Scopro solo ora, a distanza di dieci anni, che qualcuno ha insegnato a mia figlia ai tempi della scuola primaria “Strada facendo” di Claudio Baglioni come canzone per uno spettacolo, con tanto di balletto. Probabilmente un’insegnante di religione. E proprio stamattina Marco si è presentato in classe con una felpa tutta colorata di fiamme. Si è avvicinato alla cattedra tutto orgoglioso e ha messo l’indice della mano destra a fianco del logo disegnato come uno scudetto all’altezza del petto. “Maestro, la conosci questa canzone?”. Ho inforcato gli occhiali e sono andato a vedere. Era l’inconfondibile marchio degli AC/DC, il che spiegava il fuoco infernale stampato sull’indumento. “Non è una canzone”, gli ho risposto. “Gli AC/DC sono una band di hard rock”. Mi sono pentito immediatamente di aver fatto il puntacazzista, ma non riesco a fingere di fronte alle cose serie. “Conosci qualche canzone?”, mi ha chiesto, tutto affatto che turbato della cantonata che aveva preso. Allora ho pensato che possono andare affanculo quelli che insegnano le canzoni di Baglioni ai bambini. E ho messo questa.
questione primaria
che livello
StandardLe nuove direttive ministeriali hanno trasformato per l’ennesima volta il criterio e i metodi di valutazione per la scuola primaria. Ad essere precisi, quest’anno – l’anno del Covid, delle mascherine e di tutte le limitazioni alle attività di classe a cui siamo soggetti – c’è stato un doppio cambiamento con triplo salto mortale carpiato e quadruplo avvitamento. Nel giro di un paio di mesi siamo passati prima dai voti ai giudizi (ottimo, distinto ecc…), e poi, ad anno scolastico inoltrato, dai giudizi ai livelli (avanzato – intermedio – base – in fase di acquisizione). In realtà c’è un misunderstanding di fondo. Nessuno ha ben chiaro se si debba attribuire un livello di competenza raggiunta in ciascuna materia o, addirittura, anche un livello conseguito per ogni obiettivo definito nella materia. Per capirci, se un docente in inglese debba attestare il livello avanzato di Anton Luca come espressione della media dei livelli raggiunti in comprensione, lettura, writing e speaking oppure se debba indicare il singolo livello di ciascuno dei componenti della disciplina. Il tutto articolato tenendo conto del grado di autonomia dell’alunno, della sua familiarità con le prove che si trova ad affrontare, delle risorse che è in grado di mobilitare per superarle e della continuità o la sporadicità nella manifestazione dell’apprendimento. In pratica, un vero e proprio report per ogni bambino che è sicuramente fantastico per fornire un approfondito identikit didattico alle famiglie. Il problema è se le famiglie siano dotate degli strumenti per comprenderne la portata e se, soprattutto, saranno in grado di superare le barriere pregiudiziali dovute al complesso del voto. Il livello intermedio corrisponde a 8 o 7?, si chiederanno e si risponderanno i genitori sui gruppi Whatsapp di classe. Purtroppo il passaggio non sarà rapido e indolore. Ci vorranno anni per abbattere nell’opinione comune la logica della valutazione numerica. D’altronde viviamo nell’era della semplificazione e della riduzione a parametro imposta dal primato dell’informatica e del digitale. L’introduzione di una maggiore complessità corre il rischio di allontanare ulteriormente la scuola da tutto il resto.
pizzini
StandardIl MIUR dovrebbe mettere a disposizione di ogni insegnante di scuola primaria un magazzino o un deposito in cui conservare i bigliettini e i disegni con dedica che i bambini realizzano mossi da quell’affetto – inspiegabile – che provano per i loro maestri e dalla voglia di dargli forma attraverso la loro percezione della realtà. Ne parlavo oggi con una collega mentre, in aula caffè, entrambi svuotavamo le rispettive cartelle in cuoio scuro – un classico dell’estetica della didattica – di chili di foglietti impiastrati di svariate grammature e tagli, ricevuti in dono dai bambini nel corso dell’anno scolastico.
