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La collega di religione che trascorre due ore alla settimana in ognuna delle classi è positiva. Non è per niente una bella notizia ma ci ha convinti a fare ancora più attenzione di prima. Io ho il gel igienizzante sulla cattedra e, all’ennesima spalmata sulle mani, mi domando come sia possibile che non sia ancora nata una teoria complottista che metta al centro l’equivalente di qualche big pharma della sanificazione. Ho acquistato una confezione di ffp2 ma basta un richiesta di spiegazione in più o Simone che gioca con la trottola sul banco mentre parlo che vado in iperventilazione. Così quando i soliti alzano la mano per dirmi “maestro mi son perso” esco a prendere una boccata d’aria, premo il pulsante rewind, riposiziono la mascherina e ripeto da capo.

Comunque, tornando all’insegnante fresca di tampone che ha contatti – non necessariamente stretti – con tutti i docenti e i bambini in tutte le aule ogni sette giorni, è una vera notizia bomba ma nel senso di bomba batteriologica, un imprevisto che avrebbe messo ko qualunque organizzazione normale.

Non la scuola italiana. Da noi i docenti che accusano sintomi riconducibili al Covid e sono in attesa di tampone non sono tenuti a informare i colleghi. Stanno a casa ma non hanno l’obbligo di avvisare che nella classe in cui qualcuno dovrà svolgere una supplenza al posto loro ha soggiornato una persona che al momento ha la febbre/il mal di gola/la tosse e far sì che chi coprirà la sua assenza sia consapevole di trovarsi al cospetto di bambini che, a loro volta, sono stati esposti a un potenziale contagio. Ho chiesto alla dirigente e mi ha risposto che è tutto regolare. Non siamo tenuti a mettere in allerta in colleghi perché ne va della nostra privacy.

Non vedo che cosa ci sia da vergognarsi nel dire alle persone con cui siamo stati in contatto che un tampone eseguito sul nostro organismo ha dato esito positivo, oppure che ci troviamo in quota contagio e, di conseguenza, è meglio che chi ci è stato vicino prenda provvedimenti. Quando lavoravo in agenzia mia figlia mi attaccò la varicella. Era aprile, mi stavo godendo la pausa pranzo in un parchetto sotto l’ufficio quando la collega con cui dividevo il panino notò un vistoso brufolo su uno dei miei due zigomi. Ricordo che me l’ero grattato via e poi, rientrato alla mia postazione, provai una sensazione di disagio. Così, dopo aver sollevato la maglietta in bagno, il mio torace si palesò infestato da milioni di inquietanti pustole rosse. Corsi subito a casa, dove passai due giorni con la febbre altissima. Il mio capo inviò immediatamente una mail a tutti i dipendenti per metterli al corrente che un loro collega, con tanto di nome e cognome, era affetto da una malattia esantematica e infettiva. Nessuno mi chiese nulla, tantomeno una liberatoria per divulgare il mio stato di salute. Anzi, il fatto è che a me sembrò una cosa normalissima.

A scuola, invece, i docenti positivi al Covid 19 sono il segreto di Pulcinella. Insegnanti che, da un giorno all’altro, spariscono nel nulla e le cui classi improvvisamente subiscono lo stesso destino, finendo in quarantena. Ma non so se mi lasci più perplesso il fatto che fare corretta informazione nell’ambiente di lavoro della scuola non sia previsto dalla procedura standard o che i colleghi non sentano la necessità di dirlo a tutti, come forma di rispetto. Ma forse sono io che sbaglio.

