per aspera ad astrazeneca

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Se potessi valutare il Drive Through del Parco di Trenno di Milano, ubicato qui e organizzato dagli Ospedali San Paolo e San Carlo, come si fa come i corrieri Amazon a cui puoi dare cinque stelle (non nel senso dei grillisti) e poi aggiungere che sono stati puntuali, cortesi e si prendono cura sia del prodotto – in questo caso un ago da infilzare nel braccio per riempire il sistema immunitario del cliente del vaccino contro la malattia del momento – che, appunto, del cliente, darei il massimo dei voti e metterei una di quelle recensioni da nerd in cui i fanatici dell’e-commerce descrivono l’esperienza di acquisto per filo e per segno, spaccando il capello. Niente coda, informazioni chiare, gente che sa il fatto suo e che ti smista nei punti in cui devi andare, personale sanitario che ti tira su di morale, persino carabinieri che ti prestano la bic rigorosamente senza cappuccio se ne sei sprovvisto per compilare i vari moduli (vi consiglio di portarvene almeno un paio, una per voi e un’altra da prestare a gente come me). La faccenda si sbriga nel giro di un’ora: sono arrivato con un quarto d’ora d’anticipo, sono stato vaccinato un quarto d’ora più tardi rispetto all’orario di convocazione, ho atteso un quarto d’ora nel parcheggio per scongiurare i postumi immediati più gravi e sono tornato a casa. La formula Drive Through, più che al McDonald’s, ti fa sentire all’imbarco della Tirrenia per la Sardegna, e se non fosse che è marzo e che non c’era nemmeno un California munito di maggiolina sul tetto e portabici colmo all’inverosimile guidato da tedeschi con sei figli al seguito, mi sarei messo a preparare il nécessaire per trascorrere la notte sul posto ponte con materassino, libro, Ichnusa e buona musica. Il fatto però è che non ho capito se la qualità del vaccino Astrazeneca sia in linea con il resto dell’equipaggiamento pensato per il personale scolastico, come i pc con processori degli anni novanta che i più scaltri fornitori iscritti al MEPA riescono a rifilare a DSGA poco avvezzi alla digital transformation (nei migliori dei casi), l’idea intrinseca delle LIM che sono una delle più clamorose truffe ordite ai danni della pubblica amministrazione, certi software per le attività di gestione quotidiana fatti con i Lego o l’offerta formativa in progress per i docenti, che in qualsiasi altro settore nessuno sceglierebbe nemmeno per gli addetti delle pulizie, senza nulla togliere alla professionalità degli addetti pulizie. Io spero di no e a poco meno di cinque ore dall’iniezione del vaccino più chiacchierato del momento posso dirvi che va tut

la musica si suona

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Il prof di musica tiene le sue lezioni a distanza in un’aula dedicata alla disciplina. Si capisce che è diplomato in percussioni perché il laboratorio è disseminato di metallofoni, marimbe, xilofoni, tamburi, timpani e c’è persino un gigantesco gong. Se avessi un gong in classe lo suonerei quando i bambini oltrepassano il limite. Ci sono le giornate in cui sono più vivaci, soprattutto durante le lezioni pomeridiane quando, con la scusa che sono stanchi, si lasciano andare a comportamenti che richiedono una capacità di sopportazione superiore da parte dei docenti. Io non ci credo, per me è tutta una scusa e se avessi il gong non esiterei a usarlo per convincerli a stare in silenzio. Una collega sfoggia sulla cattedra uno di quei campanellini da reception, avete presente? Non so quanto sia efficace, di certo meno di un gong. Il fatto è che l’aula di musica vuota con il prof che tiene le sue lezioni da lì come se fosse il comandante di una nave che sta affondando e il suo senso del dovere gli impone di abbandonarla per ultimo è di una tristezza infinita. Nelle sue lezioni spiega gli strumenti musicali. Ho già assistito alla presentazione degli strumenti a percussione – che sono quelli che tratta per primi – e dei legni. Ne spiega la struttura e il funzionamento e poi passa all’ascolto dei suoni, per abituare i suoi alunni al riconoscimento degli strumenti anche attraverso Youtube. Lo so perché ho trascorso qualche mattina al suo fianco. L’aula blindata con i dispositivi per la didattica a distanza da distribuire alle famiglie bisognose dà proprio sull’aula di musica e mentre spiega l’ottavino e il corno francese io configuro tablet e pc. Per tirarlo su di morale fischietto le arie che conosco quando le fa ascoltare sul computer. Tra due anni andrà in pensione ma non l’ho mai visto senza la giacca, i pantaloni di velluto e le clarks blu. Qualche alunno gli chiede se, oltre alla teoria, riusciranno a suonare da remoto. Lui mi guarda, poi guarda loro e ridacchia amaramente. Senza tanti giri di parole gli dice che sarà difficile, anzi impossibile, anche se così non è musica. La musica si suona.

l’ultimo giorno di scuola

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I primi messaggi sulle numerose chat di cui faccio parte (team di classe, team di classe con la rappresentante dei genitori, team di interclasse, team di interclasse con le rappresentanti dei genitori di tutte le seconde, team di interclasse degli insegnanti dell’area logico-matematica, team di plesso, team di istituto di supporto alla dirigente) sono circolati a metà mattinata di giovedì. Dalle 00:00 di venerdì si chiude anche alla primaria, siamo in arancione scuro. Penso a quale possa essere la regola per la palette di questa pandemia se poi ogni volta c’è qualcuno che aggiunge una sfumatura per cambiare le carte in tavola. Se si potesse ricondurre tutto all’informatica ci sarebbero processi molto più rigorosi.

Mi sento male. Cerco qualche segno della consapevolezza di ciò che sta per accadere negli sguardi dei bambini nascosti dalle mascherine e mi sento male. Dal primo giorno di scuola non abbiamo saltato nemmeno un minuto. Un paio di miei alunni sono stati in quarantena ma per colpa dei genitori. Nessuno ha contratto il virus, almeno non risulta. Ci divertiamo un sacco, tutti quanti, e so che quando saranno a casa non sarà così.

Non so se e come dare la notizia. Li porto in giardino dopo la mensa e d’improvviso mi scopro più permissivo. Gli lascio lanciare le pietre per fare canestro che se passa un compagno sotto gli cadono in testa, spiaccicare i vermi con i sassi voluminosi anche a rischio di spappolarsi le dita, correre con i rami in mano che se cadono si infilzano.

