ottimi maestri S01E01

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In un presente che vira tra il distopico e l’ucronico a seconda dell’umore dell’autore, Cesira è una bimba che ha appena terminato la scuola primaria e si appresta al grande salto nella secondaria di primo grado. In pieno regime del Partito dei Maestri, lo slogan “la scuola prima di tutto”, con cui è stato imposto il loro potere autoritario, è stato applicato alla lettera sino a cambiare radicalmente il sistema di istruzione in Italia, rivoltandolo come un calzino.

La scuola media dura sempre tre anni ma costituisce un ciclo che è completamente differente dal sistema che lo ha preceduto. Sono tre anni molto pratici e si sta pochissimo seduti sui banchi a rotelle, quelli acquistati a seguito dell’emergenza Covid-19. Cesira si appresta a seguire materie come educazione e igiene alimentare, in cui si sta in laboratorio (quello che i ragazzi chiamano cucina) a imparare quali sono i cibi di stagione, come si preparano le ricette, cosa è meglio mangiare e cosa no e tutti gli abbinamenti per crescere sani. Come si scelgono i prodotti al supermercato e che cosa è importante cercare sull’etichetta.

Poi c’è un’altra materia che ai pre-adolescenti piace molto. Una sorta di economia domestica in cui si imparano tutti i lati pratici della gestione delle proprie risorse. Come si pagano le tasse, come si fanno gli investimenti, simulazione di mutui e lettura dei contratti delle utility, quindi tutto quello che serve per vivere in autonomia. Ma anche i cicli della lavatrice e come tinteggiare le pareti quando si è stufi dello stesso colore. Fare i buchi nel muro con il trapano e mettere i tasselli. Poi si va persino in officina a studiare il codice della strada, imparare a guidare auto e moto e a sporcarsi le mani sul motore. Magari non tutti diventeranno meccanici, però saranno in grado di occuparsi delle operazioni basilari per la cura dei propri mezzi.

Nella scuola di Cesira poi si fa tantissima geografia, sia fisica che politica che umana. Tutti imparano a orientarsi nel mondo tanto quanto nel posto in cui vivono. Per non parlare dei piccoli trucchi per cavarsela nelle situazioni difficili che sicuramente non capiteranno mai, ma nel caso, perché nel frattempo non imparare a dormire all’aperto, accendere il fuoco come i primitivi, riconoscere gli animali, le piante, le stelle e tutto il resto?

Ci sono anche tante ore di sport. Si impara a nuotare, quello è obbligatorio, e una specie di percorso di orientamento fa capire a Cesira e ai suoi compagni lo sport più divertente, quello per cui sono più portati e che possa essere praticato anche con passione.

Le arti, poi, sono al centro delle esperienze dei ragazzi. La musica, innanzitutto, libera dal flauto dolce e dalla musica classica più pallosa, oggi si vive come va vissuta nella contemporaneità e con gli strumenti più appaganti, quelli che ti fanno venire voglia di continuare a suonarli. Sale prove, auditorium per concerti, ballo, danza e ascolti collettivi. E poi pittura, scultura, fotografia, video. Il tutto, naturalmente, si poggia su materie più tradizionali – italiano, lingue straniere, matematica, storia, scienze – utili a fornire una componente teorica e disciplinare al resto delle esperienze vissute.

La prima stagione si chiude senza esami e senza voti, tanto ci sarà già il futuro a premiare i migliori. Se volete, ecco piuttosto un spoiler della seconda: Cesira ha deciso di iscriversi al liceo delle scienze umanistiche, linguistiche e letterarie, una specie di liceo Classico dove però, al posto di greco, latino, matematica, fisica, scienze e chimica si studiano le letterature contemporanee italiana e straniere, si fa scrittura creativa, si impara a usare tutte le dita per scrivere sul pc e a formattare un foglio Word, si studiano le tecniche di comunicazione online e televisive, si fa pratica di giornalismo, sceneggiatura, saggistica, si imparano le lingue, si fa storia del novecento e tantissima attualità. Speriamo che la seconda stagione esca presto e che ce ne sia una terza: siamo tutti curiosi di sapere cosa farà poi Cesira da grande.