arriva il budino

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Non è vero che tutti i bambini sono belli, non è vero che tutti i bambini sono simpatici. Se sono brutti chi se ne importa, io non ero e non sono granché ma non posso lamentarmi e alla fine me la sono cavata. Il problema subentra semmai con bambini poco simpatici perché noi adulti possiamo anche chiudere un occhio e passarci sopra, ma l’ambiente dei coetanei può dimostrarsi intransigente. Spesso i bambini poco simpatici hanno nomi inutilmente altisonanti attribuiti da genitori altrettanto infrequentabili ma, da piccoli, in un mondo di Ethan e Nathan e Maya se ti chiami Ludovica nessuno ci fa caso e sembri un personaggio di Guerre Stellari come tutti gli altri. Ma, anche quando sono piccini piccini, è il comportamento antipatico che spinge i pari a praticare isolamento nei loro confronti. Magari cercano di evitarli non per cattiveria, credo cioè che a sette o otto anni quel modo di fare quadrato contro i bambini non simpatici sia tutto sommato una involontaria forma di autodifesa. Il ruolo dell’educatore è di mediazione: da una parte si cerca di convincere il gruppo dei pari ad accettare anche il bambino poco simpatico, dall’altra si deve educare il bambino poco simpatico a far di tutto per essere più simpatico. Due sforzi spesso vani perché l’attività del gruppo, appena vira verso la destrutturazione in assenza dell’adulto, torna immediatamente alla sua conformazione precedente all’innesto forzato del bambino poco simpatico, mentre il bambino poco simpatico difficilmente farà suoi i comportamenti da tenere per risultare più sopportabile. Gli atteggiamenti che rendono i pari refrattari alla personalità poco simpatica sono diversi. Per esempio, se in classe alzi la mano ogni secondo per dare la risposta, alla fine il rischio di attirare il dissapore altrui non è così remoto, questo indipendentemente se la risposta sia quella corretta o meno. La mia Ludovica, un nome di fantasia ma altrettanto fuori luogo nel nuovo millennio, nel giro di una manciata di mesi si è giocata tutta la sua popolarità con una pedanteria oltre ogni soglia. La vedo lì prima fila – per motivi di dimensione non potrei spostarla altrove – costantemente con il braccio teso verso l’alto, in una sorta di saluto celebrativo al regime del protagonismo infantile che a casa le viene avallato dal resto della famiglia ma che, a scuola, deve fare i conti con i tempi e con le dinamiche equamente divise tra il resto dei compagni. Nella corsa per accaparrarsi i posti in mensa ultimamente resta spesso con il cerino in mano e, a fronte di riorganizzazioni manuali per far sì che non resti sola in uno di quei tavoloni sguarniti di bambini che si vedono ai tempi del social distancing, manifesta la delusione con copiosi piagnistei. Oggi quasi non riusciva a deglutire nessun boccone per la disperazione, fino a quando non le ho portato il budino. A quel punto lo sguardo si è rasserenato come il cielo dopo un temporale estivo. Le nubi si sono dileguate dal suo presente e il sole ha fatto capolino negli occhi puntati sul mistero del cioccolato, che chissà perché mette fine a ogni dissidio con il sé e con il resto del mondo e davvero, stupisce che nessuno abbia mai pensato di eleggerlo a sostanza cardine per la sopravvivenza del genere umano, a vaccino per qualunque malessere, a brodo primordiale da cui è nata la vita di ogni essere vivente e in cui siamo pronti ad annullarci per tornare alla nostra vera origine.

autocertificazione

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Ho fatto un giro su uno di quei banchi a rotelle di cui si sente parlare dalla primavera scorsa. Non sono niente male. Quelli alti come me devono stare attenti alla seduta perché, se ti spingi a fondo infossando i fianchi nell’incrocio con lo schienale, il materiale che è elastico ti fa l’effetto di una sedia a dondolo, ma probabilmente sono stati pensati per bambini e ragazzi che pesano meno di me. Il tavolinetto è ridotto ma un quaderno, un libro o anche un portatile ci stanno comodamente – non tutti insieme, eh. Sotto la sedia c’è un ripiano mobile per poggiare quello che non ti serve. Il bello è che, con i piedi, i banchi sembrano le auto dei Flintstones e tutte quelle battute che sono state fatte appena si è parlato del loro impiego in classe sono vere, a partire dagli autoscontri, dai trenini disco samba durante le lezioni di musica eccetera. Li abbiamo usati qualche giorno fa nel corso di un meeting di staff d’istituto. Ci siamo messi in cerchio nell’aula dove facevamo i collegi docenti in presenza – ma nello staff siamo una decina. Una collega ha ordinato qualche pizza d’asporto (era l’ora di pranzo) e abbiamo fatto il punto. Il punto è che è tutto un gran casino.

