porcelain

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Quando facevo il copy nel settore della pubblicità, il project manager con cui lavoravo abitualmente intercettò al primissimo ascolto – su mio suggerimento ma resto umile – la portata evocativa di “Porcelain” di Moby. C’eravamo addirittura inventati un soggetto da proporre al nostro principale cliente, un brand che commercializzava emozioni – derivanti dall’impeto, tipico dell’essere umano, di spingersi sempre oltre – forgiate e modellate in orologi sportivi da centinaia di migliaia di lire. Non se ne fece però nulla. Uno dei testimonial storici di quei prodotti ci aveva da poco lasciato le penne proprio per essersi spinto un po’ troppo oltre e “Porcelain” suonava un po’ troppo lugubre per il mondo dell’adv. Era il 2000 o giù di lì, l’album “Play” era stato appena pubblicato e “Porcelain”, che oggettivamente è una delle canzoni pop più evocative al mondo, non aveva ancora raggiunto, nell’immaginario collettivo, anche il primato della canzone più triste al mondo.

Ma il mio pm ed io eravamo nel settore della comunicazione da abbastanza tempo per capire che le emozioni non c’entravano nulla con quel rifiuto. Piuttosto non c’era abbastanza budget a disposizione, un dettaglio che ridimensionò anche il nostro slancio – durato il tempo di una media chiara – di accaparrarci i diritti della canzone per usarla con un altro spot emotional, prima o poi. Eravamo abbastanza morti di fame entrambi, io più di lui che comunque aveva una famiglia benestante alla spalle e, in più, si stava accoppiando con la responsabile comunicazione di uno dei marchi di make-up leader di mercato, ma ci avevamo visto giusto. Di lì a poco “Porcelain” di Moby sarebbe stata scelta millemila volte come colonna sonora di film o come canzone per video pubblicitari e sono sicuro che chiunque di noi ha almeno un ricordo di un’esperienza da rivivere, mentalmente, con il sottofondo di “Porcelain” di Moby.

È per questo motivo che è da allora che vivo nella speranza che mi capiti un’occasione per infilarla dentro a qualche video per confermarmi, come se non lo sapessi già e non fosse di dominio pubblico, che avevo ragione. E, a distanza di quasi venticinque anni, l’occasione si è palesata proprio alla fine di quest’anno scolastico che ha coinciso con la fine del mio primo ciclo scolastico. Negli ultimi mesi ho raccolto una serie di interviste ai bambini della mia classe realizzate con tutti i crismi (telecamera su treppiede e microfono professionale, il tutto in una nuovissima aula tutta insonorizzata che abbiamo allestito grazie al PNRR) e ho montato le loro dichiarazioni – sull’esperienza di fruitori della scuola primaria, sui momenti più belli dei cinque anni, sulle paure per la scuola secondaria di primo grado – un po’ come si fa oggi nei documentari emotional in tv. E, finito il montaggio, ho pensato che “Porcelain” di Moby fosse il commento sonoro più appropriato. Tenete conto che il bello della scuola è che, a differenza del mondo reale, è tutto ammesso – e per fortuna -, a partire dai software craccati fino al download libero di film dal web. Per non parlare del copyright sull’uso delle musiche. D’altronde, trovatemi voi le differenze tra quello che ho realizzato io con un reel di foto che si susseguono a tempo su “Le tagliatelle di nonna Pina”, come fanno certi genitori di mia conoscenza.

Insomma, per farla breve, alla fine il video è venuto piuttosto bene. Almeno, così mi sembrava. Poco più di sei minuti – quasi interamente di parlato – con i bambini inquadrati in primo piano secondo la regola della sezione aurea, sequenze di interventi che si alternano a regola d’arte inframezzate da footage raccolto durante i cinque anni, in cui la musica esplode nei suoi momenti più drammatici, un bel piano di ripresa e svariati fattori che non sempre si vedono in un video di un insegnante di scuola primaria. Il punto è che, se volevo emozionare i bambini, è finita con un saccheggio del loro stato d’animo accompagnato dall’esaurimento delle loro risorse lacrimali, tra attacchi di panico da futuro incerto e abbattimento parziale della smania di crescere.

Al termine del pay off conclusivo – un bel font, scritta bianca su fondo nero – ho preso atto, con sommo sbigottimento, di una classe completamente devastata. Ho cercato di minimizzare, ma era troppo tardi. A due ore circa alla fine della loro esperienza nella scuola primaria, mi trovavo al cospetto delle macerie provocate da uno stato di depressione collettivo. Li ho portati in giardino, confidando nella portata di deconcentrazione che hanno gli spazi esterni in primavera sui bambini, ma niente. Nemmeno il pallone ai maschi ha colmato quella sensazione di nulla cosmico e di buco nero in cui la mia classe era caduta. All’uscita, poi, ci sono stati i soliti festeggiamenti con i palloncini, i coriandoli e le bolle di sapone, ma il mood era fin troppo evidente.