boh

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Non si sa niente. Non si sa quando ricomincerà e, se ricomincerà, in che modo ricomincerà. Quanti saremo, dove saremo, in che modo saremo disposti, a quale distanza. Non sappiamo se saremo tutti insieme o metà in classe e metà a casa che ci seguono con il computer. Addirittura, nel caso, se ci seguiranno in streaming o in videoconferenza. Non sappiamo se faremo dei turni e, se li organizzeremo, quali criteri dovremo adottare. Ci dovremo basare su livelli di competenze oppure mescoleremo quelli più indietro – diciamo così – con quelli più avanti? Non si sa chi verrà in classe la mattina e chi al pomeriggio e che cosa faranno gli alunni esclusi dal turno in classe mentre i compagni sono in classe. Poi non si sa se torneremo definitivamente oppure se ci sarà un’altra diaspora preventiva per evitare il picco influenzale e, nel caso, se questa nuova serrata sarà a ottobre, a novembre, a dicembre, a gennaio, a febbraio oppure di nuovo a marzo. Non si sa se manterremo lo stesso assetto scolastico, se ci saranno postazioni nuove e singole, piccoli gusci che proteggeranno i bambini dai bambini e terranno fuori il bello della vita insieme. Non si sa se la mensa sarà in mensa o se i pasti si consumeranno in classe con i collaboratori che li distribuiscono al piano, proprio come negli ospedali. C’è chi propone che i pasti è meglio portarseli da casa. Non si sa se misurare la febbre all’ingresso metterà in crisi i genitori che portano i bambini a scuola anche con trentotto di febbre perché, a casa, non sanno come organizzarsi e, nel caso, come si organizzeranno non potendoli lasciarli a scuola. Serviranno dei libri o basterà Internet? E le attività manuali? E motoria? Non si sa se i docenti, in questi mesi, stanno ripensando metodo, didattica, prove pratiche, organizzazione delle lezioni in funzione del fatto che non si sa niente. Non si sa niente e dobbiamo essere pronti a tutto.

School Vectors by Vecteezy

una foto che spacca

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Noi docenti tuttofare oltre a insegnare, produrre tonnellate di relazioni di fine anno, allestire e gestire piattaforme digitali per la didattica a distanza da soli per tutto il comprensivo infanzia – primaria – secondaria in cui insegniamo, fornire help desk informatico 24x7x366 (viviamo in un anno bisestile) a colleghi che sbagliano, gestire il sito della scuola, aiutare la segreteria con svariati interventi sul registro elettronico, supportare la dirigente in millemila modi, siamo anche creativi e, nei tempi morti, ricopriamo anche il ruolo di grafici.

Quest’anno il Covid-19 ci ha anche tolto la gioia della foto di classe, una cosa a cui non rinuncerei mai per nulla al mondo. E pensare che ci sono persino genitori che invece sono contrari a queste iniziative piccolo-borghesi. Io nelle foto mi metterei sempre in prima fila, insieme ai bambini più bassi, quelli che i fotografi posizionano seduti davanti tanto se li metti in piedi non si nota la differenza. Il giorno prima della foto vado a tagliarmi i capelli e poi mi presento a scuola con la camicia. Quando il fotografo ci dice di stare fermi sorrido così tanto che mi si apre la faccia in due.

Quando è stato il momento della foto di classe e quando è risultato chiaro che quest’anno sarebbe saltata, famiglie e bambini sono andati nel panico e hanno chiesto aiuto. Ho cercato in rete qualche escamotage ma non ho trovato granché. Cercavo un modo simpatico per impaginare i ritratti dei bambini che mi sarei fatto inviare ma non volevo rischiare l’effetto calendario o, peggio, quello delle figurine. Anche se, lo ammetto, l’idea di far indossare ai bambini una maglietta sportiva e poi ricreare una pagina di un album vintage dei calciatori delle edizioni Panini l’ho tenuta in considerazione.

