buon ddi

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Anche oggi la rassegna stampa dedicata alla pandemia dei giovani, alla didattica a distanza e alle sue conseguenze è piuttosto ricca.

Su “Rivista Studio” si trova un’intervista al neuoropsichiatra Stefano Benzoni, autore del libro “FIgli fragili”. Si parla della

straordinaria importanza di rimettere il corpo al centro della nostra prospettiva pedagogica. Questo significherebbe aprirsi a esperienze didattiche che partano anche da una concezione nuova e più attuale degli spazi fisici della scuola, da ripensare appunto come luoghi nei quali i corpi degli studenti possono fare esperienze, non come contenitori da sterilizzare e ove impartire istruzioni dall’alto a classi composte e seriali.

e di assuefazione digitale, laddove

La pandemia ci ha permesso solo di assaporare – con il gusto amaro di una dieta obbligata – gli effetti esasperati di un futuro prossimo. Non dovremmo dimenticarci però che la strada verso questo futuro l’avevamo intrapresa volontariamente ad ogni giro di shopping pre-natalizio, ad ogni acquisto di tablet, smartphone e consolle, votando la prole al suo destino digitalizzato. Le cose dunque non solo probabilmente non cambieranno quando – come si dice – “questa cosa della pandemia sarà finita”, ma è probabile che l’ubriacatura tecnologica generi presto nuove dipendenze e nuove assuefazioni.

e ancora

«Fino a che punto», dice Vergani, «l’impersonalità seriale» tipica dei “dispostivi educativi […], che impongono la rimozione dei volti e dei corpi – una neutralità relazionale coerente con il nostro sistema economico che riduce l’uomo a strumento e a funzione – non comporta la rimozione dell’altro e dunque l’indifferenza?». La violenza cresce nell’anonimato dei volti di chi soffre, nella neutralizzazione dell’altro a mero e impersonale pannello, a nome e numero in una chat. Anche su questo fronte, si dovrebbe ammettere, la Dad sembra aver gettato benzina sul fuoco.

per chiudere con un’amara consapevolezza:

Aspettare il futuro dell’immaginazione, finiti i guai, per tornare a vivere, è un’illusione alienante. Aggrapparci al nulla non è una buona idea per strapparci dal nulla.

Tutto questo alla luce delle proposte del ministro Brunetta sullo strumento concorsuale come piattaforma di selezione del personale della PA e della puntata di ieri sera di Data Room di Milena Gabanelli dedicata alla nuova giungla delle sigle anti-Covid, che riguardano anche la il mondo della didattica.

Segnalo infine la newsletter di Luca De Biase Media Ecology, in cui l’autore raccoglie ricerche e analisi sull’impatto della scuola nella polarizzazione sociale.

proffesionisti

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Gli spunti di riflessione sulla didattica a distanza sono numerosissimi e non c’è media o profilo social che non ci ricordi, con una frequenza impressionante, la complessità della questione. Come ogni altro trend topic tendente alla sovraesposizione si passa dall’entusiasmo sfrenato per il potere taumaturgico della tecnologia al più becero luddismo da quattro soldi. Bene, mi viene da dire. Questo significa che la scuola è tornata al centro del dibattito. Il problema è che la resilienza si trasforma in insofferenza e la cosa ha fatto tutto il giro fino ad arrivare che al rientro a scuola nessuno vuole più tornare dopo che tutti volevano tornarci ma non si poteva. Ho letto molte cose interessanti e diversissime sul tema, in giro.

C’è una lettera, sul blog di Concita De Gregorio, in cui una mamma si chiede

Noi come lavoratori del settore privato abbiamo fatto dei sacrifici, lavorando fuori orario e spesso nel weekend per sopperire al tempo dedicato ai nostri figli durante l’orario lavorativo, senza chiedere straordinari, ma soltanto per il senso del dovere che ci lega alla nostra attività, per la volontà di rispettare le scadenze che ci sono state date o che spesso ci siamo dati da soli.