Quanto a me, mi sono commosso molto mentre preparavo il video e ascoltavo a ripetizione le strofe e i ritornelli di “Porcelain”, tanto che, durante la premiere collettiva, oramai il pathos si confermava quasi una routine. Ai primi piagnistei però ho rischiato di scoppiare in lacrime con loro. Poi, compresa la gravità della situazione, la fermezza imposta da ciò di cui ero spettatore ha prevalso e mi sono messo a fare l’adulto. Va da sé che “Porcelain” mi è rimasta addosso tutto il giorno e praticamente tutto il tempo, da allora. La canto con trasporto ed evito persino di parodiare la voce campionata del ritornello, come ho sempre fatto. Domani ci sarà la festa di fine anno e, probabilmente, qualche genitore mi chiederà spiegazioni. Non è un video per bambini, gli dirò. Ditegli di tenerlo, di conservarlo chiuso in una scatola, e di aprirlo e proiettarlo non prima di aver compiuto trent’anni.

luci della ribalta

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Il vero problema dell’insegnamento è che noi docenti siamo legati all’idea di costituirci modello per i nostri allievi. Cioè che, al netto del supporto al raggiungimento dei traguardi delle competenze, che è il nostro diciamo core business, gli studenti ci prendano per esempi di vita. Vi posso assicurare che nessuno dei miei bambini si è ancora presentato in classe con la t-shirt degli Idles, anche se stamattina Elisa indossava la maglietta dei Ramones, quella che conoscete tutti, la più iconica, ma forse perché avevamo le prove generali dello spettacolo di fine anno a conclusione del progetto di teatro/musica con lo specialista, è stato chiesto ai bambini di vestirsi di nero, e a casa di Elisa la maglietta dei Ramones era l’indumento più vicino a un outfit total black da palcoscenico. Che poi la vera maglietta dei Ramones non sarebbe proprio nera nera, piuttosto nera stinta come erano stinti loro. Ma, sfumature a parte, è difficile che dei genitori comprino a ragazzini di 10 o 11 anni una tenuta da Robert Smith da tutti i giorni, quindi per occasioni come queste va bene qualsiasi cosa trovino nei cassetti dell’armadio.

Comunque, tornando al problema dell’esuberanza di personalità dei professionisti della scuola, quell’impeto in cui ciascuno di noi docenti si percepisce come un John Keating pronto a strappare le pagine più reazionarie dei libri di testo e a gratificare ragazzini che salgono in piedi sul banco in senso proprio o in senso lato e traslato, io non sono da meno. E vi confesso che è proprio lo spettacolo che abbiamo messo in piedi, insieme alle altre quinte, a crearmi dei problemi. Intanto perché la trama e l’affidamento dei ruoli penalizza fortemente la mia classe, nell’insieme siamo quelli che hanno meno spazio, e questa cosa mi somiglia tantissimo. Meno spazio ho e più mi sento felicemente vittima e forse questa attitudine al ridimensionamento l’ho trasmessa efficacemente e loro davvero mi hanno preso come modello di tendenza verso il basso.

Non solo. I bambini delle altre quinte sono stati designati per lunghi monologhi e scene ad alto tasso di drammaturgia, mentre noi abbiamo una gag molto veloce, un balletto da tamarri e un finale degno del teatro brechtiano. Per non far loro pesare questa disparità, frutto della smania di protagonismo e di accentramento di alcune colleghe, che addirittura si permettono di mettere in discussione le scelte dello specialista al cospetto degli studenti, una tecnica che mette a rischio la sua autorevolezza, dicevo che per non far pesare loro questa disparità ho puntato sul fatto che salire sul palco alla fine di uno spettacolo è un privilegio riservato alle star. Gli ho portato, come esempio, i concerti, nei quali per ultima è prevista l’esibizione dell’headliner e chi lo precede è solo lì per scaldare la folla per l’atto conclusivo, l’acme, il momento culminante. Gli ho ricordato che quando ho suonato al concertone del Primo Maggio noi abbiamo aperto la manifestazione alle due del pomeriggio, quando la piazza era già bella piena ma la diretta tv sarebbe cominciata un’ora più tardi, e in quell’edizione c’era Sting subito dopo il tg, a coronamento dell’esibizione di decine di artisti sconosciuti come noi.

Vada come vada, è indubbio che non c’è nulla di meglio di un laboratorio teatrale a conclusione di un percorso scolastico di cinque anni, un’esperienza nella quale si esordisce bambini e che si conclude con le mestruazioni e la puzza di crescita. Vederli scorrazzare sotto le luci colorate e la sala al buio, nel silenzio delle prove generali e avvolti nel profumo del legno del palcoscenico, inconsapevoli del fatto che il giorno dello spettacolo la platea non sarà vuota ma ci saranno duecento persone a vederli, trasmette l’emozione forte del tempo che passa e della vita che va. Aspetti che cogliamo solo noi ex genitori di bambini di quell’età, divorati dal rimorso di non poter rivivere certe emozioni da capo, perché su di loro tutto scorre via liscio, senza ieri né domani, in un eterno presente che capire non si sa.