Chissà se percepiscono qualcosa. Incrocio qualche collega furibondo quanto me. In realtà non sono arrabbiato. Piuttosto demoralizzato. Anzi, mi viene proprio da piangere. Ma se i maschi non possono farlo, figuriamoci gli insegnanti maschi. Di lì a poco un prof di italiano della secondaria porta fuori la classe per leggere insieme all’aperto “Io non ho paura”. Ha visto anche lui la notizia e dice che vuole sbollire la rabbia all’aperto.

Torniamo in classe e mi chiedo se abbia senso portarli lo stesso in laboratorio di informatica. So che ci tengono molto. La tentazione è restare in aula e proporre la visione de “Il mio vicino Totoro”. Poi mi ricordo di quel passaggio di “Se questo è un uomo” in cui le madri preparano ugualmente il pasto ai loro bambini pur sapendo che a breve saranno stipati nei vagoni piombati verso la morte. Mi rendo conto di drammatizzare in eccesso la cosa. In laboratorio gli faccio creare la tabella per ordinare gli elenchi che abbiamo preparato con gli animali classificati secondo ciò di cui si nutrono ma gli lascio scegliere un colore diverso per ogni nome e anche per lo sfondo di ciascuna cella.

Nel frattempo giunge la conferma ufficiale tramite circolare della dirigente. I giochi sono fatti. Con la collega decidiamo di parlare chiaro e, a qualche minuto dalla campanella, li aggiorniamo su quello che succederà da domani.

Quel poco che si vede delle loro facce sopra le mascherine parla chiaro. Simone, il cinico della classe, è contento di restare a casa, anche se non ci credo. Tutti gli altri hanno gli occhi lucidi. Denis dice che non gli piace non venire a scuola, è figlio unico e dovrà stare da solo. Cerchiamo di sembrare certi del fatto che si tratterà solo di una settimana, che comunque ci vedremo sul computer, che non dovremo assolutamente perderci di vista. L’esperienza mi insegna che sarà, ancora una volta, un ultimo giorno di scuola anticipato. Niente odori della primavera dalle finestre spalancate, niente visita didattica alla fattoria, niente vero ultimo giorno con il conto alla rovescia prima della campanella di fine anno.

Al cancello consegno come sempre ogni bambino a chi è venuto a prenderlo. Con i genitori ci scambiamo uno sguardo di compassione reciproca. Che ne sarà di loro senza di noi, che ne sarà di noi senza di loro.

cinque minuti prima

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Il regolamento a scuola impone di farsi trovare in classe pronti ad accogliere i bambini almeno cinque minuti prima dell’inizio delle lezioni. Gli insegnanti sono responsabili di tutto ciò che accade tra le mura dell’aula in cui prestano servizio, mai lasciare gli ambienti incustoditi. A me piace arrivare con lauto anticipo, quando ho la prima ora. Almeno trenta minuti prima. Entro in classe, accendo il pc, metto un po’ di musica, firmo il registro elettronico, se occorre preparo il materiale per quello che farò, apro le finestre, sistemo se c’è qualcosa in disordine. Ma finisce che poi non riesco a fare niente di tutto questo perché la scuola è un ambiente di lavoro in cui c’è bisogno di confronto, spesso frainteso come voglia di chiacchierare. Saluto le colleghe che dalla cattedra vedo transitare in corridoio e se mi scappa di far seguire un “come va?” al “ciao” di circostanza posso dire addio a tutta la fase preparatoria della mia giornata lavorativa. Occorre fare dei distinguo, però. Capita spesso che qualcuno approfitti della calma apparente del pre-campanella per chiedermi aiuto per qualcosa: l’antivirus, il registro elettronico, la versione digitale del libro di testo, le casse del pc, il wireless, la LIM che non si accende perché qualcuno ha staccato la presa. Ma non sono poche le occasioni in cui, dopo i convenevoli (che poi ci si incontra ogni giorno, non capisco il bisogno di sincerarsi delle condizioni altrui in continuazione) ci si sposti abilmente sul piano personale per trovare un po’ di conforto a problemi di cui la scuola è solo un aspetto marginale. Io vengo da un ambiente professionale –  quello delle PR e della comunicazione – in cui ogni mattina tra colleghi ci si accoglie come se si ritornasse dalle vacanze ma poi, chiusa la porta dell’ufficio, ci si manda bellamente affanculo. Nel resto della giornata si conversa esclusivamente al telefono con clienti e fornitori con la stessa dinamica: sorriso smagliante durante la chiamata e, una volta appesa la cornetta, un ma vai a cagare non si risparmia a nessuno. Al netto delle telefonate non vola una mosca, se non per lamentarsi ad alta voce di una email non gradita. La pausa pranzo funziona anche come armistizio. Si riallacciano i rapporti con i colleghi giusto per il tempo di ingurgitare un’insalata da quindici euro e un caffè. Quindi torna tutto come prima. La scuola per fortuna è l’opposto perché intanto è frequentata da gente che se la tira molto meno e poi la relazione non commerciale favorisce conoscenze piuttosto sincere e approfondite. In tempi di riunioni esclusivamente in videoconferenza, durante quei venti minuti prima che entrino i bambini si concentrano così le ore che una volta si passava a costruire rapporti di una vita, al netto del turn-over che è tipico dell’organizzazione scolastica. Insomma, per farla breve, arrivo sempre prima ma non riesco a concludere un tubo. Alle otto e venticinque i miei bambini, perfettamente incolonnati, marciano fino alla classe, fanno la fila davanti all’igienizzante per le mani e, uno ad uno, si dirigono alla loro postazione. Io spengo la musica, rimetto a posto quello che avrei dovuto preparare ma non ci sono riuscito e penso che dovrò cominciare a presentarmi davvero cinque minuti prima, come fanno le colleghe che non hanno bisogno di sfogarsi con me.

il nuovo sistema di valutazione della scuola primaria for dummies

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Se avete figli più o meno dell’età della mia, usciti cioè dalla scuola primaria negli ultimi dieci anni, vi sarete imbattuti in quello che spesso veniva indicato come generatore random di giudizi del primo quadrimestre, una sorta di sistema pensato per assemblare (casualmente per i genitori, con un certo metodo a detta degli addetti ai lavori) una combinazione di frasi copiate da una matrice di dubbia provenienza (il ministero? una commissione valutazione? qualche collega mitomane? plagio da analoghi documenti precompilati e pubblicati sul web da un altro istituto comprensivo? davvero un generatore random?) in dotazione ai docenti e incollate sulla pagella con l’obiettivo di trasmettere l’idea che gli insegnanti dei vostri figli hanno a cuore – appunto – i vostri figli e – appunto – i vostri figli non sono solamente un ottimo, un buono, un sufficiente o un insufficiente, tantomeno un valore da zero (che nessuno farebbe mai andare sotto il sei pena lo scatenarsi di un sabba di ricorsi) a dieci.