Il format più comune è quello dei retro di fotocopie sprecate in formato A4. Su un lato un ritratto astratto del maestro al fianco dell’autrice completato da una dedica sgrammaticata. Sei il maestro più bravo del mondo e ti voglio bene sono i grandi classici della messaggistica di classe, il tutto in un tripudio di cuoricini e di operazioni inventate, se insegnate matematica. Dall’altra, una verifica avanzata perché qualcuno quel giorno era assente o, peggio, qualche documento personale stampato inutilmente, portato da casa e messo a disposizione della classe. Io per esempio avevo riciclato diverse risme di fatture provenienti dall’ufficio di mia moglie. I bambini usavano la facciata libera per pasticciare nell’intervallo e molti di quei fogli poi sono stati riposti in cartelletta e portati a casa, con tutti i loro dati sensibili riportati in intestazioni e colonne di Excel in barba alla riservatezza dei dati. Ogni volta che un mio alunno si approvvigionava ripensavo ai miei genitori che avevano la fobia della documentazione domestica gettata integra nei contenitori della carta e si erano provvisti di un trita-fogli, come se la CIA non vedesse l’ora di spiare le bollette del gas o della luce nella spazzatura della gente comune. O, peggio, qualche vicino curioso. Ho però la certezza che nessun genitore dei miei alunni faccia, come secondo lavoro, l’agente segreto o il detective privato. C’è un carabiniere, ma non mi sembra proprio il tipo.
Comunque i disegni con dedica dei bambini mi permettono di avere il polso della classe e di verificare il mio grado di popolarità tra gli alunni. La mamma di Rebecca mi dice che sua figlia adora me e la mia collega di italiano e riporta come dogma tutto ciò che diciamo. Me ne accorgo perché sta diventando fanatica dello stare a scuola e il fatto che capita che ci chiami papà e mamma è il minore dei lapsus.
In genere cerco di non buttare via i biglietti dei bambini perché mi ritraggono sempre molto più giovane di quanto sono. Magrissimo, altissimo e bellissimo e soprattutto esasperano il mio ciuffo corredando la testa con capigliature degne dei Sigue Sigue Sputnik. Sotto Natale, poi, la produzione di foglietti aumenta esponenzialmente e ora ho uno scaffale dell’armadio dove conservo il materiale didattico pieno. Alissa, addirittura, ha creato un cuore con la plastilina, colorandolo e incidendo un’epigrafe d’amore con un punteruolo. Ci sono poi complicate architetture in carta e nastro adesivo create per far sì che il contenuto del messaggio resti ben nascosto all’interno. I bigliettini, a parte gli scherzi, riempiono di gioia perché quando sei adulto nessuno te li scrive più. Io insegno da poco e quindi, finché non è un problema, di gettarli non ci penso nemmeno.
qualcuno ha detto scoiattolo
StandardNel giardino della mia scuola stanzia una colonia di scoiattoli. In realtà non so quanto sia nutrita perché, al massimo, non ne ho mai non più di due simultaneamente e non potrei affermare con certezza se quello che vedo saltare da un albero all’altro singolarmente in realtà è sempre lo stesso esemplare che esce per approvvigionare il resto del gruppo oppure sono tantissimi e, ogni volta, ne vedo uno diverso. Premesso che ho molti amici scoiattoli – non è vero, eh – non me ne vogliano se affermo con convinzione che si fa molta fatica a distinguerli tra di loro. Una volta ne ho osservato persino uno da abbastanza vicino. Stava ritto su due zampe come uno di quei ratti di fogna che capita di incrociare nei bassifondi genovesi e lanciava un grido inquietante che, se avessi solo ascoltato il sonoro della scena, avrei ricondotto il verso a una delle tante cornacchie che infestano l’hinterland milanese. C’era però un cancello che ci divideva – io ero fuori dal giardino e lui sul ramo di una pianta all’interno – e ho avuto l’impressione che avesse la consapevolezza che non sarei mai riuscito a raggiungerlo per catturarlo. Non che ne avessi l’intenzione, naturalmente.