Li osservo provare e mi immedesimo in uno di quei quasi ex bambini, quando saranno evaporate le sensazioni di panico da palcoscenico e l’euforia degli applausi, e mi chiedo se, la sera dopo lo spettacolo, nel loro lettino, magari a seguito di una pizza con tutta la famiglia come premio per la giornata, rifletteranno sul vuoto che li aspetta davanti e l’ignoto che li sta per avviluppare nelle varie declinazioni della crescita, degli affetti, dei cambiamenti, dei dolori, delle passioni, dei dispositivi elettronici che si romperanno e degli ombrelli che dimenticheranno sui treni e del caos della vita. Mi chiedo se ripenseranno a quel turbamento appena provato, tutti in cerchio sul palco a recitare una versione approssimata di quello che sono diventati in quella manciata di anni in cui hanno vissuto, non per loro scelta, in mezzo ad altre persone a grandi linee simili a loro.

E non ho potuto non mettere in relazione questo spettacolo d’addio con un’iniziativa analoga che ha coinvolto una seconda, a cui ho assistito il giorno prima, nello stesso spazio. Esseri umani di una dimensione veramente ridotta, con quell’incertezza in entrambi i ruoli – quello di bambini piccoli e quello di attori – che è poi il principio attraverso il quale inducono gli adulti a prendersi cura di loro, ad accudirli in quanto figli (o bambini tout court) e a insegnargli le cose che sappiamo per aiutarli ad uscirne fuori, da quell’incertezza che ci ispira così tanta tenerezza.

In generale un insegnante non dovrebbe essere troppo sensibile, tendere alla malinconia, metterci troppa passione, caricare le aspettative, portarsi il lavoro a casa, voler cambiare le persone, aspettarsi la riconoscenza da chicchessia. Ogni giornata ha un suo tema, una sua canzone, un colore imprevedibile, un pezzo di sé da portare a scuola e che non è detto che serva a qualcosa.

AAA

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Sto seguendo un corso di formazione tenuto da un collega che ha una visione della lingua italiana tutta sua. Grazie a una sorta di un vezzo dialettale fa terminare alcune parole ubicate in punti strategici delle frasi delle sue spiegazioni con la lettera A, anche se la lettera A non c’è. Quindi è tutto un noa, sia, giovedì alle trea, il fatto chea, cioèa, questa funzionalità dia, perchéa, siete quia e via così. Il punto è che non riesco a concentrarmi sui contenuti perché – il corso si svolge online – mi sono messo a segnarmi tutti i passaggi che, con la lettera A in fondo, suonano più divertenti. Il formatore poi inizia un quarto d’ora dopo l’orario stabilito e, più o meno a metà, va a prendersi un caffè. Ho pensato che sia un modo tutto italiano per gestire questo tipo di attività, non mi ha sorpreso quindi il momento in cui, verso la conclusione, pur parlando di piattaforme di gestione organizzative e didattiche in ambito scolastico, il formatore ha preparato una pizza e ha provato a rifilarci un autoradio con un mattone dentro. Un altro aspetto del suo metodo che non condivido è che lascia troppo spazio a noi e alle nostre domande. Se mi sono iscritto al suo corso è perché voglio ascoltare lui, anzi, luia, e non le farneticazioni di noi discentia che, nell’uso della piattaforma al centro del corso, facciamo un uso discutibilea. Il punto è che i docenti – io in primis – amano parlare di sé e innestano se stessi in qualsiasi narrazione, anche solo per formulare una faq a un help deska. In una classe di bambini o di ragazzini lobotomizzati dai socialcosi si matura poi la consapevolezza che sia naturalea proporre i propri punti di vista senza contraddittorio alcuno. In natura non funziona così. Dici qualcosa e trovi sempre qualcuno che sostiene il contrario e rovina la festa. Per questo non ci vedo niente di male a dire, a questo punto del racconto, che i miei corsi di formazione, quelli che tengo io e che potete cercare sulla piattaforma Scuola Futura – che, per i non addetti ai lavori, è una specie di bric a brac della formazione in cui milioni di insegnanti italiani si improvvisano tuttologi di tutto e si dichiarano responsabilmente pronti alla divulgazione del proprio sapere – sono molto meno divertenti. Parlo per due ore di fila senza sosta e non perdo tempo in Q&A. In più mi mangio le parole, faccio fatica a trovarle e ho questo tono da nevrotico in cui vado velocissimo e chi si è visto si è visto. Ma se devo usare nomi o argomenti di fantasia, per mettere in pratica degli esempi, parlo dei Cure e di Miles Davis. Lo scorso martedì, però, al collegio docenti, una collega dell’infanzia si è congratulata per il mio metodo. Dice che è funzionale e che nessuno si addormenta. Le ho risposto grazie e, dentro di me, ho pensato che potrei brevettarlo. Anzi, di sicuro lo brevetteroa.