Quindi sono andato sul mio sito di fiducia per la ricerca di immagini vettoriali e ho trovato uno scuolabus. Ho pensato subito al concept: dopo mesi chiusi in casa è l’ora di partire tutti insieme per una gita! Anche perché, come la foto, anche l’uscita didattica è stata rimandata al prossimo anno. Ho chiesto ai genitori le foto dei figli dando precise istruzioni sul modo in cui riprenderli. Naturalmente in pochi hanno letto accuratamente le indicazioni, ma questo lo davo per scontato, comunque ci ho provato.

Ho ricavato un autobus a più piani dall’immagine di partenza e poi ho posizionato bambini e insegnanti al finestrino con Photoshop. Quindi ho mandato il tutto a Snapfish che, per meno di un euro a copia, mi ha restituito ventinove foto 30×20 stampate su carta lucida. Nel frattempo, la collega di arte aveva chiesto ai bambini (e ai genitori) di preparare la cartelletta per contenerle, quelle che i fotografi specializzati nelle foto di classe ti danno insieme alla stampa. Ognuno si è dotato di un cartoncino A3 – piegato in due A4 – sulla cui copertina ha disegnato il tema scelto. Abbiamo chiesto quindi di tagliare di un cm in larghezza la foto (altrimenti sarebbe risultata troppo larga) e alla fine tutto è riuscito perfettamente. Qui sotto vedete com’è venuto il fotomontaggio, ovviamente con foto finte. Speriamo che, il prossimo anno, non ce ne sia bisogno.

i cuore my family

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Nella classe di mia figlia la percentuale di genitori separati e divorziati è impressionante. Non che ci sia qualcosa di male, per carità, non sono certo un pillon qualsiasi. Il fatto è che si creano dinamiche piuttosto curiose dal punto di vista di chi invece ha esperienze di situazioni durature, sia nel nucleo di origine che nel contesto attuale. Mi riferisco ad adolescenti che hanno il papà che vive a trecento km di distanza, la mamma professionista che lavora venti ore al giorno, il fratello che studia all’estero e loro alle prese con un livello di autonomia (tendente alla solitudine) di non facile gestione. Bisogna cioè essere oltremodo determinati per non perdersi quando sei così giovane e i riferimenti li devi trovare dentro di te. Tra i miei alunni le cose vanno un po’ meglio ma in periferia, si sa, abitano ceti più bassi che medi per i quali trovare il tempo e le risorse per mettere in dubbio le scelte di vita è fuori discussione, mentre la scuola di mia figlia – nel centro del centro della metropoli – ha un’utenza di ben altra estrazione con gente che si può permettere di mantenere tutte le famiglie che vuole.

Nella settimana di San Valentino ho scoperto che c’è qualche collega che tratta la questione come si fa nella scuola primaria, cioè con riferimenti ossessivi alla ricorrenza in corso nelle attività didattiche. Il cuore fatto con l’origami di arte, il dettato sui valori del volersi bene di italiano, quanti bigliettini ha ricevuto Giorgia se Luca gliene ha scritti quattro e Leonardo tre in matematica, la storia del santo dell’amore in religione e così via. Io sono in prima e voglio rimandare i giochi dei fidanzatini almeno alla quarta, quindi ho mescolato le carte e ho parlato dell’amore per i genitori (indipendentemente da quanti, quali e di che sesso siano), per sorelle e fratelli, per i nonni e per gli animali domestici, ovvero quell’insieme di persone e cani e gatti che sta intorno ai miei alunni e che compone la loro famiglia, approfittandone – per esempio – per scoprire insieme come si scrivono i loro nomi e come si traducono i componenti della famiglia in inglese.