la casa vuota

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Lorenzo è affetto da ipoacusia e, se ci aggiungete che in casa parla solo cinese, i momenti di confronto in classe si riducono all’osso. Se non fosse che è mostruosamente intelligente ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli. Con i numeri e la matematica è fortissimo perché non ci sono lingue da decodificare, assimilare e riprodurre. Un numero è un numero e basta, una quantità che ha un simbolo. Anzi, un simbolo che è una quantità, senza significanti e significati e tutti gli orpelli della comunicazione verbale che sì, sono importanti ma per un bambino di sette anni hanno solo il sapore di uno sciroppo disgustoso. Mentre il calcolo e tutto ciò che gravita intorno è una confort zone da cui Lorenzo – al momento – non sente nessuna esigenza di uscire, in tutti i sensi. Quando rientriamo dalla mensa afferra il suo quaderno dei disegni dallo zaino su cui si staglia inconfondibile il suo nome e inizia a ergere altissime torri con matita e righello che riempie presto di numeri, lasciando il più alto sempre a svettare sul tetto come una di quelle insegne che danno il nome ai grattacieli. E non appena richiamo la classe per avvisarli di prepararsi per la sortita in giardino per l’intervallo lungo si arrabbia tantissimo perché non gli importa di entrare in relazione con nessuno che non sia la matematica. Vorrebbe solo rimanere lì, al suo banco, nel suo mondo dove non ci sono parole da scambiare e da comprendere. E non trapela un briciolo di frustrazione, almeno al momento.

Così, mentre il resto della classe corre all’impazzata, perlustra il sottosuolo alla ricerca di vermi o sperimenta nuove forme di relazione destrutturata, Lorenzo non mi molla un attimo. Il suo passatempo preferito è mettersi dietro di me e giocare a sparire dal mio campo visivo, un espediente che mi riporta alla mente quel bellissimo film di Kim Ki-duk. Solo che a scuola non siamo al cinema e Lorenzo non è Tae-suk, anche se – proprio come il protagonista di “Ferro 3 – la casa vuota” – a stento proferisce una parola. Il fatto è che è difficile che un bambino sia in grado di esercitare con così grande perizia la tecnica di illusionismo che ti fa sembrare invisibile sfruttando i punti morti di quello che percepiamo con gli occhi. E poi non solo lo vedo nell’ombra che si mette alle mie spalle, ma è lui il primo a farmi notare la sua presenza muovendo il cappuccio del mio piumino 100 grammi. Quello è il segnale: Lorenzo vuole giocare con me. Io cammino e lui mi segue. Mi sposto di lato e lui fa lo stesso. Accelero il passo e cerca di starmi dietro. Poi all’improvviso salto e ruoto di 180 gradi e a quel punto Lorenzo urla dallo spavento – ma immagino che faccia finta di spaventarsi – e sono io a inseguire lui.

Il problema è che fa così per tutta l’ora che trascorriamo fuori. Dopo un po’ cerco di distrarlo, gli chiedo di aiutare Simone che ha perso il portachiavi con lo stormtrooper, gli dico di unirsi ai bambini che stanno pasticciando il muretto con le pietre colorate raccolte in terra, provo ad accendergli la curiosità sulle bacche che stanno raccogliendo gli altri. Lorenzo valuta se la cosa può interessargli, ma tempo un minuto me lo ritrovo ancora alle spalle con le sue espressioni a mandorla da personaggio dei cartoon orientali. Comunque preferisco di gran lunga questa relazione motoria rispetto alle interazioni che abbiamo in classe, quando alza la mano per dirmi cose che hanno a che fare con in numeri. La data del suo compleanno, il risultato della moltiplicazione di due numeri con le cifre che si somigliano, quanti giorni mancano alla fine dell’anno. Ogni volta che c’è un numero collegato con un aspetto della sua vita non resiste all’impulso di condividerlo con me. D’altronde sono il suo insegnante di matematica e qualcuno deve avergli detto di trovare un punto di riferimento in quel guazzabuglio di marmocchi. Spero di non deluderlo.