L’esistenza di una matrice da cui copiare e incollare le frasi per la composizione dei giudizi è da intendersi come frutto della volontà di standardizzazione del processo valutativo in una griglia in cui riuscire nell’impresa di collocare tutti gli studenti nella loro immensa eterogeneità ma secondo i medesimi parametri. Chi non è del mestiere, invece, vive nella convinzione che i giudizi siano alla fine tutti uguali perché – fondamentalmente – gli insegnanti non hanno voglia di fare un cazzo malgrado i quattro mesi di vacanza al netto delle festività natalizie, il carnevale e la Pasqua.

E in effetti, se proprio proprio noi insegnanti facciamo lo sforzo di vedere le cose dal punto di vista degli altri stakeholder della scuola, considerando che la valutazione è o, per lo meno, costituiva fino a ieri l’altro il fulcro della didattica, uno che non è del mestiere può chiedersi (e chiederci) perché non ci sia mai passata per la testa l’idea di personalizzare quei giudizi standard mantenendo l’impostazione di base ma arricchendo l’ossatura, stilando cioè, per ogni caso, un ritratto individualizzato dello studente nella sua esperienza didattica. Vi faccio un esempio.

Matteo ha mantenuto un interesse costante per le attività scolastiche. Buoni sia la partecipazione che l’impegno dimostrati. Ha svolto i lavori con precisione e cura sapendosi organizzare in modo efficace e autonomo. Ha saputo utilizzare i linguaggi delle diverse aree disciplinari adeguatamente rielaborando le conoscenze acquisite.

Smanettando nel back-end del registro elettronico c’è una funzionalità che permette di creare una struttura di giudizio di questo tipo, con un arsenale di aggettivi che variano le frasette suggerite e permettono di ottenere una scala graduata mimetizzata da storytelling educativo. Sta agli insegnanti corredarla di particolari ma, si sa, nel pubblico non tutti sono pronti a prendersi la responsabilità di allontanarsi dalle linee guida. Il motivo? Se a un genitore salisse la fregola di sbandierare gli obiettivi ministeriali e il piano triennale dell’offerta formativa della scuola sotto il naso del dirigente chiedendo lumi circa le discrepanze rispetto al percorso didattico (e conseguente valutazione) proposto al figlio, il dirigente, che per uno stipendio da fame si accolla ogni tipo di responsabilità su tutto ciò che rientra nei confini fisici, morali, legali e digitali della scuola che presiede, si precipiterebbe immediatamente a chiedere la testa del docente inadempiente e, come uno di quei video con le tessere del domino che cadono una sull’altra coreograficamente a perdita d’occhio, si innesterebbe una catena di reazioni nella grande chiesa dell’istituzione scolastica che parte dai sindacati e arriva sino al TAR passando per il provveditorato provinciale e regionale e il consiglio d’istituto. Questo è uno dei motivi – in generale, non solo per la valutazione – per cui chiunque a scuola se ne guarda bene dal prendere l’iniziativa per qualunque cosa e quando – faccio un esempio – fai per buttare nel cestino un cd rom di installazione per Windows 95 marchiato come asset della scuola e che nessuno usa più da – appunto – dal 95, ti guardano come un appestato, considerando che occorrerebbe mettere in moto una catena di attività per lo scarto senza senso per le persone normali, considerate invece sacre dagli ortodossi della pubblica amministrazione. Quindi, per farla breve, i genitori di Matteo, Elisa, Filippo, Rebecca e di tutti gli altri si ritroveranno la stessa solfa sulla pagella scoprendo, al primo confronto nel gruppo Whatsapp di classe, che ogni bambino, agli occhi del sistema valutativo e degli insegnanti, non ha niente di speciale.

Il fatto è che nell’anno in cui la scuola (come tutto ciò che ci riguarda) è stata rivoltata come un calzino da una creatura dalle dimensioni che variano da 50 a 140 nanometri, che a dirla tutta non so nemmeno quanto sia ma l’ho trovato qui, alla primaria è stata messa in atto una trasformazione senza precedenti: voti e giudizi sono stati soppiantati da indicazioni sul livello che lo studente ha raggiunto negli obiettivi di apprendimento definiti nel piano dell’offerta formativa. Chiaro, no?

MA CHE COSA SONO GLI OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO?

È la destinazione, materia per materia e anno per anno, verso il raggiungimento della quale il docente deve guidare lo studente con la sua attività di mediatore tra disciplina e apprendimento. Gli obiettivi di apprendimento sono organizzati in categorie chiamate nuclei fondanti. Per esempio:

classe: seconda
disciplina: matematica
nucleo fondante: risolvere problemi
obiettivo: riconoscere diverse situazioni problematiche individuando possibili soluzioni

oppure
classe: seconda
disciplina: matematica
nucleo fondante: spazio e figure
obiettivo: riconoscere, rappresentare e misurare forme del piano e dello spazio dell’ambiente circostante.

L’insegnante prepara gli studenti in modo da fornire supporto al conseguimento di questi obiettivi,  nell’esempio che ho riportato alla fine della seconda. Un percorso che, naturalmente, prevede prove in itinere che vanno valutate. Fino allo scorso anno la scala di valutazione di ogni prova erano i giudizi (ottimo, distinto ecc…) ma due anni fa c’erano i voti. A fine quadrimestre e a fine anno l’insegnante calcolava la media dei risultati e emetteva un giudizio o voto finale per ogni disciplina (italiano, matematica ecc…) corredato da un giudizio globale secondo i criteri che ho riportato sopra. 

Ora invece le cose sono cambiate e, per capirle meglio, è bene partire dal fondo. A fine quadrimestre e a fine anno non si valuta più la disciplina ma i singoli obiettivi di ciascuna disciplina, indicando il livello (avanzato, intermedio, base o in fase di prima acquisizione) raggiunto dallo studente, secondo il suo insegnante. Per esempio, in matematica il livello di Matteo per l’obiettivo “riconoscere diverse situazioni problematiche individuando possibili soluzioni” potrà essere avanzato, mentre per l’obiettivo “riconoscere, rappresentare e misurare forme del piano e dello spazio dell’ambiente circostante” potrà essere intermedio. Tutto questo per ogni materia.

