poi vi dico.

mandateli a lavorare

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Cinque figli, coppia non sposata, bambini con i capelli lunghi raccolti nei codini, esempi di democrazia diretta in famiglia direttamente impartiti dai genitori, ossessione per i modelli di consumo sostenibili, furgone come mezzo famigliare. Non gliel’ho mai chiesto perché ero l’insegnante di quello di mezzo ma posso scommettere che marito e moglie votino grillista. Avrei visto Leo e il suo clan in una cornice come quella del film Captain Fantastic, avete presente? Così attenti che il padre non si è mai fatto vedere ai ricevimenti tanto la madre, sia per carattere che per stazza, valeva per due. Così fresco di nomina e già con degli ex alunni, e qui mi riferisco a me. Leonardo è passato a salutarmi all’uscita in sella alla sua mountain bike e con uno smartphone su cui lampeggia la scritta “Casa” come chiamata di provenienza in continuazione. La madre, a cui non ricordo mai se do del tu o del lei, ha quello più piccolo ancora da noi e oggi il confronto al cancello all’uscita è stato inevitabile. La secondaria di primo grado può rivelarsi difficile se ti sei abituato a farti i cazzi tuoi nel ciclo precedente. Leonardo non se la cavava malaccio ma se avesse dedicato un quarto del tempo in cui esercitava la sua presunzione a seguire quello che dicevo, avrebbe potuto far fruttare meglio le sue capacità. La madre, manco a dirlo, ha ribadito la sua posizione sul fatto che alla primaria bisognerebbe lavorare di più. Fare più temi. Due temi alla settimana, vorrebbe lei. Perché poi alla secondaria di primo grado arrivano che non sanno scrivere. Mi è venuto spontaneo chiederle se in matematica se la cavi meglio, visto che è ciò che gli ho insegnato. Al momento nessun problema e, anzi, Leo le ha confessato che secondo lui sono fortunati quelli che hanno me, il suo ex maestro, quest’anno, in prima. La madre è la stessa che mi chiedeva più compiti nel fine settimana e, vedendo che non arrivavano, mi aveva fermato per dirmi di farle avere esercizi extra per Leonardo perché i bambini devono lavorare, lavorare, lavorare. Senza velleità polemica, le avevo suggerito di cercare in rete. C’è pieno di operazioni, espressioni, problemi, esercitazioni risolte e corrette. Il fatto è che poi, a casa, occorre seguirli, i bambini. A me piace spremerli il più possibile in classe e poi, nel weekend, lasciarli liberi. Sono appena alla primaria, avranno tutta una vita per diventare come la madre di Leonardo.