everybody hurts sometimes

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C’è una celebre canzone dei Cure che mette nero su bianco che le lacrime sono un’esclusiva femminile, secondo le convenzioni su cui si basa la nostra società. É chiaro che si tratta di una finzione poetica provocatoria per far passare il messaggio contrario. Se vivete a contatto con i bambini, anche se ai tempi del Covid al massimo gli puoi stare a non meno di un metro e venti di distanza, avrete a che fare con i pianti tutti i giorni e, per di più, indistinti. Però quando i maschi iniziano a sembrare grandicelli, diciamo verso la quarta o la quinta, le volte in cui si lasciano andare alle lacrime fa strano. Nel caso delle bambine, invece, ci facciamo meno caso ed è un’ingiustizia perché, invece, si tratta di una sensibilità che è sbagliatissimo non coltivare e, comunque, ogni sofferenza – anche la più futile – dovrebbe far suonare un campanello di allarme in un adulto. In questo periodo di colleghi in quarantena salto da una classe a un’altra ed è sorprendente osservare il modo in cui la tipologia di pianti delle bambine vari, dalle più piccole alle più grandi. In seconda, per dire, manca ancora la mamma e le lacrime sono affluenti di altri corsi di liquidi che colano dal naso e vanno a sfociare in un estuario sul mento. Poi ci sono le amarezze dovute alla compagna che non condivide il gioco, alla pellicina che arrossa il dito, a qualche maschiaccio che supera mentre siamo tutti in fila indiana nell’attesa del nostro turno in bagno.

Nelle classi alte la faccenda diventa più complessa. Questo pomeriggio Marta ha aperto le cateratte all’improvviso, dopo un veloce botta e risposta con la compagna che mi è sfuggito. Marta ha dieci anni ma sembra già una studentessa della secondaria e il suo pianto mi è sembrato subito differente da quelli a cui mi hanno abituato le mie alunne. Le lacrime colavano lateralmente, dagli angoli degli occhi sugli zigomi e verso l’esterno del volto, e sono state accompagnate da un’espressione di sofferenza inequivocabile, una di quelle che ti fanno salire un gradino più su nella vita. L’insegnante di sostegno ha lasciato il suo asperger ad alto funzionamento a sé – ormai è del tutto indipendente e pronto ad abbandonare il nido della primaria – ed è corsa ad accompagnarla in bagno. Giuro che mi spiace banalizzare così, ma sembrava davvero una cosa da donne, una situazione che un mio intervento non sarebbe mai stato in grado di salvare. Marta e la collega sono rimaste fuori una manciata di minuti. Poi è rientrata camminando tra i banchi gremiti a testa alta, con una dignità esemplare, gli occhi rossi, e ha ripreso con sicurezza il suo posto. É stata questione di un attimo: Marta è uscita dalla classe ancora bambina ed è rientrata già adolescente.

sul filo

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Quando sono in supplenza in una classe di “grandi” non m’importa se l’insegnante che sostituisco ha lasciato qualche attività per chi si prende cura dei bambini in sua assenza. Ho un po’ di lezioni pronte sulla musica e sul digitale, veri e propri mini-Ted Talks per bambini di 9 o 10 anni da affrontare – da parte mia – con un disimpegno impensabile per la mia seconda e, per i bambini (che poi mi diverto a chiamarli ragazze e ragazzi), una boccata d’aria rispetto alla tabella di marcia che la scuola ai tempi del Covid impone. Come i relatori delle conferenze a cui partecipavo quando mi occupavo di comunicazione, arrivo con la mia preso – così si chiamano in gergo i supporti in PowerPoint -, collego il mio hard-disk al notebook della classe, controllo che LIM e casse funzionino al meglio, e poi inizio a far parlare il pubblico (composto da studenti temporanei) sull’argomento che ho scelto.

