prima classe

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Stamattina mi ha fermato un uomo sulla trentina, erano le sette e in giro c’eravamo solo io e lui, in pantaloncini e scarpette, a correre. Con il suo marcatissimo accento meridionale mi ha chiesto se da quelle parti ci fossero posti dove fare dieci o venti chilometri nella natura e io, che avevo il fiatone, non me la sono sentita di rispondergli che qui non siamo nella savana e, anzi, c’è la più alta densità abitativa d’Europa. La spiegazione sarebbe stata troppo lunga e mi avrebbe richiesto troppe energie e concentrazione. Sono riuscito però a dirgli che c’era il modesto parchetto dove vado a fare la mia sgambata quotidiana, un percorso ad anello da poco più di ottocento metri, e che poteva seguirmi se fosse riuscito ad accontentarsi. Quando mi ha chiesto quanto mancasse a un altro sentiero che vedeva segnalato su Google Maps ho capito che era arrivato da poco e non conosceva per nulla la zona. «Sono qui da giovedì», mi ha confermato, «faccio l’insegnante». Gli ho risposto che allora eravamo colleghi, anche se lui è supplente di informatica in un istituto tecnico di provincia che ha la sede nel paese vicino al mio mentre io sono docente di ruolo in una primaria a un quarto d’ora di macchina dal vialetto da cui poi ha preso il volo – si era visto subito che non si trattava di un runner cialtrone come il sottoscritto – dopo avermi ringraziato per le indicazioni. Forse è la solitudine o forse solo la riconoscenza ad averlo spinto a sottolineare che quel parchetto in cui l’ho condotto sembrava perfetto per le ripetute, se avesse saputo con chi farle, e non so se contava sul fatto che gli lanciassi la proposta di vederci, ogni tanto, per allenarci insieme, ma a me piace correre in autonomia.

Anche nella mia scuola è arrivata una collega dal sud più profondo, così remoto che – dal modo in cui si esprime – faccio fatica a capire quando mi parla, e la mascherina è l’ultimo dei problemi. Si è spostata con la figlia al seguito, che presto la abbandonerà per raggiungere Latina dove studia all’università, e mentre cerca una sistemazione abitativa conveniente e comoda soggiorna presso un bed&breakfast. Quando si collega per le riunioni di programmazione a cui partecipiamo in videoconferenza alle sue spalle si nota l’arredamento tipico degli hotel. Si vede che non è una casa anche solo dalle tende alle finestre. Le storie umane che si leggono alle spalle degli insegnanti e tra le righe della scuola sono infinite, una per docente, una per alunno, una per collaboratore ai piani.

Nel frattempo la seconda g della secondaria è la prima classe in quarantena del comprensivo in cui lavoro. Un ragazzino, lo scorso venerdì, ha accusato i sintomi da Covid-19 e ora sono tutti a casa. Sulla chat dello staff della dirigente, quando ne ha dato notizia, qualcuno ha commentato che prima o poi doveva succedere. La statistica può piacere o meno, a me per esempio fa schifo, eppure non perdona.