Quando accompagno la mia classe in giardino per trascorrere l’intervallo capita spesso che uno scoiattolo si lasci scorgere. Se i miei alunni ne vedono uno non capiscono più nulla ed è sorprendente che, ai tempi di Fortnite e di Batman, un comune roditore, per giunta nemmeno particolarmente attraente, susciti un entusiasmo così smodato. Uno dei bambini più esagitati per qualsiasi novità esclama “scoiattolo!” e, nemmeno avessi come alunni un branco di cani da caccia, tutti si scagliano di corsa sulla scia della direzione indicata dal braccio di chi ha fatto la scoperta, urlando e sbraitando come una tribù di guerrieri di quelli che siamo abituati a vedere nelle serie tv sulle popolazioni più selvagge. In quattro balzi e una manciata di decimi di secondo lo scoiattolo guadagna il vantaggio a garanzia della sua incolumità e si porta sui rami alti della vegetazione del giardino. I bambini restano sotto nella speranza che cada o che, più realisticamente, si renda visibile ancora una volta. Uno lo intravede sull’abete più avanti. Un altro sul massiccio tronco dell’acero dalle foglie rosse tutto scavato da potenziali tane di fronte. Per tutta la durata dell’esperienza di contemplazione però i bambini si prodigano in urla lancinanti, come se qualcuno li squartasse con un coltellaccio da combattimento. Si affacciano persino le nonne e i nonni delle abitazioni circostanti e, di questo, un po’ me ne vergogno. Da una parte vorrei intervenire per dimostrare agli anziani spettatori sui balconi che sono un efficace educatore e che la mia mission è quella di fornire strumenti ai miei alunni per comportarsi come si deve. E gridare come un ossesso non fa parte delle best practice delle competenze acquisite. Dall’altra però vorrei lasciarli fare come vogliono. D’altronde, non fanno male a nessuno.
La coppia di bambine più pacifiche corre subito ad avvisarmi che il resto della classe sta spaventando gli scoiattoli. A me gli scoiattoli non mi sembrano un prodigio di pucciosità animale. Voglio dire, ci fosse un panda o qualche altro animaletto grazioso la cosa mi toccherebbe. Gli scoiattoli, pur con le dovute differenze, mi ricordano i ratti dei bassifondi genovesi, l’ho già scritto prima. Quindi non mi dispiace se qualcuno li spaventa un po’. Credo che però se gli scoiattoli scelgono di rimanere nel giardino di una scuola, che durante le due ore dell’intervallo, pioggia permettendo, è infestato da mini-esseri umani che giocano a fare gli indemoniati, sono consapevoli del fatto che un bambino che corre e urla nella sua direzione non costituisce un pericolo di vita. Gli scoiattoli non sono ancora emigrati. Saranno fatti loro.
una lezione di musica
StandardNon credo che l’essere umano preferisca la musica di merda per sua natura. Ascoltiamo musica di merda perché ci educano, sin dalla nascita, ad ascoltarla. E chi ci cresce con proposte musicali di merda lo fa perché, a sua volta, ha avuto approcci con la musica di merda sin da bambino dovuti ai gusti di merda di genitori e insegnanti. La teoria secondo cui la musica di merda sia di più facile ascolto e di assimilazione più immediata non regge. C’è moltissima musica di facile ascolto che non è assolutamente musica di merda, questo indipendentemente dai gusti. La gente ascolta Baby K o Alessandra Amoroso con i Boomdabash perché nessuno offre loro delle alternative da piccoli. La prova del nove è che se offri delle alternative è facile che i gusti delle persone siano più variegati, questo senza andare a scomodare i mostri sacri della musica classica e del rock ma solo limitandoci alla proposta musicale a noi contemporanea.