In musica, invece, l’assist me lo ha fornito Daria, una delle mie preferite (e lo so che non si dovrebbe). Daria ha una sorella maggiore, Giovanna, che ha finito la primaria lo scorso anno. Non era nella mia quinta ma avevo avuto a che fare con lei perché nel corso di una supplenza di musica aveva proposto l’ascolto di una canzone di Vasco. Il motivo? Vasco è il cantante preferito dai genitori e, insieme alla figlia, hanno già partecipato a più di uno dei sui interminabili concerti. Stamattina Daria, in un’analoga attività, ha confermato il quadretto proponendo, come sua canzone preferita, un altro brano del rocker nazionale. Ho preso la palla al balzo e ho condiviso con il resto dei suoi compagni tutta la storia: un nucleo famigliare fortemente unito anche nella musica. Peccato che a me Vasco non piaccia per niente. Ho però fatto finta lo stesso di apprezzarne le canzoni mimando con sentimento l’atmosfera rock che si era creata. D’altronde non avrei mai rovinato quel momento perfetto per parlare d’amore per nulla al mondo.

non è straordinario?

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Tra i mesi di gennaio e il primo scorcio di febbraio ho accertato una media di cinque o sei bambini assenti al giorno in classe, con punte di dieci. Solo oggi, per la prima volta da quando ci siamo salutati prima delle vacanze di Natale, in aula c’era un solo banco vuoto. Le assenze alla primaria, e soprattutto tra i più piccoli, sono un problema diverso da come un non-addetto ai lavori se lo immagina. Per gli insegnanti è preferibile non spiegare cose nuove mentre, dall’altra parte, i genitori spingono per tenerli il più a lungo a casa possibile per permettere ai loro figli di rimettersi completamente. Elisa, per dire, si è sparata due settimane di polmonite, è rientrata a scuola ma tempo due giorni si è beccata l’influenza di quest’anno e non l’ho più vista per un bel po’.

Sono state in molte le mamme che mi hanno contattato via mail (sono considerato un folle per aver dato la mia mail – quella con il dominio della scuola, che è una mail di lavoro a tutti gli effetti – ai genitori) per avere i compiti oppure il lavoro svolto in classe per evitare che il figlio rimanesse indietro. A me la cosa ha fatto sorridere perché in prima non è che un giorno si spiegano le equazioni di secondo grado e la settimana dopo inizi con la parabola. Il programma è sin troppo entry level per un contesto di seienni che sapevano già contare e fare somme e sottrazioni in autonomia dalla scuola materna. Comunque, per intercettare il timore delle famiglie che i bambini con la febbre rimanessero indietro (il vero demone della didattica), ho mandato qualche scheda con un po’ di operazioni per mantenere i cervelli con trentanove di febbre in allenamento.

Parallelamente ho fatto di tutto per portare avanti i quaderni dei bambini malati copiando le attività o tagliando e incollando le fotocopie delle schede svolte in classe (se siete quelli che “il profumo della carta” la scuola è il lavoro che fa per voi). Il fatto è che con sei o sette alunni assenti e relativi quaderni da aggiornare, dedicarsi a questo tipo di attività non risulta così fluido durante le lezioni ed è facile immaginare il perché, considerando la richiesta incessante di attenzioni che mi viene richiesta.

Questo solo per farvi pesare il fatto che:
– ho trascorso una buona parte del pomeriggio per mettere in pari i quaderni dei miei alunni che finalmente sono rientrati
– c’è voluto più di quanto avessi previsto
– e soprattutto l’ho fatto nel tempo libero.
Lo straordinario – nel senso di lavoro non pagato – è in realtà un fattore ordinario, nella scuola.