i mostri

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Ho notato Bianca correre verso di me e, dalla sua faccia, ho capito subito che doveva dirmi qualcosa di speciale. Ha coscienziosamente rallentato fino a fermarsi a un paio di metri, consapevole delle ferree regole di relazione a cui siamo soggetti a scuola. Ha acceso i suoi occhi azzurri sulla pelle diafana degli zigomi, ha sollevato il pugno verso di me e lo ha spalancato di un’ampiezza sovradimensionata, considerando ciò che trasportava.
«Maestro! Maestro! Guarda: ho trovato un quadrifoglio!».
«Sei stata molto fortunata», le ho risposto con un sorriso dietro la mascherina chirurgica. «Non capita tutti i giorni di trovare un quadrifoglio. Nel giardino della scuola, poi, è ancora più raro».
Lara, poco più in là, ha assistito alla scoperta, ci ha raggiunto e le ha chiesto se volesse regalarglielo ma Delia ha serrato il suo tesoro sul palmo ed è corsa via. Ho così suggerito a Sofia di mettersi alla ricerca di un altro quadrifoglio. «Se Delia ne ha trovato uno, non vedo perché non potresti essere altrettanto fortunata».
Nel giro di qualche minuto tutte le bambine erano accovacciate sui talloni a setacciare meticolosamente con lo sguardo ogni centimetro quadrato.
Solo allora ho visto che il gruppetto dei maschi si stava dedicando a un’analoga attività. In cerchio, seduti sulle ginocchia intorno a un’area priva di prato, si davano da fare con le mani scavando nella terra. Mi sono chiesto se potesse essere in qualche modo pericoloso ma non c’è stato il tempo di darmi una risposta. Daniel ha gridato come fa sempre quando esulta, Caterina alle sue spalle anche ma dallo spavento, e con i compagni che gli stavano intorno si è precipitato verso di me. Come Bianca mi si è parato davanti e mi ha mostrato che cosa aveva sul palmo. «Maestro guarda quanti vermi». Quattro o cinque lombrichi attorcigliati in un groviglio laocoontico si dibattevano ciechi sulla sua mano verso una vana speranza di libertà. Ho pensato agli stereotipi di genere e a come sia possibile avere sensibilità così differenti quando si è così piccoli. La grazia contro le tinte forti, la natura immacolata con le unghie nere per la terra, un simbolo di speranza e una scena da film horror. Ho chiesto a Daniel di riportare i vermi a posto. Daniel si è voltato e, allontanandosi, l’ho visto mettere le mani in tasca. Nel frattempo è arrivata la collega a sostituirmi e, davvero, non so come sia andata a finire.

aneddoti brevi

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In classe, piantato con le puntine su uno di quei inutili listelli di legno fissati sul muro sopra alla lavagna per appendere cartelloni e poster (inutile perché di un legno così denso che comporta l’impiego del martello ma il martello, per motivi di sicurezza, in classe non si può tenere) ho appeso un avviso che non lascia dubbi: “ANEDDOTI BREVI”. Avete presente la scritta “AUTO ADAGIO” che impone di rallentare all’uscita dei box condominiali? In classe, oltre alle direttive anti-contagio per il coronavirus, ho deciso che da oggi si osserva una regola importantissima per il normale svolgimento delle lezioni.

Non c’è argomento o spunto o anche parola scaturita da una lezione che non attivi, nei bambini delle classi più piccole come la mia (quest’anno ho una seconda), la smania di condividere un’esperienza provata a casa, in vacanza, con gli amici e parenti, oppure tratta da quella nebulosa che è il loro passato spazio-temporale in cui un semplice riferimento storico come ieri è ancora un magma che va dal giorno prima a quattro anni fa e un pranzo dalla nonna che abita a dieci km può assumere i termini di un safari di un mese in un continente esotico.

Non tutti i bambini hanno il dono della sintesi e sono in grado di distinguere il superfluo dai dati fondamentali per arrivare al punto. Quando nell’attività in svolgimento – per la quale quasi sempre è richiesta la massima concentrazione – spunta qualsiasi cosa, come il disegno di un lombrico oppure una torta succulenta o, peggio, una gamba ingessata (all’esperienza ospedaliera non c’è bambino che riesca a resistere), come un timelapse di pianticelle che in quattro e quattr’otto si levano dal terreno, veloci e da diversi punti della classe si alzano le mani e gli sguardi dei bambini si accendono di quella voglia luminosa di farmi sapere l’aneddoto che gli è improvvisamente emerso nella testa, un marchingegno dalle componenti ancora in piena fase di assemblaggio e che, quindi, a rischio di lacune nel completamento del processo.