Il fatto è che a nove o dieci anni i bambini sono già talmente intrisi di musica di merda – e la trap vi assicuro che è il minore dei mali – che riuscire a penetrare il loro universo sonoro con qualcosa di qualità è impossibile. Un buon cavallo di troia è quello dei video. I più giovani, quelli che non usano ancora Spotify – che è la cosa più vicina alla collezione di dischi che avevamo noi ragazzi degli anni ottanta – ascoltano musica su Youtube, arrivando cioè alla dimensione dell’audio tramite quella del video. Ed è proprio questa una delle modalità di educazione all’ascolto che ho adottato alla primaria: cerco videoclip musicali con una trama, un inizio e una fine. Veri e propri film da tre o quattro minuti, e, con la scusa di farli riflettere sulle immagini, propongo ascolti un po’ diversi dal pop italo-caraibico e iramo-ultimistico che va per la maggiore.
Mi sono preparato una playlist di brani con video annesso che ormai posso considerare rodata e con la quale riesco a catturare – e mantenere, che poi è la cosa più complessa – l’attenzione dei bambini. Una lezione di musica da due ore circa che propongo alle classi più alte – quarte e quinte – e con la quale, ad oggi, riesco sempre a fare centro.
La premessa con cui introduco la lezione è che nei video delle canzoni in cima alle loro preferenze c’è gente che balla, che si struscia e che si adopera per sedurre l’ascoltatore, anzi, lo spettatore. Che va benissimo, ci mancherebbe. Ma esistono video diversi dal modello che va per la maggiore e che, a seguirli con la dovuta attenzione, sono storie a tutti gli effetti proprio come quelle che si guardano alla tv o al cinema.
Inizio con “Coffee and TV” dei Blur. I bambini cominciano a muoversi a ritmo appena parte la batteria e, quando si anima il cartoncino di latte con manine e piedini, scoppiano a ridere. Nell’era degli effetti specialissimi, una rudimentale animazione anni novanta strappa un sorriso. La storia raccontata nel video consente diversi spunti di discussione: come ci si sente a essere minuscoli – non solo per le dimensioni fisiche – in una grande città, perché un ragazzo sceglie di andare via di casa e far soffrire mamma e papà (con l’aggravante del comportamento finalizzato a voler fare il musicista), come identificare altruismo e indifferenza, l’amore a colpo di fulmine, la gioia di riabbracciare i propri cari dopo esser stati via per molto tempo, il fine ultimo della vita che è fare del bene e, portata a termine la propria missione, si può anche volare in cielo. Il brano, dal timbro smaccatamente indie-brit-rock, non sempre convince una generazione così conformista come quella dei millennials. Però, come dicevo, è un brano oggettivamente di qualità e ci sono bambini che – giuro – prendono il diario e si segnano il nome della band e il titolo (per farne cosa, non so).
Poi metto “Paradise” dei Coldplay, un po’ più alla loro portata. Ma la sicurezza del pop lascia subito spazio a quello che trasmettono le immagini. La voglia di tornare alle proprie radici, l’Europa e l’Africa, gli artisti di strada e i modi più estremi di guadagnarsi da vivere, fare l’autostop, ritrovare la famiglia o i propri simili perché è bello stare con chi fa le stesse cose che facciamo noi, nel caso del video rivedersi per suonare insieme per poi avere un successo mondiale e tornare, però, ancora a casa perché non c’è posto più bello. Un bel messaggio, no?
A quel punto porto al limite la loro disposizione all’ascolto al di fuori della confort zone proponendo “Just” dei Radiohead. Li preparo prima dicendo che è musica un po’ vecchia e che i tipi che stanno per vedere sono un po’ weirdo, però la storia merita e soprattutto è una sfida alla loro immaginazione per scoprire il motivo che spinge il protagonista a non volersi alzare dal marciapiede su cui è sdraiato e quale ragione adduce per convincere poi tutti gli altri. Dal confronto con i bambini vengono fuori le cose più strambe, ma provate a chiedere alla classe se a qualcuno è mai capitato di avere un punto di vista o una teoria così convincente da persuadere gli altri a comportarsi come farebbe lui. C’è un leader in classe? E perché gli altri lo percepiscono come tale? Tutto questo al netto della soddisfazione di avergli fatto ascoltare i Radiohead.