Ma c’è un vizio di forma: dovendo trascorrere non più di quattro ore al giorno sul campo, in un mondo in cui tutti dicono di lavorare otto ore, il senso di colpa del docente (al netto dei tre o quattro o cinque mesi di ferie l’anno di cui la credenza popolare si riempie bocca) impone al pedagogo professionista che è insito in lui di ricorrere alle ore in cui non fa lezione per sbrigare tutte le altre faccende collaterali. Una fetta di tempo che a chi lavora in ufficio, in negozio, in giro a vendere, in fabbrica eccetera viene riconosciuta con salari adeguati. Più sostanziosi, se rientrano nelle ore previste dal contratto. Come extra, negli altri casi. In realtà lo straordinario, nell’agenzia in cui lavoravo prima, non mi è mai stato riconosciuto nemmeno lì, ma lo stipendio era indiscutibilmente più consono al tempo che dedicavo alla causa.

Nel mio mondo ideale entro a scuola alle 8 ed esco alle 17:00, pausa pranzo compresa. Alterno le mie ore in classe a ore che trascorro nell’ufficio – un bell’open space con il calcetto e quelle fantastiche postazioni in cui ti metti dove capita – a preparare lezioni, organizzare materiale, correggere i compiti, incollare schede sui quaderni degli assenti, ricevere genitori e alunni, programmare con i colleghi. Stessa cosa per i mesi estivi, in cui c’è da preparare l’anno successivo, ci sono i corsi di recupero da tenere a chi ha debiti da recuperare, ci sono attrezzature da controllare ed eventualmente da sistemare, oltre alle quattro settimane di ferie che mi spettano. Il tutto almeno a duemila euro al mese, come è giusto per un mestiere in cui hai una ventina di bambini sotto la tua responsabilità. Questo si che sarebbe straordinario.

torna presto

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John è uno dei miei alunni più enigmatici e divertenti. È di origini cinesi ma è nato qui. Ha genitori giovanissimi, molto attenti e colti ma anche piuttosto impegnati: la mamma tiene le fila di tre figli e il papà viaggia spessissimo per lavoro. Hanno persino assoldato un babysitter italiano che lo accompagna e lo viene a prendere a scuola. Per i suoi sette anni gli hanno regalato le Geox con il display a led che visualizza una scritta personalizzabile sul bordo della suola che, se ve la devo dire tutta, se ci fosse in commercio il 46 me le comprerei anch’io e ci scriverei il mio motto, “give synth a chance”. In matematica potrebbe già affrontare il programma di quinta ed è così pignolo che mi corregge se non scrivo bene lettere e numeri alla lavagna. A volte mi guarda e si muove come un fumetto e io lo assecondo imitandolo perché mi sembra un ottimo canale di comunicazione tra insegnante e bambino. Se ci sono io durante l’intervallo viene a farmi sentire come fa esplodere il cellophane della merendina confezionata. Alcuni si spaventano per il botto ma la colpa è mia perché sono stato io a iniziare quel rito rumoroso. D’altronde lo faccio anche a casa e mi scordo sempre che poi in classe occorre trattenersi per non dare il cattivo esempio. Ciò non toglie che sia un’azione decisamente appagante.

John è a casa da una decina di giorni. Siamo nel pieno dell’influenza e non abbiamo badato molto al fatto che fosse assente. Ho avuto giornate con meno di dieci bambini in classe e pure io mi sono dovuto attrezzare con la tachipirina pronta per tirare fino alla campanella. Non so se lo sapete ma con la storia dei mesi di vacanza estivi gli insegnanti – almeno quelli che vivono il loro mestiere con il giusto senso di colpa – tendono a rispettare l’orario anche con la febbre per non creare disguidi, rivoluzionare l’organizzazione dei colleghi o lasciare che dividano la propria classe. Comunque sono passati i giorni, John non è ancora rientrato e finalmente ho capito. La mia collega ed io abbiamo persino ricevuto un messaggio del padre da cui si evince il timore che John potesse risultare vittima di pregiudizi per il fatto di essere cinese e influenzato, ai tempi del virus Corona. Ho pensato così che, in effetti, i genitori capaci di scatenare l’inferno dell’ignoranza ci sono, magari gli stessi che poi mandano i figli non vaccinati contro il morbillo a scuola. Poi magari mi sbaglio io e nessuno, nella mia classe, si dimostrerebbe capace di un comportamento così miserabile. Quindi spero che John torni presto, magari già oggi, magari già domani, con un messaggio di amicizia per i compagni sul led delle sue nuove scarpe Geox. Una cosa tipo “grazie per essere persone di buon senso”.