A me spiace non lasciar loro lo spazio che meritano, d’altronde sono i veri protagonisti della scuola, mica noi con il nostro vissuto e quando eravamo dark o punk che non interessa a nessuno. Così mi trovo costretto a dare la parola e, ogni volta, tremo. Cecilia comincia sempre con “maestro lo sai che” e poi, alla quarta inevitabile deviazione tematica, si perde e si ritrova in una storia che non c’entra nulla. Carmen abbassa la mano, studia il banco per una manciata di secondi come se dovesse raccogliere le idee, e poi comincia a raccontare ma, nel frattempo, le idee le si sono di nuovo rovesciate insieme a due dei tre astucci che tiene a disposizione. Al terzo aneddoto, tutti gli altri non vogliono sentirsi da meno e così si dà il via alla vera gara di protagonismo, tanto che i cinque o sei interventi nel frattempo si moltiplicano e diventano diciotto, con una durata media a bambino davvero poco sostenibile.

Comunque non è vero, scherzavo, non ho messo nessun cartello “ANEDDOTI BREVI”, in classe. Non esiste la brevità nella narrazione liquida dei bambini, che è quella corrente che ti trascina via con le parole e il cui unico appiglio – metaforicamente il ramo di un arbusto, un tronco strappato alla boscaglia, un tavolo da picnic in plastica e meno male che ogni tanto qualcuno getta un po’ di plastica in acqua – è la campanella, l’allarme della mensa che scatta all’improvviso, la bidella che porta una circolare, le cavallette, tutti diversivi che esistono solo in letteratura ma che, nel tempo scuola, si manifestano solo quando sono meno utili.

Ogni giorno ci ricasco e, uno ad uno, do loro la parole sperando che si annullino tra di loro e fingendo di essere sorpreso da tutte quelle storie strampalate nel loro mix di verità, sogni, cartoni animati, video di Youtube e racconti dei compagni ascoltati in precedenza, un tesoro di involontaria improvvisazione che, crescendo, la consapevolezza della vita così com’è dilapiderà senza ritorno.

magnesio, fosforo e altre creature leggendarie

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Facciamo due calcoli: quattro ore di matematica con diciotto bambini di sette anni quanto fa? Zero energie. Stanco di tornare a casa dopo una giornata in classe strisciando sui gomiti? Cambia lavoro o inizia a farlo a ventiquattro anni in un sistema che ti permette, a cinquanta, di tirare i remi in barca, di fare carriera e diventare un responsabile didattico che non sta più davanti agli alunni ma dietro le quinte, a coordinare le nuove leve di docenti definendo le linee guida in modo che ci sia uniformità di insegnamento. Fai come me: prova a sederti sul pavimento freddo dell’aula a gambe incrociate per coordinare un gioco con i bambini in cerchio davanti a te e poi prova a rialzarti come facevi a trent’anni. Prova a inseguire di corsa il tuo alunno asperger che, quando intravede una via di fuga dal giardino durante l’intervallo, si lancia verso l’uscita mettendo in pratica tutta la sua abilità strategica. Prova a rispondere simultaneamente ad almeno una decina di domande di natura diversa e poi riprendere la lezione dal punto esatto in cui sei stato interrotto. Prova a installare il driver audio di Windows 10 sul pc di una collega che non sa fare nemmeno il copia-incolla programmando il timer delle campanelle due minuti dopo rispetto all’orologio del pc in cui stai installando il suddetto driver. Prova a leggere al contrario un numero scritto al contrario. Una scuola giovane esige menti giovani. Ridefiniamo, per cortesia, il concetto di lavoratore fragile.

fuori orario (cose mai viste)

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Alla commissione orario della secondaria, composta da docenti, sono assegnate un centinaio di ore extra. Per questo, a partire da quest’anno la mia scuola ha pensato di acquistare la prima licenza annuale di un applicativo ad hoc, un software che, una volta inseriti tutti i parametri, è in grado di comporre uno dei sistemi a incastro più proibitivi della storia dell’umanità.