Stamattina cercavo di capire, in una quarta, come fosse possibile che ci fossero ascoltatori dei Queen e, addirittura, dei Kiss tra gente di quell’età, quando una bambina fino troppo sveglia è rimasta tanto meravigliata dal mio passato di musicista da dirmi che suo papà era una cantante ma poi è morto. I compagni non hanno fatto un plissé, probabilmente hanno già elaborato il lutto di classe. Io mi sono sentito come se qualcuno mi avesse tirato una mazza chiodata sulla faccia. Sabato scorso, su richiesta di mia mamma, sono andato a dare l’ultimo saluto a mia zia – sua sorella -, che ha posto fine all’ultimo mese di sofferenze dopo aver però vissuto 98 anni in uno stato di salute esemplare. Zia Ida, si chiamava così, porta a cinque il numero di parenti stretti visti non da vivi. L’estremo saluto non mi ha lasciato indifferente, considerando poi che era il giorno dei morti. La notizia della bambina orfana di padre che ha saputo liquidare in una battuta il dramma che deve aver sofferto non è stata l’umica stranezza che ha destabilizzato la mia lezione. In classe c’era anche una bambina di origini sudamericane la cui madre è la sorella maggiore di un altro compagno di classe, che quindi è lo zio della ragazzina e che si è dimostrato un patatone malgrado sembri un membro di una gang, quelli che girano con il machete con cui affettano i controllori dei tram.

C’era poi un occhialuto presuntuoso in prima fila che continuava a intervenire in un eccesso tale di entusiasmo che nessun relatore di un TED, quelli veri, avrebbe resistito più di qualche minuto prima di chiamare la sicurezza. Ma alla fine ho portato a casa la giornata. Abbiamo parlato di ascolti, di colonne sonore, di X Factor, di Miles Davis e persino della differenza tra uno xilofono e un vibrafono. Peccato per le mascherine, per non potersi dare il cinque e tutte quelle cose che avvicinano i docenti agli alunni che non si possono fare più. Ma, pur tra le mille difficoltà della nuova normalità, la scuola resta il più bel lavoro del mondo.

musica ignorante

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Nelle competenze previste per la proposta di educazione civica applicata in modalità interdisciplinare, sulla documentazione ufficiale, alla voce musica per la classe seconda primaria si legge “Interpretare i temi ed i contenuti della musica colta, con la capacità di cogliere spunti e supporti in un’ottica multidisciplinare”. La presenza dell’aggettivo “colta” mi ha fatto venir voglia di stracciare ciò che stavo leggendo, se ciò che stavo leggendo non si fosse trovato su un file di Word, per giunta impaginato da cani, in tipico standard da scuola pubblica.

Con le espressioni musica colta, seria, d’arte, dotta e aulica – riporta Wikipedia – ci si riferisce a tutte quelle tradizioni musicali che implicano avanzate considerazioni strutturali e teoriche e che siano inscrivibili in una tradizione musicale scritta. La nozione di musica colta è frequentemente legata alla distinzione che se ne fa in musicologia dalla popular music (rock e pop) e dalla musica cosiddetta tradizionale (cioè il folk).

La musica colta è qualcosa di straordinario. Ma limitarsi a questo, nell’educazione musicale, è fortemente riduttivo. La musica colta sta alla popular music come ittiti e sumeri stanno al 900 in storia. Nel senso che i nostri ragazzi arrivano alle superiori avendo chiaro il codice di Hammurabi ma senza conoscere la data dell’unità d’Italia o l’anno in cui le loro nonne hanno potuto votare, in quanto donne, per la prima volta. Non sto dicendo che il passato remoto sia meno importante rispetto al passato prossimo. Anzi, sì. Dirò di più: lasciamo ittiti e sumeri a chi vorrà aumentare le schiere degli archeologi disoccupati e diamo un po’ di contemporaneità in più ai nostri bambini, vi assicuro che sono in grado di comprenderla allo stesso modo della mitologia dei popoli antichi.

Per la musica vale la stessa cosa. Modelli così distanti nella sensibilità di chi vive il duemila e venti trasmettono la percezione dell’arte frutto di un linguaggio che non appartiene a nessuno – o almeno non in vita – tantomeno al pubblico. Io mi batto per far sì che i miei alunni siano in grado di interpretare i temi di tutti i generi musicali, intercettando i loro ascolti per proporgli link, comparazioni, alternative, approfondimenti. In tutto questo c’è spazio per la musica colta, ma da quando la musica di consumo di tutti i tipi ha imposto il suo monopolio nella nostra società, trovo anacronistico riferirsi solo alla classica (compresa la classica contemporanea che poi, diciamoci la verità, quale docente di musica è in grado di insegnarla?). E allora il jazz? E allora i King Crimson? E allora il PD?