circolare n. 138 del 24 gennaio 2020

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Ogni tanto il liceo di mia figlia mi invia la newsletter alla quale mi sono registrato sin dall’iscrizione alla prima, tre anni fa. Si tratta di una newsletter riepilogativa che il sito della scuola manda automaticamente e che contiene le comunicazioni inviate manualmente nell’ultimo periodo.

Conosco molto bene il sistema perché la piattaforma su cui è sviluppato il sito è WordPress e ha la stessa impostazione di quello della scuola in cui lavoro e che amministro. Una società di Caserta ha in gestione i siti sviluppati in WordPress di numerose scuole italiane, di ogni ordine e grado. Ne consegue che quasi tutti i siti, compreso quello del liceo di mia figlia e della scuola in cui insegno, sono costruiti e organizzati allo stesso modo e risultano a grandi linee identici. Anche noi abbiamo impostato l’invio periodico della newsletter riepilogativa. Ti arriva una e-mail dal titolo “Ultime News” (il titolo comunque si può personalizzare) e sotto si possono leggere le preview delle ultime circolari pubblicate.

Il fatto è che se non avete fatto il militare o non lavorate nella scuola o nella pubblica amministrazione, difficilmente saprete che, come sostiene Wikipedia,

una circolare sostanzialmente consiste in una lettera o in un documento in formato elettronico ma anche una comunicazione telematica (ad esempio, un’e-mail). L’uso delle circolari è tipico delle organizzazioni burocratiche, pubbliche e private, dove vengono utilizzate dai superiori per impartire ordini e disposizioni ai loro subordinati, definire linee guida di operazione e produzione, oppure per interpretare norme giuridiche (soprattutto nell’ambito della pubblica amministrazione)

Come è facile immaginare, nell’azienda in cui lavoravo prima di fare l’insegnante nessuno inviava mai circolari a nessuno. Si mandavano e-mail, si condividevano informazioni negli ambienti comuni, si pubblicavano post, ma di circolari nemmeno l’ombra.

E questo non sarebbe un problema se la compresenza di un processo tecnico e specifico di un ambiente a sé – e dai rimandi obsoleti – non dovesse coesistere con un sistema snello e smart come l’Internet e il digitale tout court. Il punto è che il testo della preview della circolare, anticipato nella newsletter, dice più o meno cose come

Circolare n. 138 – Ricevimento genitori secondo quadrimestre
Circolare n. 138
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Il link è sul pulsante “Leggi tutto” e, cliccandoci sopra, si va alla pagina del post pubblicato sul sito della scuola in cui, anziché il testo contenuto nella comunicazione “circolare”, come un utente si aspetterebbe di leggere, è presente invece una cosa tipo

Circolare n. 138 – Ricevimento genitori secondo quadrimestre
24 Gennaio 2020
Circolare n. 138

Quindi, ancora niente. Il link questa seconda volta è inserito su “Circolare n. 138” e porta non alla pagina con l’articolo della suddetta circolare ma apre un PDF con la circolare stessa. Il documento in PDF è frutto del passaggio allo scanner di una circolare scritta al computer, stampata, firmata dalla preside, quindi digitalizzata nuovamente, con tanto di piedino “stampa questa e-mail solo se necessario”, pubblicata sul sito e collegata tramite link con il relativo articolo.