Le variabili di cui tenere conto per la composizione dell’orario di una scuola secondaria sono infinite. Ve ne riporto qualcuna: disponibilità degli spazi comuni (i laboratori) e degli spazi comuni condivisi con la primaria e con le associazioni sportive (palestra), spostamenti dei docenti che insegnano in entrambi i plessi dell’istituto, necessità di avere più ore vicine (italiano e matematica in primis), necessità di non avere più ore vicine, massimo di ore trascorse in classe al giorno, incompatibilità tra materie di vario genere, materie soggette a esonero da collocare alla prima o all’ultima ora in modo che, gli alunni esenti, possano entrare o uscire dopo, distribuzione omogenea delle ore lungo la settimana, docenti che insegnano in più classi, docenti che insegnano anche in altre scuole e quindi con altri orari che devono soddisfare altrettante restrizioni, esigenze personali dei docenti.

Il software acquistato e pagato profumatamente, ovviamente, tiene conto di tutto questo e molto altro. Facile immaginare la potenza di calcolo di questo programma, le informazioni che macina per trovare la soluzione, le miliardi di combinazioni che tenta prima di arrivare alla soluzione finale. Il problema è che il suddetto applicativo è stato sviluppato per il personale tecnico e non per un docente. Mi spiego meglio. Oggi si parla di digitale e non di informatica perché l’usabilità di programmi e strumenti è alla portata di tutti. Mentre vent’anni fa occorreva avere una conoscenza base dell’IT per smanettare su programmi di qualunque tipo, oggi l’uso delle app è a prova di alga. Pensate a quanto tempo occorre a orientarsi in un nuovo social network o in uno di quei tool online che usiamo per creare i meme idioti da postare su Facebook.

Nonostante ciò, tutto quello che riguarda la scuola – a parte gli strumenti delle Google Suite – appartiene a una famiglia di prodotti pensati da tecnici per tecnici, da programmatori per programmatori e non da gente che conosce gli insegnanti per gli insegnanti: interfacce utente realizzate con gli scarti di magazzino di qualche software costruito ai tempi di Windows 3.1, linguaggio e comandi con i toni degni del DOS. Se Canva o WordPress fossero stati sviluppati allo stesso modo, per dire, avrebbero già chiuso da un pezzo.

Il fatto è che la scuola ha bisogno di digitale come il pane e, alla fine, tutto ciò che può essere collegato a una presa elettrica finisce per essere di pertinenza dell’unico docente che smanetta con il computer, cioè gente come me.

Non vi sto a descrivere la terminologia della guida, le voci delle funzioni, la gerarchia e la struttura delle sezioni, per non parlare dell’austerità grafica. Ma il bello viene poi quando, gettati alla rinfusa nel sistema tutti i parametri da rispettare in modo che l’orario soddisfi la totalità degli stakeholder, si abbassa la leva per avviare il processo.

Il computer comincia a tremare e scricchiolare, si sentono gli ingranaggi palesemente sotto sforzo, da sotto i tasti esce il fumo, le prese usb grondano del sudore dei fuochisti che accelerano vistosamente l’approvvigionamento di carbone nel motore, il touch pad si scalda e lo schermo si fa tutto grigio scuro. Il processo va avanti così per ore e ore fino a quando la macchina lentamente rallenta e si quieta, e probabilmente, spedito da qualche fabbrica degli albori della rivoluzione industriale, ecco comparire l’orario in una tabella essenziale, con tutte le sue caselle colorate con una palette a 8 bit, tutta macchiato di polvere. Dalla scheda madre del computer si leva quindi la sirena del cambio turno e gli operai, con la faccia tutta imbrattata di silicio, si disperdono nei quartieri dormitorio limitrofi. Sarà infatti il turno successivo a occuparsi dell’ottimizzazione del risultato finale, in modo che rifletta al meglio la realtà e possa essere applicato sul campo in modo efficace.

con gli occhi

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Faccio ancora fatica ad abbinare genitori a bambini. Con le mascherine, all’uscita da scuola, è un delirio e vado per inerzia, confidando nel fatto che almeno i miei alunni siano in grado di riconoscere mamma, papà e nonni e che la consegna vada in porto. Non sono tenuto invece a salutare chi attende al cancello per ritirare i bimbi delle altre classi della scuola, anche se – in un piccolo paesello di provincia – sarebbe il caso di impegnarsi un po’. In realtà vige il rapporto dell’uno contro molti: i genitori mi conoscono in quanto insegnante – e unico insegnante di sesso maschile della primaria, anche se quest’anno finalmente ho un collega – mentre io, per ovvi motivi numerici, non potrei ricambiare nemmeno se prendessi lezioni private di fisiognomica. Potrei tirarmela e scrivere che sono una celebrità, ma anche se ho contribuito a far sì che 1500 studenti dai 3 ai 14 anni siano riusciti a terminare l’anno scolastico da casa, resto umile.