tali adulti tali bambini

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Se come me fate l’insegnante di scuola primaria, ecco una situazione tipo che non vi sarà certo nuova. Sto aiutando Carmen a disegnare una cornicetta composta da file di quadratini da due quadretti di altezza e due quadretti di larghezza separati da un quadretto. Visto che non ne azzecca uno le sto segnando i punti da unire come quel passatempo della settimana enigmistica in cui poi alla fine appare un disegno. Le mostro i quattro punti e l’esempio del quadratino a fianco da copiare tale e quale ma Carmen disegna lo stesso un quadratino tutto storto dalle misure approssimate di tre quadretti per tre e mezzo a stare stretti. Siamo già all’intervento drastico perché la spiegazione su quella che sarà la matrice di un ritmo – una volta completata la sequenza di quadratini disegnati con la matita di grafite dovranno colorarli secondo una combinazione di ripetizioni ben precisa – l’ho già ampiamente chiarita alla lavagna. Carmen continua a non capire, in classe ci sono almeno ventotto gradi malgrado le pale che girano sul soffitto oscillando vistosamente, probabilmente ci sono solo due o tre zanzare ma sembrano diecimila perché si posano alternandosi sulla fronte di Carmen e solo il mio esemplare autocontrollo mi impedisce di prendere a manate Carmen sulla fronte un po’ per liberare la classe e me dalle zanzare, un po’ per dare un sussulto a un meccanismo nella testa di Carmen che probabilmente la mia scarsa dimestichezza con i bambini di sei anni ha contribuito a inceppare, un po’ per dare sollievo alla fronte di Carmen che, a forza di punture di zanzare, ora sembra la superficie lunare. Ma non è tutto. Per colmare il gap di altezza tra me e Carmen – a sei anni i bambini sono bassissimi – ho assunto quella postura innaturale degli orientali quando si siedono sulle caviglie che, al netto del mio uno e ottantasei per cinquantadue anni, comporterà uno scompenso di pressione al momento in cui dovrò riconquistare la posizione eretta considerando che Matteo deve allacciare le scarpe, Marco mi vuole dire che ha finito, a Sofia si è inceppata la zip della felpa, Denis continua ad alzarsi malgrado gli abbia detto di stare seduto, Rebecca ha messo il broncio e non prosegue con l’attività perché vuole la mamma, Vittoria vuole abbracciarmi, Raffaele ha mal di pancia e continua a dirmelo, Viola mi chiede quando si farà merenda e la sua compagna di banco di cui non ho ancora imparato il nome vuole invece fare il gioco dei robot che abbiamo imparato ieri, Cecilia mi chiede se ascoltiamo la canzone dell’alfabeto delle cose belle che è di pertinenza della collega di italiano e la cosa mi ha punto sul vivo perché le mie proposte musicali non se le fila nessuno, almeno il cinquanta per cento della classe vorrebbe andare in bagno e meno male che, nell’insieme, non c’è nessuno di particolarmente problematico. Il tutto mentre la bidella entra lasciandomi i volantini della scuola di karate da distribuire ai bimbi, i temperamatite continuano a cadere dai banchi sul pavimento e sembra che ciascuno dei miei alunni ne maneggi almeno quindici per volta, considerando la frequenza. Poi c’è il martello pneumatico del cantiere di fronte con gli operai che stanno ristrutturando la palestra (a settembre, giustamente, mica lo si può fare da giugno ad agosto mentre la scuola è chiusa) con una spruzzatina di urla delle maestre che risuonano nel corridoio, d’altronde con sto caldo mica si può tenere la porta serrata.

Ma se come me fate l’insegnante di scuola primaria, sarete chiamati ad affrontare la stessa situazione anche con attori diversi. Sto connettendo il proiettore di una LIM a un pc con un cavo HDMI che ho staccato dall’equipaggiamento di un’aula che non usa più nessuno ma devo fare il contorsionista con la mano per arrivare all’ingresso posizionato ben dentro un coperchio avvitato ma in tutta la scuola non c’è un fottuto cacciavite (ah, la sicurezza). I colleghi usi a un lavoro di concetto e abituati a quel popo’ di multitaskeria che ho descritto sopra pensano che l’attività manuale sia scollegata dal cervello e invece no e prova ne è che riesco a trattenere perfettamente ogni tipo di improperio, compresi quelli nei confronti delle più diffuse divinità locali. Ecco quindi un elenco esaustivo ma non completo di informazioni che sono tenuto a trattenere malgrado visibilmente immerso nell’evasione di una richiesta di help desk tecnologico: 1. lo scambio di ore tra il giovedì e il venerdì di una delle tre insegnanti di sostegno (nuovissime, dai nomi ancora sconosciuti a parte una che si è presentata con la maglietta di “Unknown Pleasures” ma in una versione su Matera, con mia somma delusione) condivisa con l’altra prima in cui insegno 2. l’elenco dei bambini i cui genitori non hanno ancora portato la delega per il ritiro all’uscita 3. il pc della 4^ A ha il mouse che non funziona 5. il prof di musica della secondaria va in pensione e c’è la festa al termine della programmazione e occorre fare il regalo 6. la chiave della palestra dell’oratorio in cui temporaneamente si svolgeranno le lezioni di motoria dovremo custodirla nel primo cassetto della scrivania della bidella al primo piano 7. Teresa è la persona di riferimento in segreteria a cui inviare la richiesta di sostituzione della lampada al neon 8. qualche dettaglio di vita privata condiviso in amicizia, d’altronde tra colleghi è giusto che ci si spinga oltre un freddo rapporto di semplice conoscenza. La scuola è viva, fatta di carne e ossa. Bisogna metterci la testa. L’avessi saputo prima mi sarei preso più cura della mia.