kamikaze

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Una delle raccomandazioni che mi sono state fatte quando ho vinto il concorso e ho iniziato a lavorare nella scuola è stata di non diventare uno di quelli che raccolgono gli strafalcioni di alunni, colleghi, bidelli e personale amministrativo e poi tenere un diario, un blog, un profilo social o addirittura scrivere un libro e vendere milioni di copie e fare un pacco di soldi. Tranquilli, cari amici, vi prometto che non ho nessuna intenzione di diventare ricco sfondato. Quello degli errori grossolani costituisce un genere letterario banale, ampiamente sfruttato e che non fa ridere nessuno. È per questo che mi sono sempre rifiutato di pubblicare le foto di alcune scatole che ho trovato nell’armadio del laboratorio di informatica, nemmeno quella su cui qualcuno ha scritto “maus” o quell’altra la cui etichetta in pennarello riporta il contenuto e cioè un “ruter” e non è solo un problema di lingua. Le castronerie informatiche nel mondo della scuola meriterebbero infatti un capitolo a sé, e se potessi occuparmene in prima persona comincerei la storia narrando la leggenda metropolitana, da sempre consolidata nel comprensivo in cui insegno io, secondo cui i file audio mp3 delle prove Invalsi, dopo il primo e unico ascolto consentito, per una certa alchimia soprannaturale non permettono più di essere riprodotte. Stamattina una collega mi ha aggredito verbalmente perché – con un anticipo decisamente ampio rispetto alla campanella e quindi al riparo dal rischio di diffondere un segreto che, Fatima a parte, non ha eguali – ho testato la qualità delle casse della sua aula con l’audio della prova standard del listening di Inglese. Io pensavo scherzasse, poi altri colleghi mi hanno guardato nemmeno avessi bestemmiato. “Sei pazzo”, mi sono sentito dire. “Non lo sai che al secondo ascolto si bloccano e diventano inutilizzabili?”. Ho pensato a quale evoluta tecnologia di crittografia in dotazione al ministero potesse essere in grado di abilitare una funzionalità simile su file scaricati su dispositivi personali, poi ho velocemente passato in rassegna certe farneticazioni istituzionali sul digitale a cui sono quotidianamente esposto nell’ambiente in cui lavoro, ho fatto due più due e, tornato in me, sono scoppiato a ridere. Eppure, un mp3 kamikaze che, al secondo ascolto, si fa esplodere sul desktop potrebbe costituire l’incipit di un best seller di un nuovo genere letterario che coniuga l’intelligenza artificiale a un certo umorismo demenziale tipico di chi, come me, non fa ridere nessuno. Sentite questa: ti va di salire da me a vedere la mia collezione degli audio delle prove Invalsi degli ultimi cinque anni? Li metto con una certa frequenza, soprattutto quando voglio preparare per bene i miei alunni per il test più inutile di tutto l’intero percorso didattico e formativo, eppure funzionano ancora perfettamente. Non se ne è consumato nemmeno un bit.

una volta qui era tutta campania

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Nel quadernone di matematica di Belen sembra che un ordigno sia esploso scaraventando numeri, parole e frammenti di essi alla rinfusa. Anche le figure geometriche hanno tutta l’aria di esser state bombardate: quadrilateri con tetti che crollano e pareti ridotte in macerie, e cerchi che ricordano le poltrone a sacco su cui perdeva l’equilibrio il buon Fracchia. E, tutto intorno, macchie di cancellature, strappi e buchi nei fogli, riconducibili al punto della deflagrazione di cui sopra. Se non fossimo persone che non si lasciano avvincere dal fascino della semplificazione e dei luoghi comuni, potremmo dimostrare che il disordine e l’incuria con cui gestisce il suo materiale riflettono perfettamente la situazione famigliare. Il padre (originario della provincia di Napoli, uno che si mette il gel e non si sa bene che lavoro faccia ma guida un’auto da serie Netflix sulla criminalità e sul profilo Facebook ha impostato una foto con la faccia parzialmente coperta dalla mano con il dito medio – tatuato – alzato verso l’obiettivo, diretto cioè verso il mondo e anche me) e la mamma (nata nel centroamerica e con quel piglio aggressivo di partenza, indipendentemente da quello che le devi comunicare) si stanno separando. Almeno così mi ha fatto comprendere la madre durante un colloquio a metà anno, anche se spesso li vedo recuperare Belen e il fratello, a cui hanno dato un nome altrettanto in linea con l’immaginario Mediaset, insieme.

Nonostante questo, Belen si conferma una delle mie preferite per due, anzi, tre motivi. Il primo è che pratica questo disinteresse totale per la scuola, in linea con i genitori che non credo abbiano mai firmato una delle disastrose verifiche della figlia, con una coerenza encomiabile. È così in tutte le materie e, dalla prima alla quinta, la mia collega ed io non dico che le abbiamo provate tutte ma ne abbiamo provate abbastanza, e quelle che abbiamo provato non hanno avuto alcun successo. Evidentemente, parlo per me, non sono all’altezza di suscitare a lei, e di conseguenza alla famiglia, il benché minimo interesse verso la scuola. Belen se la cava però straordinariamente in due cose, che coincidono con gli altri due motivi per cui la stimo. Intanto in Inglese è tra le migliori della classe, una materia che non studia come le altre ma che coltiva seguendo cartoni e serie tv in lingua e, soprattutto, frequentando l’umanità di TikTok.