Allora mi chiedo, perché la scuola non può fare altrettanto? Perché non rinunciare alla pausa Pasquale per quei bambini che riprendono ad andare a scuola solo 2 giorni prima di questa pausa? Perché la scuola non si può prolungare nel periodo estivo per restituire ai ragazzi un po’ di quel tempo perso durante i periodi peggiori della pandemia? Perché gli insegnanti non si offrono di dare un supporto spot ai ragazzi in DAD invece di limitarsi a quelle poche ore di lezione sincrona? Perché gli insegnanti o i sindacati continuano a opporsi sempre ad ogni proposta innovativa che riguarda la scuola mentre i genitori devono sempre fare i salti mortali per conciliare il lavoro con le esigenze familiari?

La DAD è faticosa tanto per i ragazzi quanto per gli insegnanti. A parte la formazione a cui in molti si sono sottoposti per poter sfruttare al meglio le piattaforme in modo da evitare una mera trasposizione della lezione frontale in videoconferenza, si è resa necessaria una riformulazione della valutazione, per non parlare delle conseguenze che l’anno di pandemia avrà sul seguito del percorso scolastico, durante il quale i docenti dovranno tenere conto del tempo speso diversamente dalla scuola tradizionale e si dovrà scegliere se dedicarsi a un recupero in fretta e furia del programma perso oppure fare leva sull’esperienza per dare una svecchiata a certe dinamiche didattiche agli antipodi del mondo del lavoro. Io non credo che il tempo regolamentare sia sufficiente per dedicarsi a tutto questo. Se c’è da lavorare in classe (rigorosamente senza aria condizionata, speriamo almeno tutti vaccinati, adulti e non) a fine anno scolastico io ci sono. A noi insegnanti si chiede qualcosa in più, spero che siano in molti a mettersi in gioco, a fronte (speriamo) di un riconoscimento economico per i volenterosi.

C’è poi un pezzo tratto da Il Foglio, riportato sul blog di Claudio Giunta, con cui non sono completamente in accordo ma che ha formulato due spunti interessanti utili a verticalizzare il percorso formativo dei ragazzi, un antidoto agli errori di scelta (che non ci sarebbe problema a commetterli se la scuola fosse focalizzata sull’insegnamento anziché sulla valutazione) e all’abbandono scolastico, una lesson learned dopo quanto successo negli ultimi dodici mesi.

Gli esami delle medie fungeranno da prova d’ingresso per le superiori, con commissioni composte da insegnanti di liceo, vincolando i candidati alla scelta successiva in base a inclinazioni e capacità comprovate. La maturità si svolgerà interamente per iscritto e sarà valutata anonimamente durante l’estate da una megacommissione centralizzata che assegnerà voti in modo univoco. Gli studenti faranno un bagno di realtà e ciascuna scuola capirà davvero se funziona o se non prepara in modo adeguato.

Chiudo quindi con le parole pubblicate sul profilo LinkedIn di David Bevilacqua. Il titolo dice già tutto: “Shining e le lezioni della pandemia: da soli e senza distrazioni non siamo affatto più produttivi, siamo semplicemente a rischio“. Bevilacqua parla di aziende, di remote working e di nuova normalità nel mondo delle imprese con spunti che possono tranquillamente essere applicati alla scuola post-covid. Lo riporto integralmente per chi non può accedere a LinkedIn.

Nel classico horror di Stanley Kubrick, Shining, Jack Torrance, impersonato da Jack Nicholson è uno scrittore di romanzi che sogna un posto dove poter finire il proprio romanzo in pace, al riparo dal caos cittadino e da ogni forma di distrazione.

L’ Overlook Hotel, piazzato in un remoto punto delle Montagne Rocciose del Colorado, sembra la soluzione. C’è vacante un posto da custode, una paga dignitosa, un luogo apparentemente confortevole e di lusso per la sua famiglia, la moglie Wendy e il figlioletto Danny.

Il manager che gli illustra il lavoro, Dick Hallorann, impersonato da un magistrale Scatman Crothers, è molto chiaro al riguardo: “Fisicamente non è un lavoro molto impegnativo”, gli dice il manager prima dell’inizio di quello che dovrebbe essere un periodo di cinque mesi. “L’unica cosa che può diventare un po’ difficile qui durante l’inverno è un tremendo senso di isolamento.”

Isolamento. Un tremendo senso di isolamento.