Questo processo dell’assurdo si manifesta anche nella mia scuola. Perché non si può mettere direttamente il contenuto della circolare in un articolo pubblicato sul sito a nome della preside? Mi sono chiesto il motivo e l’ho individuato nell’esigenza di divulgare informazioni autorizzate da chi è a capo di tutto per evitare responsabilità, da qui l’uso delle circolare intestata con tanto di timbro e firma. Ma l’effetto sarebbe lo stesso pubblicando il testo della circolare stessa anziché il suo PDF digitalizzato a nome dell’autore (la preside), peraltro rendendolo indicizzabile e rintracciabile tramite i motori di ricerca. O forse è diventato prassi un errore dovuto alla scarsa dimestichezza con le piattaforme di content management di chi, qualche anno fa, ha iniziato a occuparsi di queste cose. Siamo del duemila e venti, diamine, e di circolari dovrebbero esserci solo quella destra e sinistra lungo la circonvallazione di Milano.

è stato un tempo solitario

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Il giorno in cui mi è esploso per la prima volta il rock dentro io me lo ricordo benissimo. Avevo poco più di sei anni, era il duemila e venti, facevo la prima elementare e c’era stata una specie di epidemia di febbre e tosse per cui eravamo in dieci in classe. Nell’intervallo lungo dopo la mensa non sapevamo più a cosa giocare e il maestro aveva fatto il gioco del dj. A turno, ognuno di noi poteva scegliere una canzone da ascoltare tutti insieme. Potevamo scegliere qualsiasi cosa, l’importante è che non ci fossero parolacce in italiano. Il maestro, che nel digitale era un vero mago, aveva persino allestito sul computer una specie di ruota della fortuna con tutti i nostri nomi da far girare per il sorteggio. Quel giorno la scaletta, vista a posteriori, era stata vergognosa: il gatto puzzolone, Calypso di Mahmood, uno dei tanti Rovazzi fino a una improvvisazione senza capo né coda, un brano da tanto al mucchio con un solo di sax infinito. Avevamo finito il giro, cioè tutti avevano fatto la loro proposta, ma Alice, quella che quindici anni dopo avremmo battezzato Barbie Suora Laica e che già quel giorno stesso, ironia della sorte, aveva trovato in classe un mocassino marrone riconducibile alla celebre pin up in plastica della Mattel, aveva chiesto al maestro di scegliere qualcosa lui.

Il maestro avrebbe potuto agire di impulso per marcare la differenza con i suoi gusti mettendo i Cure, o i Joy Division, i Talking Heads, persino “Another Brick in the Wall” o un riempipista come “Slow Hands” degli Interpol. Invece – ma questo me lo ha confessato solo anni dopo – malgrado si trovasse in uno stato influenzale preoccupante (era fuori di testa, veniva pure con la febbre alta perché diceva che si sarebbe sentito in colpa nel caso avessero diviso la classe), è riuscito a concentrarsi qualche secondo per individuare il brano che più di ogni altro potesse costituire la sintesi del rock’n’roll. Quindi, senza troppi indugi, ha avviato Youtube e ha messo questo.