Poi sa cantare alla perfezione le canzoni di Geolier. E quando scrivo alla perfezione è perché, oltre a conoscere a memoria tutte le parole dei testi che, come sapete, sono in dialetto stretto napoletano, è in grado di eseguire perfettamente tutte le mosse – principalmente studiate per gli arti superiori e il viso, in quanto pensate per TikTok – che le convenzioni di TikTok appunto impongono all’interpretazione delle canzoni dei cantanti di grido. E ancora, se non fossimo persone che non si lasciano avvincere dal fascino della semplificazione e dei luoghi comuni, legheremmo la sua principale peculiarità, una resilienza a ciò che comunemente riconduciamo al fallimento scolastico fuori del comune, a questo mix esplosivo tra le culture del papà e della mamma.

Forse perché per Belen non costituisce affatto un fallimento, il non aver raggiunto un obiettivo che è uno in matematica, da quando la conosco. La materia prima della sua resilienza fuori dal comune è stare su un pianeta che non è lo stesso in cui abitiamo noi insegnanti, i compagni, in cui c’è un edificio scolastico con le aule e i suoi laboratori. Belen vive in una dimensione parallela in cui queste cose sono invisibili, un secondo pianeta Terra fatto e finito esattamente come il nostro dove però non si studia per acquisire le competenze che poi, nella vita, permettono di vivere indipendenti dagli altri e da tutto. Un secondo pianeta Terra in cui si va in crociera con il papà per dieci giorni così, durante lo svolgimento regolare delle lezioni, senza avvisare nemmeno i docenti. Ma mica per altro, giusto per non farli preoccupare, se l’avessimo saputo prima di certo non le avremmo dato dei compiti da svolgere per non rimanere indietro, anche perché tanto non li avrebbe fatti.

il piacere è tutto mio

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Il percorso affettività che abbiamo organizzato per le nostre quinte ha avuto riscontri che hanno dell’incredibile. Se non sapete di cosa stiamo parlando, con la locuzione percorso affettività si intende una serie di incontri pensati per i bambini ai principi della pubertà condotti da un team specializzato composto da psicologhe e ostetriche e dedicati ai temi legati al sesso, all’amore e a come nascono i bambini.

La mia scuola, come spero la vostra, si rivolge ai consultori pubblici, un vero concentrato di competenze. Da me, una collega ha tentato il golpe proponendo un’organizzazione dal nome Teen Star che basta googlarla per trovarsi nelle pagine dei meeting di Rimini. Per fortuna la mia dirigente e il collegio docenti si sono espressi a favore dell’opzione laica e i superstiziosi oscurantisti, ancora una volta, sono stati giustamente relegati ai loro conciliaboli fantasy. Ma, con i fasciomelonisti al potere e le loro rotture di maroni sul primato bianco italiano cristiano no-vax, i tempi sono quello che sono. Per questo un paio di mamme ha comunque voluto conoscere per filo e per segno il programma previsto dall’iniziativa. Ed è stata proprio una delle loro figlie, nella sessione di Q&A, a chiedere all’ostetrica in che senso, fare l’amore, procura piacere.

Non è il primo progetto che seguiamo quest’anno, e non sarà certo l’ultimo. I docenti sono chiamati a rimanere in classe per ovvie questioni di sorveglianza, ma a me piace comunque restare e ascoltare gli esperti che ingaggiamo per imparare, soprattutto in questo caso e anche perché, in caso di richieste di approfondimenti da parte della mia classe, dovrò cercare di mantenermi in linea con l’approccio delle specialiste. Cosa che sarà impossibile, perché erano così brave da risultare commoventi. Sono riuscite a trattare argomenti delicatissimi con una naturalezza encomiabile. A nessuno dei miei è scappato un risolino, ci sono state domande anche piuttosto scomode alle quali non si sono sottratte e che sono riuscite a evadere perfettamente, come quella che vi ho detto prima.

Ho invidiato moltissimo la bramosia di conoscenza che serpeggiava in classe, un gruppo davvero speciale che non credo mi ricapiterà mai nella mia carriera. Ero seduto in mezzo a loro – dopo essermi accertato che la mia presenza non creasse inibizioni – e captavo quella sete di vita che veniva placata un sorso alla volta. Poi c’è stato un passaggio in cui ho percepito una di quelle emozioni confuse che mescolano esperienze vissute all’istante in corso, ed è stato magico sentirsi immersi nella trasformazione che si stava compiendo intorno a me, anche se è stata questione di un istante, per ritrovarmi di nuovo spettatore come prima che accadesse tutto ciò.

Le specialiste ci hanno lasciato una scatola vuota di latta, quelle che contengono biscotti tipici del nord Europa, in cui i miei alunni potranno mettere le domande in forma anonima. Una trovata efficace dedicata a chi vuole saperne di più ma non se la sente di esporsi. La ragazzina curiosa sul piacere, quella della famiglia ultracattolica, con la sua ingenuità ha invece spiazzato tutti. Almeno me, che vedo tutto dall’altra parte della vita.

out of office

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Se al rientro dal weekend di carnevale la scuola è praticamente finita, a Pasqua e pasquetta, se non fosse che piove sempre – tranne quando siamo costretti in casa per un lockdown – possiamo considerarci già in piene ferie di agosto. Ho allestito un calendario per organizzare al meglio le ultime attività da svolgere con i bambini e lo slalom tra progetti e gite, se fossi uno che patisce il mal d’auto, mi avrebbe esposto a serio rischio sbocco sul file di Google Fogli su cui lo ho preparato. Ho piazzato le ultime esercitazioni (guai a chiamarle verifiche) decisive per tirare le somme dei cinque anni di matematica e, nella manciata di minuti che mi è rimasta libera da qui a giugno, ci infilerò tutto il resto.