C’è anche chi pensa che, se esiste una musica colta, è perché c’è una musica ignorante. Ora, guardate i vostri figli. Guardate i compagni di classe dei vostri figli. E tra tutte quelle menti coperte da cappucci in felpa nei quali si rifugiano per compensare la mancanza di uno spazio tutto loro, provate a spiegargli perché la musica che ascoltano tra di loro è ignorante mentre quella che ascoltano a scuola è colta. Chiedete a loro quale preferiscono, in quale si ritrovano, quale comprendono, quali generi sono più in linea con il modo di fornire una sintesi del mondo che abitano. E poi chiedetegli se si divertono a scuola.

il convivio

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Mi piace molto l’approccio della mia dirigente: la mensa è tempo scuola, un’affermazione che io interpreto come mangiare insieme è un momento in cui i bambini stanno tra di loro privi della mediazione della didattica e dell’insegnante e imparano a conoscersi condividendo lo stesso pasto e stando a tavola. Poi è vero che, a fine pranzo, restano un sacco di avanzi ed è un peccato. Però i gusti dei bambini li sappiamo tutti ed è difficile conciliare il desiderio di intercettare l’esigenza di offrire delle alternative a quelle due pietanze in croce che a furia di capricci abbiamo cresciuto i nostri figli e l’obiettivo di riempire loro la pancia in modo che tirino fino alla fine dell’orario scolastico del tempo prolungato. Quando alla primaria c’era mia figlia ricordo di un’associazione di genitori un po’ new age – sicuramente protogrillisti – che avevano concordato un menu da veri radical chic fautori dell’adultizzazione alimentare precoce dei loro figli. Potete immaginare come è finita: ai bambini faceva giustamente schifo tutto e, trascorsa qualche settimana, eravamo tornati alle ricette scolastiche in tutti i sensi. Occorre ricordare che i nostri figli che abbiamo cresciuto a carote a merenda sono quelli che alle feste si sfondano di più di Nutella e Coca Cola e adorano i compleanni al McDonalds, indovinate perché.

Inutile dire che anche il tempo mensa risente delle ristrettezze imposte dall’emergenza sanitaria. Quest’anno sono stati programmati turni molto rigidi lungo le due ore in cui viene fornito il servizio. Il che da un certo punto di vista è positivo, perché prima del Covid il pranzo durava un’ora, un tempo troppo lungo per tenere dei mocciosi a tavola. Noi delle seconde scendiamo in mensa alle dodici in punto e dobbiamo tagliare la corda dopo trenta minuti per dare l’opportunità agli inservienti di igienizzare tavoli e sedie e pulire tutto per il turno successivo. Le pietanze vengono servite in un vassoio da ospedale, diviso a comparti in cui sono distribuiti contemporaneamente primo, secondo e contorno. Prima della pandemia si alternavano i piatti in ceramica con il corrispondente effetto estetico. La sbobba non sembrava diversa da quello che i bambini vedevano a pranzo a casa. Ora la mise en place lascia un po’ a desiderare, molto sacrificata alla praticità. La minestrina di riso e prezzemolo, per dire, ne risente in modo particolare.

Ma ciò in cui i bambini sono penalizzati maggiormente è la distanza che devono mantenere tra di loro. Non più di tre su tavoli lunghi, una disposizione che ammazza la conversazione, i tornei di obbligo o verità e, di conseguenza, la convivialità. Nonostante ciò il fragore è assordante come prima. I bambini parlano meno ma parlano a voce più alta per farsi intendere dai compagni di tavolo e dagli insegnanti. Eppure anche questa nuova normalità sembra non costituire un disagio. I miei alunni continuano a fare le stupidaggini di prima giocando con il cibo, come quando infilzano i panini con le forchette di plastica per costruire gelati immaginari e poi leccano la farina sulla superficie. Trascorsi i trenta minuti che gli spettano scattano in piedi per rientrare in classe, in fila indiana, a un metro di distanza dal compagno davanti e quello dietro, come veri soldatini in una battaglia di cui saranno loro i veri vincitori.