Ogni prova in itinere, pensata per testare la familiarità del bambino con gli argomenti trattati, è anch’essa valutata a livelli. Risulta fondamentale infatti superare ogni rimando alla terminologia di valutazione usata in precedenza. Ne consegue che indicatori come buono, sufficiente e ottimo sono da evitare come la peste. Quindi, ancora per fare un esempio, lo svolgimento di una verifica contenente dei problemi riconducibile all’obiettivo “riconoscere diverse situazioni problematiche individuando possibili soluzioni” potrà essere valutata di livello avanzato, intermedio, base o in via di prima acquisizione, chiaramente a seconda di come è stata svolta, come sempre. A corredo del livello sarà fondamentale – sia per introdurre studenti e famiglie al nuovo sistema e sia per conferire autorevolezza a quanto espresso dal docente – approfondire i dettagli a giustificazione del livello attribuito. Se Matteo capisce il procedimento che porta alla soluzione del problema ma sbaglia il calcolo, il livello potrà essere lo stesso avanzato, per dire. Il docente scriverà, a rinforzo della sigla LA (livello A, cioè livello avanzato) che Matteo, vittima di un momento di distrazione, ha comunque centrato la finalità della prova. Il bello è che a fine quadrimestre e a fine anno non ci sarà più nessuna media numerica derivante dall’attribuzione di un valore a ogni livello. Si potrà, al contrario, definire un corposo profilo didattico del bambino e confermare (o meno) i progressi (o la debacle) di cui si è reso protagonista per ogni obiettivo. Tutto questo, ancora, per ogni materia.

Facile intuire quanto il passaggio da un metodo basato su un foglio di calcolo, in cui è sufficiente cliccare sul simbolo corrispondente per avere la media automatica, a una reportistica così particolareggiata sia stato uno shock per noi insegnanti della primaria. C’è molto lavoro in più. Ma è un’occasione da non perdere: finalmente bambini e genitori non faranno di tutto per avere voti alti con ogni mezzo e si estinguerà quella arcaica mentalità di confronto con i compagni di classe. Quanto ha preso Elisa? Quanto ha preso Rebecca? Calcolate qualche anno per trasformare la forma mentis dei docenti e altrettanti per cambiare l’approccio competitivo delle famiglie alla scuola. E poi, finalmente, lo sostengono quasi tutti, quando la macchina sarà a regime qualcuno troverà un nuovo sistema e tutto ricomincerà da capo. Io, però, questa volta sono fiducioso.

the great gig in the school

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Quando Matteo arriva, la mattina, lo sentiamo tutti. Matteo ha un selettore interno che sostituisce il classico potenziometro di cui la maggior parte di noi è provvista e che ci consente – ruotando un manopolone – di passare da uno stato d’animo all’altro in modo graduale, tale che ogni valore della scala permetta al prossimo di intuire la percentuale di incremento del livello successivo e, nel caso, adottare le adeguate precauzioni.

Matteo invece ha una levetta che passa da zero alle urla strazianti che emette per esprimere qualunque situazione di disagio provi. Negli asperger ogni piccola variazione della routine può risultare fatale ma tutto il personale scolastico che segue Matteo se ne guarda bene. La cause che lo mettono in crisi risultano, ad oggi, molto spesso imperscrutabili. Segue un orario ridotto che regolamenta ingressi e uscite diverse dal resto delle classi. E se per tutti è lunedì, per Matteo è lunedì al cubo. Non ho idea di come rappresenti (e cosa rappresenti) nella sua testa il rientro a scuola dopo il fine settimana a casa. Io lo chiamo “the great gig in the school” e non lo dirò mai a nessuno perché su certi temi non si scherza, specie se appartieni alla categoria di chi si prende cura dei bambini. Avete capito: la performance di Matteo mi ricorda uno dei miei brani preferiti dei Pink Floyd, quello che si contraddistingue per il lungo assolo vocale di Clare Torry che – ma forse lo sapete già – si è trovata quasi per caso a incidere una delle tracce più iconiche della storia della musica.

Il titolo del brano estratto da “The Dark Side of the Moon” non lascia dubbi: il grande spettacolo nel cielo, che io ho sempre inteso come un modo umano – il canto – di sfidare la bellezza e la complessità dell’universo facendoci sentire in quello spazio infinito e oscuro occupato solo da un prisma, ma forse mi sbaglio. Matteo entra a scuola e, soprattutto se è lunedì, parte con il suo assolo di urla atroci di bambino e va avanti per un bel po’. Un bel po’ che a volte dura anche quindici o venti minuti, ho provato a controllare.

Io che spesso tengo la porta della classe aperta perché fa caldo e perché è meglio aerare le aule il più possibile, in tempi di pandemia, mentre mi precipito a chiuderla mi chiedo che cosa capiscano i miei bambini – che sono ancora piccoli – di quel concerto. Me lo chiedo perché quando arriva Matteo e inizia il suo assolo mi scrutano in viso perché vorrebbero avere una spiegazione o anche una risposta. Forse ce l’hanno già e vogliono solo mettermi in difficoltà. E, in quel frangente, potrebbero farlo in mille modi diversi.

La cosa si ripete ogni settimana, ci sono certi periodi in cui urla ogni giorno. Mi alzo per chiudere la porta, guardo fuori e scambio un’occhiata con le colleghe che si occupano di lui. Le guardo perché vorrei dire loro che le ammiro perché io, davvero, al posto loro non saprei come cavarmela. Vedo Matteo sdraiato sul pavimento e le colleghe che cercano di portare la levetta del selettore a zero ma è molto difficile. E come la canzone dei Pink Floyd, che è senza parole, ognuno tenta un’interpretazione del significato del grande spettacolo di Matteo. Così ho imparato a prendere la sua arte così come è, senza cercare tante spiegazioni. Ogni compositore ha tutto nella sua testa. Non vedo perché Matteo dovrebbe svelarci il suo mistero.

insegnare domani

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Sono le 18:12 del 10 agosto 2016 e lo smartphone nella retina portabibite della sedia da mare brandizzata Ichnusa su cui sono seduto emette un inequivocabile tono di avviso. Mi aspetto l’ennesima rottura di scatole dall’ufficio, d’altronde sul bagnasciuga le conversazioni al telefono che cominciano con “sono in ferie ma dimmi pure” sono all’ordine del giorno. L’oggetto della e-mail, questa volta, è però qualcosa di completamente diverso: “Concorso docenti – Convocazione prova orale Scuola primaria”.

Una ditata sullo schermo e, in quella manciata di istanti che il dispositivo impiega per aprirla, capisco che è qualcosa di grosso. Passo in rassegna il colore del mare della Costa Rei, gli amici del campeggio che – come me – si godono le ore migliori della spiaggia, mia moglie sdraiata sul telo che legge, mia figlia che chiacchiera con le sue amiche, sul materassino al largo. Quindi torno a osservare il display. Mi colpisce l’intestazione del MIUR, il fatto cioè che ci sia gente che usa il logo della Repubblica Italiana in una e-mail, e che si tenti addirittura di ricreare l’impaginazione delle lettere cartacee, con la data da una parte, il destinatario dall’altra, il titolo al centro, senza rendersi conto che i client di posta e le webmail si comportano a modo loro, soprattutto se gli allineamenti a sinistra e a destra li fai aggiungendo gli spazi.