Nel corso di formazione che sto tenendo in queste settimane ai miei colleghi, previsto dalle azioni di coinvolgimento degli animatori digitali all’interno del PNRR, ho insegnato ai colleghi a mettere l’out of office con GMail. La tentazione di inviare gli auguri di buona pasqua a tutta la lista per verificare chi ha avuto davvero il coraggio di impostarlo sul serio – la mia era una ironica provocazione – è forte. Le persone che non hanno a cuore la scuola italiana sostengono che, per noi docenti, un risponditore automatico non occorre, intanto perché siamo sempre in ferie e poi perché sarebbe l’unica occasione in cui rispondiamo al mittente come si fa negli uffici seri, cioè appena riceviamo l’email. Invece vi posso assicurare che siamo in tanti a rispondere all’istante come si fa negli uffici seri, soprattutto proprio quando qualcuno – di norma la docente di religione, sicuramente la più coinvolta dalla cosa e la più autorevole nel settore – invia gli auguri a tutti, corredati da gif o immagini in stile buongiornissimo!!1! kaffeeee?? sui gruppi di paese su Facebook, non so se ho reso l’idea. La casella di posta immediatamente si satura di una pioggia di ringraziamenti e saluti incrociati, in un tripudio a metà tra il boomerismo e quel modo di essere digitali tipico degli insegnanti.

In realtà a me spiace non poter salutare tutti, l’ultimo giorno prima delle pause più lunghe. Quando lavoravo in agenzia, l’ultimo giorno, con quello stato d’animo (inesistente altrove in natura) di stupore per l’eccezionalità di non doversi recare al lavoro il giorno dopo e quelli successivi per un causa indipendente dalla propria volontà (la chiusura decisa dall’azienda stessa), alle 18 mi lanciavo in un tour delle postazioni per lasciare il mio arrivederci a dopo le vacanze. Ma eravamo in trenta persone, e con un paio di saluti generici mi era possibile raggiungere tutti.

A scuola questo è impossibile. Siamo cinque volte tanto, distribuiti in più plessi e, nello stesso edificio, su più piani e, ancora, in aule separate e talvolta con le porte chiuse, nel segreto del nostro metodo pedagogico. Un tour di tutto il comprensivo mi esporrebbe alla preoccupazione plenaria sul mio stato di salute mentale. Chi mai lo farebbe? E poi, a dirla tutta, mi sa che domani faccio un salto, tanto le collaboratrici ci sono. Devo sgomberare un magazzino che diventerà un nuovo laboratorio e vorrei installare ChromeOS Flex per recuperare un paio di catorci che, all’ennesimo aggiornamento Windows, non danno più segni di vita. A scuola, volendo, c’è sempre da fare ma non prendetemi per uno di quelli malati di zelo. Mi piace l’atmosfera che si crea nelle aule e nei corridoi durante i giorni di chiusura. Il tempio dell’istruzione svuotato della sua materia prima. Una sensazione che non ha nulla a che vedere con l’andare in ufficio il sabato o la domenica perché c’è una scadenza da rispettare. Quante volte mi è successo. Ecco, a scuola non ci sono scadenze da rispettare, o meglio, non di quel tipo che intendete voi. Si fa sempre tutto tutti insieme e, proprio come in classe, il primo aspetta l’ultimo. E, se nell’attesa si annoia, c’è sempre una cornicetta da disegnare e colorare, per abbellire il foglio.

l’unica mossa vincente è non giocare

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Le celebrazioni previste per la settimana della pace a scuola non si sono concluse con la pace nel mondo, come pensavamo. Ci siamo accontentati di qualche cartellone con una riproduzione approssimativa della colomba di Picasso e, per noi delle quinte, la proiezione in auditorium del film “Wargames – Giochi di guerra”. Ho aderito con moderato trasporto all’idea della collega che ne ha proposto la visione perché, se da una parte il film mi ha consentito di dare continuità a una serie di titoli, già visti con la mia classe, utili a traghettare una certa estetica cinematografica anni ottanta del secolo scorso nel nuovo millennio – intercettando così e ponendo rimedio ai palinsesti poco rigorosi dei genitori dei miei alunni, a malapena adolescenti negli anni novanta e quindi testimoni poco autorevoli del decennio più importante della storia dell’umanità – dall’altra avrei preferito evitare che i bambini riconducessero la mia giovinezza a una sorta di preistoria in cui non esisteva il wifi ed era inevitabile il ricorso al telefono di casa per qualunque tipo di connessione da remoto (anche se il giochino dei toni e delle linguette delle lattine nelle cabine telefoniche potrebbe anche sorprendere qualche millennial appassionato di fantascienza retro).