Il Maggio scorso si sono celebrati i quarant’anni dall’uscita del film. Un capolavoro di Kubrick che tuttavia negli anni riuscì a fare discutere e dividere. Per molti si tratta di un film di altissimo livello, così alto che ciascuno può trovarne un proprio senso. Per altri, compreso lo scrittore Stephen King autore del libro dal quale il film è tratto, vi sono troppi buchi logici e troppe cose lasciate in aria. Come il fatto che non è chiaro se Jack arrivi pazzo all’hotel, se lo diventi in seguito, se ha davvero qualche collegamento con gli ospiti fantasmi e i truci assassini. O, più semplicemente, come sia possibile che un albergo così grande risulti in ogni scena sempre lucido e splendente senza traccia di polvere.

Quel che bisogna dire però è che, almeno all’epoca, era troppo fresco il successo di “2001: Odissea nello spazio” e troppo impietoso il confronto.

Oppure, riprendendo una osservazione apparsa proprio in questi giorni sull’Economist, tra i due film di Kubrick, Odissea nello spazio e Shining, emerge un messaggio ben preciso e non serve cercare altro: se tre persone sono bloccate in uno spazio ristretto in mezzo al nulla, una di loro impazzirà e cercherà di uccidere gli altri.

Ecco, questa riflessione, probabilmente è troppo banale per una reale critica cinematografica ma è forse il pensiero che più ci viene in mente in questi giorni. Quarant’anni dopo. Rinchiusi tutti in spazi familiari divenuti troppo stretti. Disciplinati da zone e colori che non capiamo e tolleriamo a fatica. Catapultati tutti in un Overlook personale. Dove “fisicamente non è così impegnativo, ma si prova un tremendo senso di isolamento”.

“Tutto lavoro e niente svago rendono Jack un ragazzo annoiato”.

In Shining, come accade in quasi ogni altro film, c’è una storia nella storia. La frase che ad esempio Jack ripete ossessivamente alla sua macchina da scrivere, cambia a seconda della versione linguistica del film.

Si dice che lo stesso Kubrick pretese di vedere e approvare le singole traduzioni e, alla fine, quel che ne esce fuori confrontandole è un interessante contraddizione di pensieri riguardo la produttività.

Nella versione italiana, Jack ripete ossessivamente: “il mattino ha l’oro in bocca”

In tedesco, “non rimandare a domani quello che puoi fare oggi”

In inglese invece, nella lingua originale, troviamo forse la cantilena più potente: “All work and no play makes Jack a dull boy”.

“Tutto lavoro e niente svago rendono Jack un ragazzo annoiato”.

Ragazzi annoiati. E soli. Da oltre un anno a questa parte, lo siamo forse un po’ tutti.

Abbiamo bisogno degli altri. Abbiamo bisogno dell’altro.

Quello che Jack sperimentò in un hotel sperduto del Colorado, lo stiamo sperimentando tutti.

Ma la scienza lo ha sempre saputo.

In uno degli esperimenti più bizzarri e crudeli, fra storia e leggenda, un posto di rilievo spetta alla ricerca linguistica di Federico II, ben ripresa e raccontata in un bell’articolo apparso qualche anno fa su Repubblica.

Nella Cronaca lo storico del XIII secolo, Salimbene de Adam, descrive un esperimento, ideato dall’imperatore Federico II di Svevia, per rispondere alla dibattuta questione che gli antichi linguisti si erano posti sin dai tempi del faraone Psammetico: qual è la lingua umana originaria? L’egiziano, il frigio, l’ebraico?

Per provare a rispondere, Federico II decise di far nutrire regolarmente un gruppo di neonati in assoluto silenzio, i piccoli furono toccati quel minimo indispensabile alle cure igieniche al fine di eliminare completamente le loro possibilità di interazioni linguistiche con le nutrici.

Come risultato, i bambini non parlarono però né egiziano né ebraico. Morirono.

Se questa storia può apparire poco credibile, vi è esperimento dai risultati molto simili, frutto di alcuni studi condotti da Renè Spitz uno psicoanalista viennese emigrato durante la seconda guerra mondiale negli Stati Uniti.