Stesso discorso con “Instant street” dei dEUS. Quando dalle bocche degli avventori della discoteca escono quelle bolle strane i bambini iniziano ad appassionarsi alla trama, e il finale con il balletto all’alba al cospetto delle forze dell’ordine e lungo la via li manda in sollucchero.
Chiudo la serie con l’immancabile “Happier” di Marshmello feat. Bastille. Il motivo? Dopo essermi così tanto allontanato dall’epoca che vivono, è bene atterrare alla fine del viaggio su un territorio più simile a quello in cui sono nati e cresciuti. Prima chiedo chi ha già visto il video perché è molto popolare tra i più giovani, e se qualcuno alza la mano li prego di non spoilerare con i compagni. Io cerco di non seguirlo alla LIM perché, ogni volta, mi mette in difficoltà. La storia la sapete tutti. Alla fine chiudo il browser e, quasi sempre, cala il silenzio. La percentuale di bambini in lacrime è sempre consistente. Alcuni si arrabbiano perché, secondo loro, un insegnante non dovrebbe far piangere i suoi studenti. Così piccoli, poi. Invece il bello è proprio quello: trovarsi una classe di ragazzini sbruffoni e smantellare la loro presunzione prepuberale orientata all’adolescenza facendoli scoprire il pianto come sfogo naturale e infantile a un disorientamento emotivo. Nel caso di “Happier”, quello del dolore. Risulta però fondamentale portarli a riflettere sul significato della storia raccontata nel video: vale la pena soffrire per la perdita di un cane solo per tutte le gioie che ci ha dato con la sua amicizia disinteressata, tanto che il padre, diventato nonno, fa ripetere l’esperienza della figlia, ora mamma, alla nipote. Il finale del video riconcilia con il mondo, è vero, ma lascia un po’ di amaro in bocca perché è la vita stessa ad essere così: molto bella ma anche un po’ meno bella, a volte, però vada come vada vale sempre la pena. Un valore che può essere applicato in ogni relazione e per ogni aspetto che la vita ci riserva. La fine delle cose, per quanto poco piacevole, non cancella tutto quello che accade in mezzo, a partire dall’inizio.
francobollo
StandardIl layout a mosaico di Google Meet anche in collegio docenti ordina impietosamente in righe e colonne fino a 49 partecipanti con un meccanismo volutamente casuale. Quando si supera abbondantemente il numero massimo consentito tutti i colleghi dal cinquantesimo in poi finiscono nel dimenticatoio – una specie di sottosopra dello schermo del pc – a meno che un rumore diffuso dal microfono lasciato inavvertitamente acceso durante l’ordine del giorno li riporti in primo piano e, di conseguenza, ai vertici della notorietà. Le campane della chiesa a fianco, un figlio che impreca in un inglese inventato giocando a Fortnite, l’effetto delle casse del pc riprese dal microfono e ritrasmesse nelle casse del pc e ri-riprese dal microfono e ri-ritrasmesse dal pc e ri-ri-riprese dal microfono in un loop di ritorni che, se la preside non chiudesse l’audio di chi ha scarsa dimestichezza con la tecnologia, andrebbe avanti in eterno.
L’unica certezza configurabile è il primo video a francobollo in alto sulla sinistra, quello in cui ci sono io. Un io che varia di partecipante in partecipante, sia chiaro. Sul mio schermo ci sono io, sullo schermo della collega che urla con la figlia perché usa il suo pc per le videolezioni e poi non ricollega le cuffie della mamma (perché la mamma non sa ricollegare le cuffie al pc) ci sarà la collega che urla con la figlia e così via. Ciascuno di noi ha un suo io la cui figurina viene incollata da Google Meet nel primo spazio in alto a sinistra, come il portiere di una qualunque squadra di calcio in un album digitale Panini.