Il testo del messaggio però mi toglie ogni dubbio: il 2 settembre sono chiamato a sostenere la prova orale del concorso bandito con D.D.G. 105/16 per la scuola primaria. Questo significa che, contro ogni previsione, ho superato la prova scritta, il vero osso duro dei concorsi per entrare di ruolo. Se tutto va bene, sarò un insegnante.

A questo punto della storia è doveroso un flashback. Ho conseguito il vecchio diploma magistrale ai tempi dei Duran Duran e per caso. In terza scientifico mi sono accorto che avevo scelto un liceo fuori dalla mia portata. In più non avevo voglia di studiare, volevo diventare una rockstar e anche la prof di matematica si era messa di mezzo, sbattendomi in faccia la mia inadeguatezza. L’unica alternativa per ottenere un diploma senza ripartire da zero e senza perdere l’anno erano le magistrali, la scuola che ora si chiama liceo delle scienze umane. Nella piccola città in cui vivevo non c’era molta scelta. Ho preparato privatamente le materie d’indirizzo – pedagogia e psicologia, ho superato l’ammissione e, in due anni, sono giunto indenne alla maturità.

Ai tempi, a 18 anni scarsi potevi dare subito inizio all’iter per diventare docente di ruolo nella scuola elementare. Io però ho fatto tutt’altro. Mi sono laureato in lettere – erano i primi anni 90 – e ho avuto la fortuna – più che l’intuizione – di mettere a frutto una latente passione da smanettone per i computer entrando in quello che allora, con il web agli albori, si chiamava “multimedia”. Ho iniziato come programmatore di cd-rom, quindi mi sono occupato di contenuti per Internet per poi fare a tutti gli effetti il copy in un’agenzia di comunicazione specializzata in tecnologia. Tutto questo per più di vent’anni, durante i quali non mi è mai passato per il cervello l’idea di insegnare. Da dipendente privato, il meccanismo dei concorsi pubblici mi sembrava un sistema di recruiting anacronistico e fuori mercato, prima che impossibile da affrontare. Per non parlare dell’inferno delle graduatorie, i sindacati, la burocrazia, le supplenze e tutte quelle inutili leggi da imparare, parte del programma.

Nel frattempo ho cresciuto mia figlia e sono entrato in contatto – da utente – con la scuola pubblica italiana. Ma mi ero anche in parte stufato della routine professionale. Ore e ore al pc, creatività a comando, aspettative non corrisposte mettevano in ombra i lati positivi del mio lavoro: l’ambiente dinamico, la modalità flessibile e la consistenza della busta paga.

Avevo letto che il concorso per diventare docente di ruolo alla scuola primaria del 2016 sarebbe stata l’ultima occasione per i candidati come me, in possesso del vecchio diploma, privi della laurea in Scienze della Formazione e senza nemmeno un’ora di servizio. Ma, a dirla tutta, pur sentendo il bisogno di dare una svolta alla mia vita, fare il maestro continuava a rimanere all’ultimo posto delle priorità. Mi sembrava uno spreco, però, rinunciare a quella opportunità in extremis e sapevo che, se non ci avessi provato, mi sarei pentito per sempre.

Il processo però sembrava tutt’altro che semplice. L’iscrizione al concorso passava tramite l’attivazione di un profilo su un portale dedicato e la richiesta andava posta a una qualsiasi segreteria scolastica, che non è certo l’ambiente più user-friendly per i non addetti ai lavori. Non solo. Una volta attivato l’accesso, il sistema mi ha confuso con un omonimo, riportando dati anagrafici errati. Benvenuto nei database della PA. Alla fine, sempre per fortuna più che per caparbietà, ce l’ho fatta e ho inoltrato la domanda.

Il 30 maggio del 2016 mi sono presentato alla prova scritta “computer based” che mi ha catapultato nell’universo degli aspiranti insegnanti. C’era uno come me che si vedeva che era fuori luogo, aveva persino le iniziali cucite sulla camicia. Un altro, salito apposta da un paesino della Calabria, faceva il muratore ma “un concorso è un concorso”, mi ha detto. E poi quella ragazza che aveva fatto appena ritorno da un anno in Australia. Chissà che fortuna i suoi bambini, ho pensato, con una maestra cosmopolita.

Il fatto è che non mi ero minimamente preparato – il lavoro e la famiglia assorbivano tutte le mie energie – e persino mia moglie aveva tentato di farmi desistere dalla volontà di andare a fondo. La prova di inglese, la prima a cui mi sono sottoposto, si è rivelata alla mia portata. Nella comprensione dei testi e nella traduzione me la cavo piuttosto bene. A quella sono seguite alcune domande di cui ora non ricordo granché, se non il fatto di aver dato sfogo alla mia esperienza di copy e di aver scritto come un forsennato. Sono stato molto attento alla grammatica e alla forma e sono persino riuscito a mettere qua e là certe parole di tendenza – storytelling su tutte. Ero in un istituto tecnico per geometri a Cantù e fuori pioveva a dirotto. Uscito da lì mi sono persino sentito a disagio per aver sprecato un giorno di ferie per quella messa in scena. Ero consapevole che nessuno, leggendo le fanfaronate con cui avevo riempito le risposte alle domande aperte, mi avrebbe mai dato il minimo credito per qualunque posizione, tantomeno per quella di educatore di bambini.

Invece mi sbagliavo, e di grosso.

Torniamo così sulla spiaggia del campeggio, in Costa Rei. Metto al corrente mia moglie del contenuto della e-mail e lei mi guarda come se avessi vinto alla lotteria. Ci precipitiamo a Cagliari dove è tutto chiuso per Ferragosto. C’è solo una Feltrinelli aperta a ridosso del porto dove, ancora per puro caso, trovo l’ultima copia di un testo adatto per preparare l’orale. Il titolo è beneaugurante: “Insegnare Domani”.

Eppure, ancora una volta, mentre sfrutto al massimo i pochi giorni di tempo per approfondire i vari esempi di lezioni da simulare riportati nel libro – la prova orale consiste proprio in quello – mi convinco che la cosa non fa per me. Che cosa ci azzecca un copywriter, ex-musicista, collezionista di vinile, blogger ed esperto (a parole) di trasformazione digitale con una classe di mocciosi?