La mascherina, poi, ci mette del suo. Se già evito gli sguardi dei genitori dei bambini non miei all’uscita lanciando generici ‘sera, ‘sera (ogni tanto una ex-collega, che ha un figlio in prima da noi e con cui avrò si e no scambiato un paio di e-mail, mi accoglie con fortissimi “ciao Robyyyyy” nemmeno fossimo stati a scuola insieme), degli semi-sconosciuti con mezzo volto coperto diventano un’incognita a tutti gli effetti. Certo, nel dubbio, potrei salutare calorosamente tutti uno per uno come si fa sui sentieri delle Dolomiti. Oppure continuare a sorridere vigorosamente dietro il tessuto protettivo in modo che, almeno con gli occhi, sia evidente che stia ricambiando un convenevole.

C’è poi l’aggravante mamma musulmana con mascherina. L’effetto burqa è assicurato. Stamattina ho parcheggiato poco dopo il cancello d’ingresso. Ho indossato la mia chirurgica da lavoro per rimanere in incognito ma, nonostante ciò, una donna vestita con abito tradizionale e velo sui capelli mi ha salutato calorosamente. Ho ricambiato ma mi si leggeva nel poco che si vedeva nel volto lontano un miglio che non sapevo a chi mi trovassi davanti. Gli occhi saranno anche lo specchio dell’anima ma, in quanto a fornire generalità, non sono granché.

“Sono la mamma di Mehar”, mi ha detto, anticipando mie scuse con uno sguardo di riconoscenza che mi ha sciolto all’istante. Mehar è una ragazzina pakistana che mi ha chiamato diverse volte durante la didattica a distanza per avere un aiuto nella configurazione del pc che aveva a disposizione per seguire le lezioni. Ora frequenta la secondaria ma me la ricordo benissimo qualche anno fa, durante alcune supplenze che ho svolto nella sua quinta. Mehar parla fluentemente l’italiano, è brillante e intelligentissima ed è stata lei il contatto principale della sua famiglia durante l’emergenza sanitaria. Dopo qualche sessione di help desk su Whatsapp ce l’abbiamo fatta. E, come se non bastasse, ho avuto anche l’onore di supportare sua mamma che, iscritta a un corso di italiano per stranieri in una scuola professionale, ha dovuto concludere gli incontri tramite Google Classroom su uno smartphone.

Mi sono così ricordato che aiutare le famiglie è stato forse la parte più appagante di tutta l’esperienza della didattica da remoto. Per quelle straniere, che hanno affrontato ben altre barriere oltre quelle tecnologiche, il piacere è stato doppio.

i quattordici giorni che sconvolsero il mondo

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Non voglio riaccendere l’annosa discussione sui mesi di vacanza degli insegnanti, sulle ore che passano in classe e su quelle dedicate a programmazione, preparazione attività e back-office generale. Quest’anno, poi, meglio evitare. Come i nostri figli, non metto piede in una classe da venerdì 21 febbraio ma vi assicuro che, in vita mia, non credo di aver mai lavorato così tanto come la scorsa primavera, ovviamente considerando l’esperienza in relazione anche con le mansioni che ho ricoperto prima di dedicarmi alla scuola. Non entro poi nel merito delle condizioni in cui operiamo versus la situazione in cui si trovano gli altri settori produttivi e il fatto che – al netto del lockdown e del telelavoro a cui si sono convertiti in molti – a giugno, luglio e agosto siamo stati a casa come tutti gli anni, dopo esser rimasti a casa per tutto il secondo quadrimestre.