Il fatto è che mi trovo a disagio a essere lì in bassa risoluzione e come capo cordata della riunione. Mi sento fuori luogo perché la telecamera del pc è una tacca sotto rispetto agli specchi del parrucchiere, quelli che per un effetto di luci studiato in qualche laboratorio della NASA ti fanno sentire una merda, da un punto di vista estetico. Ma forse il problema è solo mio perché io, a tutti gli effetti, sono una merda da un punto di vista estetico. Ecco. In video sembro peggio ma, soprattutto, sembro un vecchio di settant’anni. Ma forse il problema è solo mio perché io, a tutti gli effetti, sono un vecchio di settant’anni ma questa volta ho le prove che non è così. Ho un certificato di nascita.
E ho provato a indossare la camicia, perché il collo degli anziani spesso è cascante. E ho provato a radermi anche se mi faccio la barba tutte le mattine per non vedermi quei puntini grigi sulla faccia con la lampada del mio scrittoio sparata sulla faccia. E ho provato a tenere gli occhiali sulla fronte come gli architetti fighi e gli intellettuali un po’ vintage. Ma niente. Anche se sono quello che fa cose pazzesche sulle piattaforme digitali e sui dispositivi IT che nemmeno il prof più innovativo del mondo vedo dopo di me, nel layout a mosaico, tessere più giovani di me e più in linea con il nuovo millennio perché vestite e con tagli di capelli più in linea con il nuovo millennio. Ma a me la gente del novecento che si atteggia a duemila mi fa solo tristezza. Si vede che sono uno del novecento, lì nel primo riquadro.
Uno del novecento che schiuma di invidia per i trentenni con le loro dentature perfette e i toraci depilati e le creste con le righe rasate e le sopracciglia disegnate e i tatuaggi di ogni genere, su qualunque parte del corpo che flirtano tra di loro appena tornano nella parte alta della lotteria dei quarantanove francobolli. Anche se fanno gli insegnanti e, a tutta questa deriva, mi ci devo ancora abituare.
giùggol
StandardOggi a scuola non mancava solo il bambino, quello nuovo, quello che la segreteria mi aveva detto avrebbe iniziato stamattina e che chissà da che istituto viene e perché si è trasferito proprio nella mia classe e se avrà già fatto la tabellina del quattro e che sono rimasto ad aspettarlo all’ingresso al freddo e al gelo solo con il maglione e la t-shirt sotto, tanto che la rappresentante dei genitori mi ha detto di indossare la giacca che alla classe servo sano.
Oggi a scuola mancava Google perché era giù, insieme a tutta la piattaforma di didattica a distanza. Dicono gli hacker russi. Dicono gli studenti della secondaria di primo grado del comprensivo in cui insegno io, quelli che sbagliano di proposito tante volte la password dell’account della prof di matematica così le si blocca l’accesso e per ventiquattr’ore niente lezione. Dicono gli emuli di quel gruppo trasversale di goliardi di un liceo di provincia negli anni 80, che telefonavano per dire che c’è una bomba e che al primo di aprile hanno cementato un water e un bidet davanti al cancello principale. Dicono un black-out alla primaria che ha messo fuori uso persino il sistema che apre il cancello elettrico – appunto – che ha bloccato tutti dentro e l’erre esse pippì, di indomite origini pugliesi, si è messo a smadonnare in dialetto tra lo sgomento dei genitori in attesa fuori. Se un virus biologico mette fuori uso la didattica in presenza, un virus informatico non può mandare in tilt la didattica digitale integrata. Poi Google è tornato con le sue mail, il suo archivio nel cloud infinito, la sua videoconferenza e gli scherzi che i ragazzi fanno ai professori. Non funziona il microfono, non la vedo, non va Internet, la-sen-to-a-scat-ti, la mail con il compito è tornata indietro con un messaggio di errore, la mail gliel’ho mandata ieri sera, non l’ha ricevuta?