Il giorno precedente all’orale, sorteggio al cospetto del presidente della commissione la lezione di prova che dovrò tenere 24 ore dopo. Conservo ancora, tra le reliquie professionali, quel bigliettino. Traslazione, rotazione e simmetria delle figure piane in una quarta di una scuola ubicata in un paese rurale. Già, non ho pensato che i maestri della primaria insegnano anche matematica. Ecco un altro segnale: non è la professione che fa per me.

Rientro a casa mi metto a scartabellare su Internet, coinvolgo mia cognata insegnante e capisco che, privo di qualsiasi competenza pedagogica, posso solo contare sul mio background professionale e sull’improvvisazione.

Metto insieme una serie di spunti scommettendo tutto sull’interdisciplinarietà: il tangram, le foglie da raccogliere dal vero in una passeggiata nel bosco, la visita alla mostra di Escher a Milano, le frasi palindrome, le scale musicali, le melodie trasportate in diverse tonalità che mantengono i rapporti tra le note, le funzionalità di editing grafico per trasformare le figure con i software open source più comuni. Riporto quindi tutto su una presentazione PowerPoint creando vere e proprie infografiche e scegliendo accuratamente le illustrazioni, proprio come faccio per i miei clienti in ufficio. Aggiungo persino un titolo creativo alla lezione: “La geometria fa riflettere (ma anche traslare e ruotare)”. Quindi, atteggiandomi a relatore di TED, mi esercito ripetendo più volte fino a notte fonda il mio intervento scorrendo, come vedo fare agli eventi business di cui curo i contenuti, le slide dalla prima all’ultima. Forse, davvero, insegnare è un po’ così.

Avevo fatto un sopralluogo presso la sede del concorso un paio di giorni prima per verificare in cosa concretamente consistesse la prova. I candidati, anzi, le candidate erano numerosissime e c’erano diverse commissioni. Alcune mi avevano sorpreso per l’approccio piuttosto garantista che mi aveva rincuorato. Una, invece, si distingueva perché composta da commissari decisamente ingerenti nello svolgimento delle simulazioni e pignoli della discussione. L’abbinamento mi penalizza, assegnandomi proprio a loro. Nell’attesa della sessione in cui sarei stato valutato e molto probabilmente umiliato, nel frattempo ritrovo, destinati alle commissioni più abbordabili, il candidato con le iniziali sulla camicia, che al posto del Powerpoint ha con sé un foglietto a quadretti con qualche appunto e basta, e la ragazza tornata dall’Australia. Del muratore calabrese, invece, nessuna traccia.

Del mio gruppo vengo estratto per primo. Inserisco la chiavetta USB (avevo preso la precauzione di esportare l’elaborato in pdf in modo da mantenere il Google Font a cui tenevo moltissimo) e parto con il mio show. Il più severo dei due membri, però, mangia immediatamente la foglia e, alla terza slide, mi ferma per chiedermi su quale corrente pedagogica si basassero le tecniche che stavo mettendo in pratica nella mia finta lezione. Mi sembra corretto mettere in chiaro, così, il mio caso: a differenza delle candidate che si sarebbero avvicendate davanti a loro e di tutte le altre che, nelle aule attigue di quella scuola del centro, stavano sostenendo la stessa prova, avevo zero esperienza. Nonostante ciò mi sentivo motivato, entusiasta e pronto a mettere al servizio della scuola pubblica le mie competenze nella comunicazione, nel digitale, nella tecnologia, nella lingua inglese e nella musica. La tensione si stempera, gli esaminatori si incuriosiscono, notano persino la cura nella grafica delle slide. Porto così a termine la mia esposizione, sostengo una veloce e formale conversazione in inglese, racconto di ciò di cui mi occupo in agenzia e, infine, mi accomiato. Mi prende una sete mostruosa unita al down che segue alle imprese che mettono adrenalina. Mi fiondo in un bar nei pressi per consumare alla goccia una Lemonsoda ghiacciata.

Il verdetto sarebbe stato pubblicato sulla porta dell’aula in cui avevo appena dato il meglio di me stesso solo al termine delle prove di tutti e sei i candidati. Rientro nella sede del concorso e seguo gli altri orali. Una ragazza con diversi anni di esperienza in una di quelle graduatorie dagli acronimi fantasiosi da cui le scuole attingono personale precario ogni anno, cade ingenuamente sul rimando a una teoria poco opportuna per la lezione sorteggiata. Da lì, l’esaminatore più intransigente si accanisce per smontare tutta la ricerca che, a mio parere, trasmette comunque una certa preparazione. Quella dopo non sa spiccicare nemmeno una parola di inglese. E non ricordo se la quarta o la quinta, quando le viene chiesto di copiare il file della presentazione dalla chiavetta al pc per metterla agli atti, ammette di non aver dimestichezza con la tecnologia. Per fare un copia e incolla. L’ultima, invece, si presenta lanciatissima e super-professionale e prende il voto più alto di tutti.

Insomma, per farla breve, alla fine sono stato promosso anch’io. La candidata a cui avevano contestato tutto è risultata invece insufficiente e, pur felice per il mio esito, mi sono sentito fortemente in colpa, come quando rubi il posto a qualcuno che ne ha diritto più di te. Tornata a casa, avrà sicuramente inveito contro quel cialtrone che ha fatto persino la beatbox durante la prova di un concorso per la scuola, per dimostrare che si può insegnare musica con qualsiasi cosa a disposizione. Ma la cosa più importante è che, uscito da lì, ho ripensato all’entusiasmo e alla motivazione che avevo millantato poco prima per convincere i commissari e, in tutta sincerità, mi è sembrato che fosse davvero così. Non avevo mentito più di tanto. Quella sera sono rimasto a cena sui navigli con mia moglie e mi sono persino ubriacato.

Superato o no il concorso, era comunque tardi perché la macchina organizzativa riuscisse a portare a termine l’operazione nell’anno scolastico in corso. Le graduatorie sono state pubblicate a novembre e l’Ufficio Scolastico ha emanato solo a fine luglio 2017 la convocazione dei primi millecinquecento neo-docenti. Io venivo poco dopo, mille seicento e qualcosa, un ritardo che ho vissuto nuovamente come un ostacolo al cambiamento a cui anelavo. Ai miei datori di lavoro, ovviamente, non avevo detto nulla. Il mio contratto in agenzia prevedeva tre mesi di preavviso. Così avevo messo in conto di prendere servizio con la chiamata che presumevo si sarebbe tenuta alla fine dell’estate successiva, nel 2018. Avrei dato le dimissioni verso maggio in modo da rimanere in agenzia fino al 31 agosto, per poi iniziare a scuola il primo settembre.