Il limite del film in questione è proprio la componente tecnologica. Mi sono così adoperato per introdurre la proiezione con un preambolo dedicato all’archeologia informatica per aiutare i bambini (sono pur sempre un mansplainer e, di conseguenza, un techsplainer) a cogliere il senso del film senza soffermarsi troppo sulle macchine e sui monitor protagonisti della storia, anche se non so quanto il film potrebbe essere adattato alla contemporaneità. Bisognerebbe chiedere ai temibili hacker russi dei nostri tempi.

Cecilia, che si è seduta in prima fila, si è addormentata alla prima scena, quella dell’addetto alla stanza dei bottoni che non se la sente di premerli. D’altronde, come biasimarla? In un mondo touch, chi mai doterebbe di un pulsante così ridicolo per distruggere il mondo l’esercito degli Stati Uniti?

Quando però i miei bambini si premurano di farmi sapere – direttamente o indirettamente – di aver trovato noiosa una mia proposta didattica o anche qualcosa che mi piace (ogni volta mi riprometto di fare altrettanto, simulando un attacco di narcolessia mentre mi sfracellano i maroni con i loro interminabili aneddoti su quello che hanno fatto nel fine settimana), mi sento fortemente piccato e mi viene voglia di punire la classe con la proiezione delle filastrocche delle tabelline o con una maratona di edizioni dello Zecchino d’Oro, per far cogliere la differenza tra un insegnante tradizionale che li tratta da mocciosi ebeti e un pedagogista disruptive come il sottoscritto.

E pensare che, proprio il giorno precedente a questa debacle cinematografica, avevo visitato Didacta, la fiera dedicata al mondo della scuola. Il tema dell’edizione 2024 era, come potete immaginare, l’AI in tutte le salse, ma col fatto di aver deciso in extremis di partecipare, i seminari su ChatGPT e i suoi derivati erano già fortunatamente sold out. Restavano solo alcuni workshop di quelli che non se li fila nessuno, a partire da un incontro dedicato alla comunicazione della musica con un panel che puntava sul dualismo tra rock e trap e che mi ha coinvolto così tanto da monopolizzare la sezione dedicata alle Q&A, una cosa che, vi giuro, non è assolutamente da me.

Per il resto, era pieno di gente che si muoveva come automi dentro caschi per la realtà virtuale – una roba che nemmeno i Daft Punk – in mezzo a inquietanti cani-robot e ogni tipologia di automazione che, nelle scuole senza carta igienica e dei genitori che menano i presidi, per fortuna non vedremo mai. Ma il fattore più coinvolgente dell’iniziativa, come sempre, è trovarsi in mezzo a migliaia di insegnanti di ogni ordine proveniente da tutto il sud, cioè, volevo dire da tutta Italia. I docenti, lo sapete, si riconoscono lontano un miglio, quasi più dei poliziotti in borghese e dei carabinieri che vogliono infiltrarsi nella microcriminalità per stanare quelli che vendono gli spinelli ai giovani. E quando noi docenti siamo in gruppo – non necessariamente per partecipare a un collegio docenti – siamo a modo nostro bellissimi. Ho visto colleghi con trolley traboccanti di gadget e brochure proprio come a Natale alla fiera dell’artigianato. Io non ho preso nulla, non ho trovato nulla, ma solo perché non sapevo nemmeno cosa cercare.

AI AI AI

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Se ci fossero delle telecamere di sorveglianza nelle classi (tra parentesi, vedrete che prima o poi le installeranno) e qualcuno chiedesse di visionare le riprese come nelle serie tv poliziesche, anziché scorrerle velocemente per trovare il punto in cui si vede il serial killer, il detective interromperebbe la riproduzione invece sul fotogramma in cui il docente viene colto con una di quelle espressioni del tipo Perché lo faccio? Non vedi che io non ci vorrei stare qui? Che è uno stato d’animo legittimo in ogni professione, per carità, ma che, se hai a che fare con le persone sane o malate, desta legittimi sospetti tra la gente comune perché lascia intendere che se non hai voglia di fare l’insegnante è meglio che tu vada a fare altro. Stesso discorso se fai il medico, perché potresti fare dei danni e anche grossi. Le immagini della telecamera a circuito chiuso mostrerebbero il collega che, per riempire gli ultimi dieci minuti prima della mensa, troppo pochi per introdurre un nuovo argomento, coglie l’occasione per condividere un’esperienza senza precedenti. Il video di “Grace” degli Idles, il singolo del quinto album appena uscito, realizzato con l’intelligenza artificiale applicata sul video di “Yellow” dei Coldplay. Una figata pazzesca. Si vedrebbe l’insegnante scrivere qualche spunto per far riflettere gli alunni: “Yellow” è del 2000, Chris Martin, che è nato nel 77, ai tempi aveva ventitré anni, e il disco “Tangk”, appena uscito, cantato interamente da Joe Talbot nato nell’84, mentre Chris Martin ora ha 47 anni e, cercando le foto su Google, si vede con la barbetta e qualche ruga in più. Com’è possibile che gli Idles abbiano ingaggiato il frontman dei Coldplay per il video della loro canzone e, soprattutto, che sia ancora tale e quale a se stesso ventitreenne? Le riprese continuerebbero quindi con alcuni bambini della classe che alzano la mano per rispondere con i soliti interventi a sproposito – peraltro proprio dietro la cattedra, a fianco dei cartelli “solo aneddoti brevi” e “please clap on the 2 and the 4”, si nota l’avviso “solo cose attinenti, grazie” – e la frustrazione sul volto dell’insegnante, fino al turno di Fatima che, finalmente, capisce di cosa si tratta. La registrazione continuerebbe con il docente che allora propone un po’ di esperimenti con Dell-E per mettersi in gioco con le immagini realizzate con l’intelligenza artificiale, inventando dei prompt spassosissimi e super creativi come “un gruppo di guerrieri etruschi al centro commerciale di Arese” o “Astor Piazzolla che suona il suo bandoneon nella piazzola di un campeggio”, e poi con il tentativo di coinvolgimento dei suoi alunni a fare altrettanto. Si sentirebbero quindi idee come “Lionel Messi senza capelli”, “Marcus Rashford in stile maranza”, “un cane bassotto a forma di salsiccia”, “un gatto sul dorso di un cavallo”, “mio padre” fino all’apoteosi, “un unicorno che fa la spesa” e, per finire, si leggerebbe il labiale del docente sussurrare una cosa tipo “ma andatevene tutti affanculo”.