Io però giornate come quelle che si vivono nella scuola dal primo al quattordici settembre non le auguro a nessuno perché non credo che abbiano eguali. Farei volentieri cambio con uno dei mesi di vacanza di cui sopra. Sono quattordici giorni in cui si concentra il lavoro che un’organizzazione normale svolgerebbe in almeno un paio di mesi, con responsabili progetto, mansioni e tempistiche ben definite, e a maggior ragione in un momento di emergenza sanitaria come questo. Qui da noi, invece, vi si dedicano quattro gatti coordinati da una figura apicale che si occupa allo stesso tempo di milioni di cose. Mettete insieme il reclutamento del personale docente (nella mia scuola almeno un quarto degli insegnanti) e dei collaboratori e tutto ciò che comporta, più l’allestimento degli spazi con gli eventuali spostamenti (un’esigenza quest’anno cresciuta in modo esponenziale), la formazione delle classi prime di ogni ordine (infanzia, primaria e secondaria), la composizione degli orari e la distribuzione delle risorse comuni, lo start-up delle attività con le riunioni in tutte le combinazioni possibili (istituto, ordine, interclasse, classe, materia), l’istituzione delle commissioni, il passaggio di consegne con i colleghi che se ne vanno e quelli che arrivano, qualche inevitabile corso di aggiornamento, i primi contatti con le famiglie.

Senza contare la reportistica e la documentazione da produrre, informazioni da inserire o modificare nelle piattaforme gestionali e didattiche, le password dimenticate, il check degli equipaggiamenti e del materiale nei laboratori, nelle classi e negli uffici. Una mole di impegni che inevitabilmente si protrarrà lungo i mesi successivi, sovrapponendosi all’attività didattica che è poi il fulcro del nostro lavoro. Il tutto con una spruzzata di una cosuccia come una pandemia globale e milioni di regole di convivenza sociale da far rispettare. Ora, non dico iniziare il 22 febbraio, sarebbe stato troppo. Ma almeno il 1 giugno, al netto dell’imprevedibile causato da un contesto altrettanto in evoluzione, non si poteva cominciare a fare qualcosa?

di madre in figlio

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Non è passato molto tempo da quando mia mamma sapeva ancora collocare nella classe e nell’annata corretta il nome e il cognome di qualunque ex studente del liceo nella segreteria del quale ha lavorato tutta la vita. Ha compilato per decenni prima a penna e poi a macchina registri, tabelloni e schede personali fino a chiudere la carriera, prima della pensione, con gli Olivetti M24. Sto facendo un lavoro analogo, supportando il dipartimento amministrativo della scuola in cui insegno. Ci sono millecinquecento nominativi di bambini e ragazzi nella piattaforma digitale che gestisco ma in modo automatico, senza curarmi di loro se non per controlli a campione. Li esporto, li modifico, li re-importo, li ripulisco, li aggrego, li sposto, li rimetto a posto, li separo, li ordino, li metto in relazione, li codifico. Mi soffermo però a osservarli solo quando mi accorgo di un’anomalia o qualcosa fuori dall’ordinario. Su tutte, gli studenti che hanno più cognomi e più nomi.

Per gli italiani è un vezzo. Per chi è di origine straniera una consuetudine. Per me una rottura di coglioni perché in certi casi non si distingue il nome dal cognome. In altri se il nome è unico o, semplicemente, è sufficiente utilizzare il primo dei numerosi. Fossi al potere vieterei per legge nomi e cognomi plurimi e introdurrei sanzioni pesanti per Rebecca Vittoria, Nicol Alexandra, Augusto Livio, Kristin Manuela, Beatrice Chiara, anzi, per i loro genitori. Pensate se mia mamma avesse dovuto compilare certificati con tutta questa pappardella al posto di semplici Davide, Lucia, Anna, Claudia, Paolo. Forse i ritmi della scuola ai nostri giorni vanno così a rilento perché in segreteria ci vogliono ore a trascrivere miliardi di secondi terzi e quarti nomi inutili, lasciti di cui i figli non se fanno nulla e che nessuno riesce nemmeno a rivendere ai rigattieri.