Si vede che non conoscevo per nulla il rocambolesco mondo della scuola pubblica. Non passa nemmeno un mese dalla prima convocazione e a pochi giorni dal rientro dalle vacanze (niente più campeggio in Sardegna ma un viaggio in UK) scopro una seconda chiamata per i successivi cinquecento candidati, programmata per il 28 agosto.

Mi precipito all’ufficio scolastico il giorno stabilito, firmo l’entrata in ruolo, scelgo l’ambito territoriale e, nel pomeriggio, la scuola in cui dovrò insegnare. Questo significava tre giorni utili appena per salutare l’agenzia in centro a Milano in cui avevo lavorato per sedici anni senza alcun passaggio di consegne e un inizio in affanno della nuova vita di maestro elementare, in una primaria di provincia. Non mi sentivo assolutamente pronto.

Su suggerimento di una ex collega che aveva seguito lo stesso percorso prima di me, ho proposto al dirigente della scuola a cui ero stato assegnato un anno di aspettativa per portare a termine ciò che avevo in mente. Durante i successivi dodici mesi, oltre a continuare il mio vecchio lavoro, mi sono dato da fare studiando, informandomi, seguendo corsi online e, soprattutto, trascorrendo diverse ore di tirocinio volontario in classe. Un’esperienza utilissima perché mi ha restituito l’idea cosa sarei andato a fare. La futura collega che, sempre volontariamente, si è prestata a seguirmi in questo percorso, mi ha anche permesso di tenere una lezione ai suoi bambini, per la quale mi sono preparato meticolosamente proprio come avevo fatto per la simulazione al concorso. Ho allestito un percorso di musica nella sua quarta. Sono partito da Miles Davis, cosa che mi ero promesso di fare se avessi mai messo piede in un’aula scolastica, e ho coinvolto la classe lungo un viaggio nel ritmo, nella melodia e nella storia della musica che ascoltano a casa.

Il racconto finisce qui, perché, da allora, è filato tutto liscio, Covid permettendo. Ho comunicato le mie intenzioni ai miei datori di lavoro ad aprile e, dal primo settembre 2018 e a 51 anni, mi sono reinventato insegnante. E ho davvero messo le esperienze di una vita al servizio della scuola pubblica. Nell’istituto comprensivo in cui lavoro da allora gestisco il sito, il laboratorio di informatica compresi i dispositivi di classe e tutto ciò che riguarda la piattaforma di didattica integrata. Ho tenuto corsi di digitalizzazione agli altri docenti. Cambio persino i toner alla fotocopiatrice. Quando ci siamo trovati in lockdown ho messo in piedi e amministrato il sistema che ha permesso ai colleghi e agli studenti di continuare l’attività a distanza.

Ma la cosa più bella del lavoro che faccio ora è stare ogni giorno in mezzo ai mocciosi, proprio quello che temevo di più. Lo scorso anno ho preso una prima che ora è una seconda. Se non ci fossero problemi di privacy vi farei vedere le loro facce, perché sono loro i veri protagonisti della storia che ho appena raccontato. Io mi diverto moltissimo. Insegno matematica, informatica, inglese, arte e musica. Li aspetto in classe ogni mattina e, quando arrivano, ognuno mi saluta a suo modo. Il sorriso si capisce dagli occhi e si intravede sotto la mascherina. Non so se sono bravo, ma secondo me lo sto diventando.

scrivere in 3D

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Nutro un’attrazione smodata per i libri pop-up per bambini perché lo trovo un concept paradossalmente affascinante, se ci pensate. Le parole e i disegni, in condizioni normali, si stampano a due dimensioni. Forse un giorno, in un futuro alla Blade Runner, ci saranno le stampanti 3D di storie, ologrammi con effetto presenza che sprigionano i personaggi dei romanzi fuori dalle pagine in una sorta di finzione aumentata, passatemi il termine, ma niente a che fare con il digitale. I libri pop-up in cartone sono una realtà, esistono da sempre e lasciano i cinquantenni mocciosi come me a bocca aperta. Si tratta di una passione che coltivo sin da da piccolo ed è appagante, quando ne mostro uno ai miei bambini, osservare lo stupore che prende vita sui volti, una reazione testata già nella mia precedente carriera di padre, in barba alla concorrenza delle tecnologie oled e qled.

Sarà per questo che, quando l’argomento lo consente, faccio creare figure che saltano fuori in qualche modo dal quaderno. Qualche esempio? Animali che spalancano la bocca per definire la classificazione in base a ciò di cui si nutrono e, soprattutto, geometria solida. Ho fatto il cubo e il prisma in classe dando le indicazioni con i quadretti per disegnarlo al meglio su un foglio a parte per poi colorarlo, ritagliarlo, incollarlo e ricomporlo. L’attività è proseguita con la richiesta di realizzare un parallelepipedo a casa partendo da una scatoletta di cartone di qualunque prodotto. Per esemplificare ho mostrato in classe la confezione vuota delle mie pastiglie per l’ipertensione, anche se a prima vista non sembrasse forse la cosa più appropriata. Ho pensato che passare il messaggio di rovistare nell’armadietto dei medicinali per i compiti del weekend andasse a scapito della privacy delle famiglie. I problemi di salute sono top secret e non ne ho mai capito il perché, come se fosse colpa mia e mi dovessi vergognare se ho la pressione alta.

Comunque la rappresentante mi ha fatto sapere che non tutti i genitori hanno capito bene l’attività che i figli avrebbero dovuto svolgere. Quando c’è qualcosa che non va sul lavoro il mio approccio è di pensare – come prima cosa – che sia colpa mia. Ho ricondotto così ogni eventuale equivoco alle indicazioni che ho scritto alla lavagna da ricopiare sul diario. Andavo un po’ di fretta e ho usato il verbo esplodere in modo transitivo, forse impropriamente. Si dice, infatti, “esplodere un intero caricatore di colpi contro qualcuno”, ma “esplodere un parallelepipedo” può risultare inappropriato. Avrei dovuto girare la consegna: “cerco una scatolina di cartone in casa e ricreo un parallelepipedo esploso sul quaderno seguendo l’esempio delle figure realizzate in classe”, ma non mi sarebbe bastata la lavagna intera e poi era già il nostro turno per scendere in mensa.