ancora sulla scuola azienda

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Il dibattito sul registro elettronico è costantemente all’ordine del giorno, tra gli insegnanti, e non è certo un problema dell’impiego dello strumento in sé e dei suoi vantaggi. Il fatto è che il registro elettronico che la maggior parte delle scuole ha a disposizione non è per nulla user-friendly ed è sviluppato con una logica che, ai tempi delle piattaforme online, risulta più che superata. Se volete provare l’ebbrezza di rivivere gli anni novanta, per esempio, andate in segreteria e fatevi un giro sul back-end di Axios, e quando vi accorgete che non c’è Windows 3.1 installato sulla macchina su cui state provando l’esperienza di flash-back vuol dire che il gettone, come in tutte le giostre, aveva un tempo limitato. Se avete avuto modo di smanettare con una qualunque piattaforma di Business Intelligence aziendale, il paragone con il front-end del registro elettronico risulta ancora più impietoso: architettura e organizzazione del sito, interfaccia grafica, usabilità e reportistica mettono a dura prova le già limitate competenze digitali del personale della scuola. Vi invito però a riflettere su un aspetto: se siamo tutti così bravi a usare le app social è perché risultano intuitive. Instagram, per fare un esempio, non è pensata per i professionisti del fotoritocco. Allo stesso modo, uno strumento sviluppato per gestire l’attività didattica e organizzativa per gli insegnanti dovrebbe essere adatto anche a chi non ha competenze tecniche. Pensate, per esempio, a Google Suite che è realmente alla portata di tutti sia lato utilizzo che lato gestione. Senza pensare che, con pochi accorgimenti, molte delle informazioni che ogni docente deve registrare quotidianamente sul registro potrebbero essere automatizzate con l’Internet of Things, ma anche un badge da timbrare all’ingresso e all’uscita per tutti, docenti e alunni, sarebbe già un passo avanti. Ed è un peccato che le scuole non abbiano il becco di un quattrino, perché si tratta effettivamente di un mercato vastissimo per chi sviluppa soluzioni per la Digital Transformation e in grado di accendere la competizione tra chi è capace di fare le cose meglio, evitando così di costringere le scuole a doversi accontentare di quello che c’è.

a scuola di imitazione

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Ai tempi dell’Internet fare l’insegnante non dico che sia più facile di quando i prof massacravano gli studenti con raffiche di verbi da tradurre simultaneamente in latino a botte di uno ogni cinque secondi, però dobbiamo ammettere che ci sono molte risorse che possono rendere più differenziata e vivace (e quindi anche, in parte, semplificare) il nostro mestiere. Per la scuola primaria l’offerta è impressionante, se non dispersiva. I docenti che pubblicano resoconti delle loro attività, comprensivi di pagine dei quaderni dei loro alunni passate allo scanner, sono numerosissimi. Questo annulla le possibilità che si corra il rischio di annoiarsi del proprio metodo e, di conseguenza, di stufare i destinatari. Volendo si può cambiare giorno per giorno e, a ogni ciclo, rinnovare la proposta con materiali e contenuti mai utilizzati. Io che sono un neofita del mestiere vado a ficcanasare nelle classi delle colleghe. Quando passo durante le ore di lezione a installare qualche aggiornamento sul pc dell’aula o a tarare la LIM presto molta attenzione a quello che fanno e a come lo fanno. Questa sorta di tirocinio in incognito è utile perché si coglie l’essenza live dell’essere un docente che è un mix tra varie professionalità. Oltre all’esperto della materia insegnata e al pedagogista, io ci vedo l’attore, l’animatore, lo psicologo e il genitore, tutti riuniti in un solo individuo e in un solo stipendio da fame. Qualche giorno fa ho assistito a una porzione di lezione di inglese. Una collega di un’altra prima stava coinvolgendo i bambini con un gioco alla LIM tratto dal sito LearnEnglish Kids del British Council. I bambini, a turno, dovevano collegare strumenti e cose legate allo sport al nome corrispondente, dopo aver testato la pronuncia della parola. La classe era molto coinvolta e gli studenti smaniavano per essere chiamati prima degli altri, il tutto merito del modo in cui la maestra era riuscita a presentare il gioco e a condurlo con i bambini. Così ho copiato immediatamente l’idea e ci ho provato il giorno dopo nel corso della lezione di inglese con la mia classe. Il risultato però è stato molto diverso e a dir poco deludente. Forse l’esempio a cui ho assistito era frutto di altre lezioni precedenti in cui i bambini avevano già fatto pratica su quelle parole, o forse la classe che mi ha ispirato è composta da studenti molto più bravi in inglese dei miei, oppure – cosa molto più probabile – sono io che ho ampi margini di miglioramento nell’arte dell’insegnare.