Nello scritto Hospitalism e nel filmato Grief a peril in infancy il ricercatore osservò 91 bambini abbandonati sin dalla nascita in orfanotrofio, nutriti regolarmente ma con scarsi contatti interpersonali. Le nutrici dedicavano qualche carezza ai primi della grande camerata in cui vivevano gli infanti ma per gli ultimi il tempo stringeva e non si andava oltre le minime interazioni necessarie al nutrimento e all’igiene.

Dopo 3 mesi di carenza di contatti i bimbi svilupparono una grave apatia, inespressività del volto, ritardo motorio e deterioramento della coordinazione oculare.

Entro la fine del secondo anno di vita, il 37% dei 91 bambini, pur essendo stati alimentati correttamente, morì. Morirono con i segni clinici del marasma, una malattia provocata dalla carenza proteica tipica della denutrizione. Morirono di fame, fame di contatto.

È tremendo. E per il futuro dobbiamo ricordarcene.

Il ghigno folle di Jack, le ricerche, le esperienze personali e l’esperienza di questi mesi. Abbiamo davvero troppo materiale per non ammettere che mente e corpo sono sin troppo correlati e non vi è qualcosa che conta più dell’altro.

Anche se siamo in una situazione in cui la tutela dell’integrità fisica, salvare la vita, appare fondamentale, bisogna ricordare che la vita è fatta anche da affetto, interessi, contatto.

Questo per ricordare e ricordarci di essere più buoni con noi stessi.

Quando non siamo così produttivi anche se privi di distrazioni.

Per ricordarlo anche nei confronti dei nostri collaboratori.

E per ricordarcelo pensando al futuro.

“Fisicamente non è così impegnativo, ma si prova un tremendo senso di isolamento”.

Ho scritto molto di Smart Working in questi anni e ho deciso di abbandonare tutti quei dibattiti su Smart-working vs remote working o su quale sia la settimana ideale di lavoro nel periodo post-pandemia.

Quattro ore la settimana, cinque, dodici con intermezzi musicali? Conta poco.

Solo ufficio o solo smartworking? Irrilevante.

Tutti a lavorare nei borghi? Non credo.

Southworking ? Improbabile.

Anche quando torneremo tutti in ufficio, non lo faremo tutti i giorni e forse non per tutta la giornata, ma lo faremo perché sceglieremo di farlo e non perché’ saremo obbligati, ma oggi più di prima ci servono mondi nuovi.

Uffici che siano luoghi di socialità e scambio.

Spazi belli, spazi aperti e di condivisione dove passare una parte e una dimensione importante, ma non esclusiva della nostra vita. Non saranno quindi palestre, mense e calcio balilla a farci scegliere di recarci ma il valore delle relazioni che troveremo e lo spessore delle persone che li abiteranno.

Tanto, non tutto.

A un passo dai cinquant’anni, compresi che l’ufficio non è la mia casa, l’azienda non è la mia famiglia e il lavoro non è la mia vita.

Il lavoro è una parte importante, importantissima ma non totalizzante. Ho compreso che per lavorare bene avevo bisogno anche e soprattutto di vivere bene.

In fondo, anche se lavori in un’azienda con decine di migliaia di dipendenti, per quanto grande, innovativa, meravigliosa e diffusa nel mondo possa essere, stiamo comunque parlando di un microcosmo. Stiamo parlando di qualcosa di più piccolo di un qualunque quartiere di Milano, che certamente non può avere né instillare la pretesa di contenere tutta una vita.

Ecco, penso che la pandemia lo abbia adesso ricordato a tutti. E tra tanta difficoltà e tristezza, questo è qualcosa da ricordare.