Però sono certo che, malgrado le indicazioni riportate con il gesso, quanto ho spiegato a voce sia stato pienamente inteso dai bambini. Il problema è che i genitori non danno granché retta ai loro figli, non si fidano per nulla della loro capacità di riportare qualcosa detto da altri e, soprattutto, si ostinano a metter becco in quello che i bambini dovrebbero portare a termine in autonomia. La mia rappresentante si è lanciata così in un vero e proprio audio-tutorial sul gruppo Whatsapp e mi assicura che tutto è filato liscio. Lunedì così vedrò il risultato della manualità dei padri e delle madri dei miei alunni, ma va bene così. C’è un patto di corresponsabilità tra scuola e famiglie su ogni sito scolastico che, probabilmente, comprende anche la cogestione didattica.

non dire gatto se non ce l’hai nel sacco

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Facile dire da cosa ci maschereremo quest’anno a Carnevale. Lo scorso anno, a febbraio, mentre a occidente giungevano gli echi delle prime avvisaglie di quello tsunami sanitario, economico e sociale che di lì a poco avrebbe rivoltato le nostre certezze come un calzino, a scuola ci immergevamo in uno dei consueti brainstorming autoreferenziali tra docenti di arte e immagine per inventarci un lavoretto originale dedicato alla festa che si approssimava. Una di quelle attività pratiche che si fanno eseguire in classe ai bambini a sancire la conclusione dei grandi cicli che si susseguono nel corso dell’anno scolastico: Natale, Carnevale, Pasqua e fine della scuola. Le vere quattro stagioni. Per portarli a termine in tempo, i cosiddetti lavoretti si avviano con lauto anticipo, non potendovi dedicare più di due ore a settimana. Nell’annus horribilis 2020, ai primi di febbraio, ci siamo lanciati invece in un complesso sistema di ideazione, sviluppo e assemblaggio di maschere di Carnevale di vario tipo.

Inutile ricordare come è finita. La settimana prima del Carnevale ambrosiano, quando nelle scuole del milanese si fa vacanza a partire dal giovedì, abbiamo chiuso tutto per la pandemia. Avremmo dovuto consegnare i prodotti finiti del lavoretto il mercoledì, ma il venerdì precedente ci siamo salutati l’ultima volta, senza sapere bene a cosa saremmo andati incontro. Le maschere costruite dai bambini sono rimaste sul davanzale delle finestre dove erano state raccolte per asciugarsi a dovere, sapete i chili di colla che consumano i vostri figli.

Ho rimesso piede in classe in pieno lockdown, sarà stata la seconda settimana di marzo, e le maschere erano ancora lì, coperte di polvere, a restituirci l’impressione che il genere umano si fosse estinto disintegrato da un invasore alieno, come quei film di fantascienza in cui si vedono quattro gatti sopravvissuti che poi, diciamocelo, a quel punto, se succedesse sul serio, è meglio morire tutti. Alla successiva procedura di sanificazione degli ambienti scolastici, i lavoretti dei bambini rimasti sono stati gettati nella spazzatura senza tanti complimenti.

Niente maschere di Carnevale per i bambini ma tante mascherine anti-Covid, questo sì. Ci sono piaciute così tanto che le portiamo ancora adesso. Non so voi ma io non le sopporto più. Mi fanno arrossare la pelle del collo e del mento e sono arrivato a un punto in cui sono sempre lì a tirarmela giù, tanto che ho chiesto ai miei alunni di avvisarmi quando lo faccio in classe perché sto spiegando matematica e mi manca il fiato. Quest’anno, così, la collega più creativa di arte ha proposto di far disegnare ai bambini una semplice maschera a forma di gatto. Niente elastico, che tanto c’è già quella chirurgica sotto. Un muso di felino in cartoncino su cui applicare strisce per i baffi e un cono incollato per il naso in 3D. Il tutto colorato e pinzato su un bastoncino realizzato con un foglio A4 arrotolato, da consegnare ai bambini appena pronto, anche a due settimane dal martedì grasso. L’obiettivo è farcela, quest’anno, a far arrivare il lavoretto di Carnevale alle famiglie. L’anticipo con cui siamo partiti è più che previdente, il lavoro è irrisorio, la resa assicurata. Un gatto di Carnevale. Speriamo porti bene.

prole

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Vivere in una bolla composta da gente che va dagli otto ai sei anni pone l’insegnante di scuola primaria in un mondo delle idee così confortevole e distante dalla realtà reale che poi non si ha più voglia di tornare indietro. Crisi di governo ed emergenza sanitaria passano in secondo piano rispetto alla verifiche parallele di fine quadrimestre. Passo così tanto tempo con dei bambini – e sempre con gli stessi – che mi viene da fantasticare sul fatto che siano tutti figli miei. Questo è un problema, se considero che ho già fatto fatica a educarne una (che poi è tutto da vedere se ci sia riuscito) figuriamoci diciannove. Quest’anno si è aggiunto alla mia prole uno nuovo, proveniente da un’altra scuola dove ha avuto altri insegnanti meno ingombranti di me e infatti si vede la differenza, quello che si dice figli e figliastri. Interviene in modo inopportuno e poi non si capisce niente di quello che dice, e la mascherina è l’ultimo dei problemi. Gli chiedo di parlare lentamente e di scandire bene parola per parola. Lui allora se la abbassa e ripete la cosa che nessuno ha afferrato – ho già appurato che non si tratti di un problema legato al fatto che sono vecchio e sordo come una campana – enfatizzando i movimenti della mandibola e a un volume più che accettabile. Così, per gratificarlo, gli dico che dovrebbe sempre parlare sempre in quel modo, anche quando deve dire delle cose che lo rendono inviso ai suoi nuovi compagni. Io sono un genio, sono il più intelligente, sono il più coraggioso. Non so da dove gli vengano e cosa spinga un bambino alla presunzione, per di più fuori luogo. Per fortuna sono ancora piccoli e gli altri non ci fanno caso più di tanto. Se la cava piuttosto bene ma non è raro che prenda certe cantonate che mi verrebbe voglia di ricordargli, prima di vantarsi, di controllare i voti sul registro elettronico. E anche in classe capita che qualcuno abbia problemi di salute. È da prima delle vacanze di Natale che J. entra ed esce dall’ospedale per un problema che coinvolge fegato e reni. Ha sintomi che manderebbero nel panico qualunque genitore. Si gonfia e le sale la pressione e quando la mamma me li descrive su Whatsapp – meglio così perché non parla benissimo l’italiano – non riesco a mantenere la calma e penso che, se davvero fosse in parte mia figlia come ho scritto prima, dovrei essere in grado di risolvere la questione come fa un padre spirituale che si rispetti. Mentre i compagni lavorano in silenzio osservo il suo banco vuoto e cerco una risposta al dubbio di saper davvero fare questo mestiere. È giusto farsi coinvolgere? Poi succede però che le cose vanno per il verso giusto. Mi ha mandato un vocale con la sua vocina sofferente per avvisarmi che è tornata a casa e che, in settimana, riprenderà a frequentare. Le cose tornano a scorrere per il verso in cui devono scorrere, il pericolo è rimandato al secondo quadrimestre.