senza passare dal via

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Visiera con la mascherina per avvicinarsi ai bambini. Visiera senza mascherina se ci si trova a distanza di sicurezza. Per i docenti è vietato l’uso di mascherine non fornite dalla scuola. Bambini con mascherina negli spazi e nei momenti in cui la distanza può ridursi. Bambini senza mascherina seduti in classe a distanza superiore di un metro. Almeno tre mascherine a bambino perché se se ne sporca una in mensa hanno quella di ricambio. In mensa è vietato versarsi autonomamente l’acqua nei bicchieri, si valuta l’impiego di borracce individuali portate da casa. Sconsigliate le bottiglie di plastica, poco green e spesso soggette a challenge tra i bambini, il gioco del lancio con caduta verticale non è ancora passato di moda. Vietato dimenticarsi il materiale a casa perché non può essere preso in prestito dai compagni. Utilizzo della pellicola trasparente su tastiera e mouse dei pc del laboratorio di informatica, da sostituire a ogni ora. Rivolgersi al collaboratore al piano nel caso un bambino manifesti qualunque tipo di sintomo di qualunque tipo di malessere. Il collaboratore al piano però così lascia sguarnito il controllo del piano. Nel caso di più bambini allo stesso piano a cui rilevare la temperatura comportarsi come richiede la situazione. Al minimo sintomo riconducibile all’influenza o, peggio, al Covid, rivolgersi al collaboratore al piano per informare immediatamente la famiglia. In caso di ritardo del familiare superiore ai 30 minuti rivolgersi alla forza pubblica. In caso di assenza del collaboratore al piano perché già impegnato a informare i genitori di un altro bambino comportarsi come richiede la situazione. Prima e dopo qualunque tipo di contatto fisico strettamente necessario procedere alla pulizia delle mani. Prima e dopo l’uso del touch screen della LIM procedere alla pulizia delle mani. Il gel igienizzante sarà presente in ogni aula e in ogni spazio comune. Vietato l’uso degli spogliatoi della palestra: i bambini devono presentarsi a scuola già in tuta per l’ora di motoria. Assicurarsi che nessuno lasci materiale sul banco al termine della lezione per non ostacolare la successiva sanificazione dell’aula. Vietato occupare le aule dopo le ore di lezione. Evitare l’impiego di materiale e strumenti non personali per i quali non si possa garantire una adeguata sanificazione al termine del loro utilizzo. Riformulare ogni proposta didattica che comporti attività di coppia, attività di gruppo, attività con materiali e strumenti non individuali. Posso dire addio all’orchestra di Boomwhackers, sarà per la prossima vita. Vietato creare gruppi con alunni di classi diverse. Sono ammesse visite e uscite ma solo a piedi. Il blog è un efficace strumento per prendere appunti durante un collegio docenti. Quest’anno si comincia così.

convertitevi

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Se volete scoprire quanti formati di file audio e video esistano in natura chiedete ai genitori dei vostri alunni di registrare con lo smartphone gli auguri per montare poi un video cumulativo di buon compleanno. Riceverete mp3, mp4, opus, ogg, mov, m4a e un sacco di formati proprietari a seconda del modello di telefono, quindi buona fortuna. In genere iMovie macina qualsiasi cosa, ma capita che con estensioni sconosciute vada in panne. Così, per i video, mi affido all’intramontabile Quicktime (dimenticavo, sto parlando di Mac) mentre per l’audio, laddove l’onnipotente Audacity fa cilecca, vado in un posto sicuro e fidato come l’Online Audio Converter, un luogo magico in cui ogni cosa può trasformarsi in un’altra nel giro di qualche secondo, e i genitori dei vostri alunni saranno entusiasti di vedere le performance dei loro figli, una di seguito all’altra, filmati – rigorosamente in verticale – e digitalizzati in barba a qualunque teoria dello standard informatico.