siamo proprio sicuri

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Sabato ho comprato una confezione di cannucce di carta all’Ipercoop. Costano 0,95 €, ce ne sono in tutto venticinque, sono bianche e piuttosto rigide e resistenti e lunghe una ventina di centimetri. Mi sono sembrate perfette per assolvere la funzione di bacchette magiche in classe. Le bacchette magiche sono una trovata intelligente della mia collega Tiziana per poter usare la LIM con i bambini. Le LIM sono dispositivi touch e in condizioni normali si utilizzano con una penna di plastica che ha una punta di gomma. Il problema è che dobbiamo impedire lo scambio di contatti sulle superfici per prevenire i contagi e stare attenti, così abbiamo deciso di ricorrere a una bacchetta magica individuale che i bambini tengono nell’astuccio e usano solo loro, senza prestarla a nessun altro.

Lo avevo annunciato qualche settimana fa. «Ora vi preparo una bacchetta magica, così anche quest’anno possiamo divertirci con i nostri giochi alla LIM», avevo detto. Non l’avessi mai fatto.

Ogni giorno, appena prendevo posto in piedi davanti a loro per partire con la lezione, c’era qualcuno che alzava la mano per chiedermi quando avrei consegnato le bacchette magiche. Avrei dovuto arrivarci da solo che non solo una promessa va mantenuta, ma parlare di cose di magia alimenta l’immaginazione di una classe di quell’età. Ogni volta che qualcuno mi rivolgeva quella domanda e io mi sentivo in difetto mi veniva voglia di reagire rivelando che cosa succede la notte di Natale nelle loro case. Il fatto è che mi dimenticavo sempre di cercare qualcosa con cui realizzarle. Avevo provato con le cannucce di plastica ma hanno quell’arricciamento per piegarle verso la bocca quando si beve e quindi non andavano bene. Il modello di cartone invece è perfetto.

Stamattina le ho consegnate e ho chiesto ai bambini di personalizzarle pasticciandole con i pennarelli. Non è facile colorare una cannuccia. Per dimostrargli che era fattibile ne ho presa una e, con l’unico pennarello che avevo nel mio astuccio – un evidenziatore verde – ho reso la mia bacchetta magica diversa da tutte le altre. Poi con il Tratto Pen nero ho scritto “Roby” sull’impugnatura. Ho messo un gioco alla LIM per risolvere le addizioni in colonna e ho chiamato tutti, ad uno ad uno, per verificare che la bacchetta fosse effettivamente magica. Nessuno ha sbagliato nemmeno un colpo, e mi sono sentito soddisfatto. La magia funziona davvero, a scuola.

portobello

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Angelo è un collega con i capelli bianchi che tra due anni andrà in pensione. Insegna musica alla secondaria e ricopre la funzione di vicepreside. Si è allestito, con il tempo, un’aula attrezzatissima con pianoforte, tastiere elettroniche, impianto hi-fi e persino xilofoni e vibrafoni. Tra i numerosi compiti a supporto della dirigente di cui viene incaricato c’è anche la stesura dell’orario. Mentre il primo collegio docenti, a inizio settembre, volgeva al termine, Angelo ha preso la parola – i collegi si svolgono rigorosamente in videoconferenza – per chiedermi di fermarmi qualche minuto una volta disconessi tutti. «Abbiamo comprato un software per creare l’orario. Ci daresti una mano per capire come si utilizza?», mi ha chiesto.