ci siamo fatti così

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Ci sono cose che hanno del miracoloso, tra le prime che mi vengono in mente c’è questa qui che ho davanti, per la quale schiaccio dei tasti di plastica con delle lettere stampate sopra e miracolosamente la stessa lettera si manifesta su uno schermo, ma anche certe funzionalità del corpo umano, ne parlavo qualche giorno fa introducendo l’argomento che iniziamo ora in scienze. Cellule, tessuti, organi, apparati e sistemi. “Ma ci pensate?” è la domanda retorica che ho posto ai miei bambini. Loro mi hanno guardato come sempre, come quando stanno per chiedermi se possono andare a fare la pipì proprio mentre io sono al momento cruciale del mio TED sul senso della vita. “Maestro posso andare in bagno?” e io, in risposta “Ma ti perdi una parte importante di spiegazione. È urgente?”. Inutile che vi dica come va a finire, le bambine sono già alle prese con il ciclo e non sai mai perché vogliono assentarsi, e allora devi mandare anche i bambini perché non sarebbe corretto e poi, se non li mandi, comunque i genitori si infuriano.

Comunque, tornando alla domanda retorica “Ma ci pensate?”, chiaro che non ci pensano, che non si pongono il problema del miracolo dei mitocondri o del sistema nervoso o dei globuli rossi e tutto lo sbattimento che fanno, non so se avete mai visto i cartoni animati sul corpo umano che, ancora oggi, costituiscono l’approccio pedagogico alle stem più autorevole e diffuso. Si accendono le luci nelle loro teste solo quando si parla di femmine e di maschi e di quello che combinano con i loro apparati riproduttori, per il resto è un tirare ai due intervalli e all’uscita. Non c’è apotema o funzione ricorsiva o progressione armonica che mi trasmetta da parte loro, mi accontenterei anche solo di un impercettibile sollevamento delle sopracciglia, una qualsiasi espressione di “cazzo che bella storia imparare le cose che ci spieghi, maestro, dimmi di più su Kind Of Blue e il jazz modale”.

Non li biasimo. C’era anche la puntata sul ciclo della vita, e probabilmente alla cattedra devo fare lo stesso effetto che fa a me vedere Augias alla tv, i capelli e la parlata un po’ biascicata si somigliano abbastanza, d’altronde anagraficamente sono molto più vicino a lui che a loro. Che poi, alla cattedra, chi ci sta più? La mia collega prefe si siede in cerchio sul pavimento con i bambini ogni inizio settimana e li fa parlare di quello che sentono dentro, per dire. Quando assisto a questi metodi, più efficaci e coinvolgenti dei miei (praticamente tutti) mi ripeto che, quando si presenterà l’occasione ci proverò anch’io, sempre che riesca poi a rialzarmi da terra. Ho un collega che ha qualche anno più di me e che a me dà l’effetto di mio nonno ma sono di parte, sicuramente nessuno, osservandoci dall’esterno, coglie la differenza. Indossa felpe e sneakers colorate che trovo in contrasto con gli spazi vuoti dei molari che gli mancano e i capelli radi e lunghi che porta pettinati all’indietro. Ci siamo scambiati qualche impressione su un nuovo modo di insegnare la matematica ma, mentre mi parlava, non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso e, da allora, ho ripreso a indossare la camicia, perché il collo, quando inizia ad ammorbidirsi – diciamo così – è meglio occultarlo.

L’unico aspetto che mi lega alle nuove generazioni è, paradossalmente, la cosa che so fare meglio nella scuola, cioè risolvere i problemi dei computer, di quello che non funziona dentro e quello che gli sta attaccato. Saremo soppiantati insieme, quelli come me e quei ferrivecchi con cui stiamo affrontando la transizione digitale. Verremo ridotti in briciole come a Ercolano e Pompei, e gli archeologi del futuro ricaveranno i calchi con il gesso di noi nello spazio che lasceranno i nostri corpi sorpresi, con il cacciavite in mano, nell’atto di sostituire le lampade bruciate dei proiettori delle LIM.