Alcuni hanno però sperato che si spegnesse tutto, una volta per sempre, per una di quelle conclusioni drastiche che auspichiamo nelle serie tv che vanno tanto per le lunghe in cui, a un certo punto, non si capisce più niente. Bisognerebbe ripartire dal primo episodio, di questa scuola da remoto, e ripercorrere le trame che ci hanno condotto a relazioni a singhiozzo, a raccapriccianti metodi didattici, a sistemi di valutazione randomizzati. Quello che è certo è che il bambino, quello nuovo, quello che oggi avrebbe dovuto iniziare ma che invece ha preferito un sopralluogo da fuori per mano con la mamma, durante l’intervallo lungo quando i bambini sono in giardino con tre gradi perché è più salutare che stare seduti in classe, comincerà domani. Stamattina avevo persino scritto “Benvenuto Mattia” sulla lavagna, quella di ardesia, quella che si usa col gesso, quella sulla quale, se Google non funziona, i disegni delle cose che spieghi – per farle capire – li devi fare ricordandoli a memoria.
adulatori
StandardQuest’anno accendo pochissimo la LIM, anche se con delle cannucce di cartone che si trovano alla Coop ci siamo inventati la bacchetta magica per evitare che i bambini tocchino la stessa penna per scrivere e giocare sulla lavagna interattiva e non si contagino a vicenda. All’inizio il motivo era proprio quello. Evitare cioè che gli alunni stanziassero nel rettangolo maledetto, quello tracciato con il nastro adesivo sulle piastrelle a delimitare lo spazio in prossimità della cattedra in cui sono tenuti a barricarsi i vecchi docenti per evitare la contaminazione dai giovani virgulti asintomatici. Così ho riesumato qualche confezione di gessi colorati da un magazzino di materiale da cui non si serve più nessuno e mi sono messo a scrivere e disegnare sulla lavagna. Perdo un sacco di tempo utile per la didattica, ma non avete idea dell’autocompiacimento nel rappresentare le foglie in tutte le loro forme con le innumerevoli sfumature del verde e del rosso o realizzare Super Mario in versione Pixel Art. I bambini delle altre classi, quando passano per andare in bagno rigorosamente negli orari concordati, si fermano a sbirciare i miei capolavori. I miei alunni mi dicono in continuazione che disegno molto bene ma sono certo che lo fanno per non lasciarmi desistere e continuare a perdere tempo anziché impiegarlo per fare rigide verifiche con operazioni in colonna e problemi. E pensare che in quarta mi ero preso arte a settembre, ma era successo perché avevo mandato affanculo la prof. Mi diverto un sacco a creare vere e proprie infografiche alla lavagna e a farle ricopiare fedelmente ai bambini, che ora hanno i quaderni che sembrano brochure di qualche campagna marketing perché, anche se non sembra, sono discretamente pignolo e chiedo di rispettare al massimo l’organizzazione del foglio come voglio io. Allora, per scherzare, dico alla mia classe di continuare a farmi i complimenti quando desiderano perché a me piace molto. Per questo non mi sottraggo ai vari quanto sei bravo maestro o che capolavoro che hai fatto, che poi gradualmente giungono a distorsioni del tipo maestro come sei bello. E, credetemi, non posso che dar loro ragione.