Da allora ci siamo visti spesso in Meet per lavorarci insieme. Lui mi ha dettato i parametri, i nomi dei docenti, il monte ore di servizio. Mi ha seguito mentre inserivo i vincoli dovuti al fatto che abbiamo due sedi e occorre tener conto degli spostamenti, ci sono due docenti di motoria e una sola palestra, ci sono i colleghi che hanno esigenze di disponibilità particolari, quelle che ogni anno, quando alla fine tutte le combinazioni possibili tra le classi sono agli sgoccioli, sono le prime a venir giustamente sacrificate per portare a termine una delle incombenze più complicate del sistema scolastico. Il software, in realtà, non aiuta per un cazzo. Ha svolto il sessanta per cento del lavoro, e di questo gliene sono grato, ma poi il resto delle limature siamo stati costretti a farle a mano. Ha un’interfaccia utente imbarazzante e l’usabilità di autoarticolato senza servosterzo, con milioni di tabelle inutili che si generano in altrettante combinazioni di parametri. «Come faccio a vederle tutti insieme?», mi chiedeva Angelo ogni tanto. Avrei voluto rispondergli dicendo che faceva al caso nostro una di quelle sale controllo che ho visitato per lavoro nella mia scorsa esperienza professionale. Network Operation Center – così si chiamano, sale con le pareti ricoperte da monitor che trasmettono grafici e dati, con i tecnici seduti a controllare che tutto funzioni alla grande.

Angelo ed io ci abbiamo impiegato un trentina di ore in tutto. Quando gli ho chiesto quanto tempo ci mettessero gli scorsi anni a ultimarlo manualmente, mi ha risposto che per l’orario sono state sempre destinate cento ore. Se ne occupava una docente che è andata in pensione. Ci lavorava due settimane e poi passava l’elaborato ad Angelo, che in altri sette giorni sistemava tutte le incongruenze e cercava di soddisfare le richieste degli insegnanti. «Cerca di mettermi non più di quattro ore ogni mattina». «Riesci a lasciarmi un paio di giorni senza la prima ora?». «Al giovedì e al venerdì vorrei uscire alle 12». Cose così. Quanta ingenuità.

In quella trentina di ore trascorse in videoconferenza insieme ci siamo scambiati qualche confidenza. Angelo è un musicista serio, diplomato al conservatorio, mica come me che non ho mai imparato a suonare un solo pezzo dall’inizio alla fine al piano senza steccare almeno una volta. Abbiamo però una cosa in comune: possiamo vantare una carriera di musicisti di pianobar alle spalle, un’esperienza che ha i suoi pro e i suoi contro. Si finiva di suonare alle due di notte, poi si smontava, si andava a letto e, la mattina dopo, alle otto e mezza in ufficio (io) e dietro la cattedra (lui). Angelo mi ha detto che sua moglie lo accompagnava spesso nei locali in cui si esibiva. Ora, invece, la moglie lo assiste nella stesura dell’orario. Quando è tutto pronto Angelo deve trascrivere la versione definitiva sui tabelloni cartacei da appendere a scuola. Si stampa le tabelle realizzate al computer e la moglie gli detta ore, cognomi dei docenti e classi in cui si tengono le lezioni. Io mi sono un po’ vergognato perché abbiamo fatto spesso tardi, e mia moglie e mia figlia invece non si sono dimostrate così collaborative, anzi spesso si sono lamentate ad alta voce del fatto che, fuori servizio, dedicassi così tanto tempo alla scuola. Ma non è un problema. Anzi.

Mentre lavoravamo in collegamento video dalle nostre rispettive abitazioni, ogni tanto la mia gatta saltava sul pc – abitudine che non dismette mai – e si mostrava davanti alla webcam. Il fatto è che anche Angelo ha un problema di animali domestici impiccioni. Angelo è proprietario di un gigantesco pappagallo che, quando soffre la solitudine o vuole attirare l’attenzione, emette dei fischi fastidiosissimi a un volume spropositato. Riuscire a concentrarsi per portare a termine l’orario con quei versi in cuffia è stata un’impresa. Altro che acufene. I fischi erano continui ma lui sembrava totalmente a suo agio. «Vuoi vederlo?», mi ha detto un giorno. Senza attendere la mia risposta, si è alzato ed è ricomparso in video con quel gigantesco esemplare variopinto appollaiato sul braccio. A quel punto il pappagallo ha interrotto le sue strazianti lamentele e io ho potuto riprendere a tentare gli incroci possibili tra classi e docenti, tra sedi e palestre, tra vincoli e opzioni in modo efficace.