passo e chiudo
StandardAlba opera come mediatrice linguistica e alla comunicazione di bambini stranieri che, come se non bastasse per avere difficoltà di integrazione nella scuola italiana, hanno anche parzialmente perso l’udito. Sarà per questo che non capisco mai quello che mi dice e no, la mascherina non c’entra, anche se costituisce un ostacolo al dialogo senza precedenti. Mi parla a distanza di sicurezza sovrastata dal rumore di una classe intera di bambini che già sono encomiabili per l’abnegazione con cui rispettano le regole del distanziamento sociale ma, appena la situazione lo consente, tornano a essere i bambini di sempre, quelli che conoscono a malapena il concetto di autocontrollo. O almeno credo che mi parli, perché resta in piedi rivolta verso di me e vedo che sotto la mascherina qualcosa si muove. Io annuisco con la testa e basta perché, anche se avvicinassi l’orecchio alla sua bocca come accade in condizioni normali, farei fatica a decifrare i contenuti. Comunque, nel dubbio, me ne guardo bene dal superare il metro e venti che impone la normativa e faccio finta di capire. Ci sono sempre più colleghi che accusano i sintomi. Chi non percepisce più gli odori dal naso, chi si sente spossato, chi non si muove dal letto per la febbre alta. Tutto nella norma, per fortuna, perché ci sono casi ben peggiori. L’impressione è che, a differenza di prima, il radar di contagi intorno a noi rilevi sempre più persone positive, che ha un’accezione fin troppo negativa, e riduca sensibilmente i gradi di separazione. Eppure, nel timore di perdere tempo utile, tutto continua a rimanere inutilmente aperto.
equilibrista
StandardStare in classe di questi tempi è un po’ come quando Giulio impila sul banco l’astuccio con sopra il righello con sopra la gomma con sopra la palette di acquerelli con sopra l’altro righello con sopra la bic multicolore e poi chiama Nicolò per mostrargli il prodigio tenendo le due mani ai lati come se i palmi emanassero una sorta di onda magnetica che impedisce alla torre di materiale scolastico di crollare, prima sul banco e poi a terra e poi sulla mia pazienza.
Ieri mi sono avvicinato alla sua postazione che dista un metro e venti precisi da quelle dei compagni – le aule ai tempi del covid sembrano una rappresentazione vivente di campo minato.exe, poi diventato per fin troppo ovvi motivi politically correct prato fiorito.exe – e con una delle mie Camper numero 47 ho fatto finta di inciampare nel banco, mettendo fine alle sue velleità ingegneristiche.
Una scena che rende perfettamente il clima durante le lezioni: io confinato dietro il rettangolo marcato dal nastro adesivo giallonero che tento, con un illusorio superpotere che si propaga dalle mie mani posizionate secondo la gestualità di un rito propiziatorio – di mantenere diciotto bambini perfettamente posizionati a distanza di sicurezza con la mascherina tenuta fin sopra al naso, senza soluzione di continuità. Ci vorrebbero le bacchette del calcio balilla a cui assicurare – metaforicamente, s’intende – gli alunni ordinati in file, in modo che quando qualcuno dondola sulla sedia e mette a rischio il metro e venti automaticamente anche gli altri fanno lo stesso, così da far portare agli insegnanti a casa la giornata.
Se si rispettano le regole, dice la normativa, non abbiamo nulla da temere. Ma si tratta di un equilibrio complicatissimo, come potete immaginare, e non voglio esagerare tirando in ballo il filo del rasoio.
Sono così ossessionato da gente che si avvicina ad altra gente senza niente sulla faccia che quando guardo un film pre-lockdown alla tv mi chiedo come sia possibile che uomini e donne si diano un bacio, oppure nei pub seduti al bancone gli amici si parlino nelle orecchie per la musica alta, o anche che qualche attore di buon cuore stringa uno sconosciuto in un abbraccio. Film e serie in cui non si vede una mascherina chirurgica se non in sala operatoria o serrati nel cassone di un’ambulanza, con il medico in prima linea che rianima bocca a bocca l’incidentato di turno.
Così cambio canale e cerco un tg, un talk o uno dei millemila programmi giornalistici in cui uomini politici ed esperti di sanità pubblica – rintanati nelle rispettive abitazioni – si rimbalzano onori e responsabilità fino a quando l’anchor man/woman lancia il servizio o l’approfondimento e, finalmente, tutto torna alla normalità con le immagini di repertorio di gente che fa le cose che facciamo tutti – cammina, corre, va a scuola, sta in ufficio, va al supermercato – con la mascherina a ridurre tutte le espressioni del viso a una sola, sempre la stessa.