All works and no play, makes Jack a dull boy

All works and no play, makes Jack a dull boy

All works and no play, makes Jack a dull boy

All works and no play, makes Jack a dull boy

a volte ritornano

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Ho dimenticato di dirvi che, nel frattempo, la scuola primaria è ripartita e, a quanto sembra, lunedì torneranno in classe tutti gli altri. In realtà non siamo stati fermi del tutto. Una manciata di studenti della primaria e della secondaria di primo grado, individuati tra i bisognosi di percorsi educativi speciali, soggetti a rischio dispersione scolastica e figli di genitori in forza a categorie professionali fondamentali – medici e forze dell’ordine – non hanno mai interrotto la didattica in presenza. A questi alunni i docenti hanno tenuto lezioni in aula, collegandosi tramite videoconferenza con il resto dei ragazzi a casa. La scuola non è stata quindi chiusa del tutto, come lo scorso anno. Siamo stati in molti, me comprese, ad aver svolto qualche ora di didattica a distanza dalla propria classe anche senza bambini in presenza. Collegarmi da uno spazio famigliare per i miei alunni è stata comunque una buona idea perché li ha convinti che a questo giro si è trattato solo di un momento di sospensione e non la fine di tutto, come lo scorso anno. Mercoledì ci siamo ritrovati ed è stata un festa. Le lezioni a distanza, questa volta, sono state tutto sommato efficaci. Tornati in classe, ci sono bastati un paio di giorni per scaldare i motori e riprendere da dove ci eravamo lasciati. Ci siamo sentiti bene. Speriamo che questo mese di didattica da casa servito a limitare i contagi. Sono in molti ad avere dei dubbi, come c’è chi sostiene che riaprire anche alle superiori dalla prossima settimana sia un errore. Io lascio le decisioni a chi ne sa più di me. Nel frattempo, anche se ho la prima dose di astrazeneca in corpo, non abbasso la guardia, tantomeno la mascherina. L’importante è aver ripreso. Viva la scuola, abbasso le vacanze.

risorto

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Il Registro Elettronico sta tornando online. Be’ dai, poteva andare peggio: gli hacker avrebbero potuto prenderlo in ostaggio in prossimità degli scrutini di fine anno, anziché a cavallo delle vacanze di Pasqua. Magari si tratta di un avvertimento. Nel caso, sappiate che io non c’entro. Ve lo immaginate? Comunque tutto è bene quel che finisce bene. E ora mi raccomando, amici di Axios, fate un bell’investimento in sicurezza, business continuity e disaster recovery.

spaghetti software

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Ci sono diverse anime, non necessariamente così radicali come potremmo immaginarle, che dalla base si battono per proteggere la scuola italiana dai colossi dell’industria digitale e dai rischi che tale sudditanza comporta. Sostengono l’importanza per cui la scuola debba essere libera dai brand commerciali e dalle multinazionali.

Il fatto è che con il palesarsi della pandemia da Covid 19 si è reso imprescindibile il ricorso a una piattaforma di comunicazione e collaborazione a distanza per garantire lo svolgimento delle lezioni e le attività organizzative. Molti istituti si sono fatti trovare impreparati all’emergenza – malgrado si parli di scuola digitale almeno da quindici anni – e c’è stata una corsa al si salvi chi può con l’implementazione delle soluzioni dei due principali player del settore, Google e Microsoft. Considerando anche la situazione pregressa, non ho dati alla mano ma dalla mia esperienza diretta potrei azzardare che il marketshare si attesti su percentuali rispettivamente dell’80 e del 20, approssimando allo zero una residua manciata di pionieri di altre iniziative, piccole ma pur valide, a partire da WeSchool (ma sui numeri potrei sbagliarmi). La suite di Google si rivolge gratuitamente al settore con prodotti pensati per l’educational da diversi anni, oramai, mentre il percorso di Microsoft è stato percepito più come un tentativo di mettere i bastoni tra le ruote a un monopolio che si è diffuso grazie all’oggettiva superiorità del prodotto.

Ma non è questo il punto. Che siate per un partito o per l’altro, nelle server farm dei due giganti che, grazie ai miliardi di utenti in tutto il mondo dei prodotti commercializzati possono vantare fantastiliardi di dollari di giro d’affari complessivo, ora ci sono le verifiche di matematica e le ricerche sul sistema solare dei nostri figli. Un trend che ha messo in guardia non pochi paladini della filosofia open source o, peggio, del software a km zero.

Quando il coronavirus ha rintanato nelle stanzette milioni di studenti italiani di ogni età si è visto qualche idealista lanciare un allarme sotto certi aspetti fondato: a fronte di soluzioni gratuite per la DAD stiamo offrendo su un piatto di silicio i dati di milioni di ragazzi alle multinazionali del web! Zelanti esponenti di ogni livello della scuola pubblica, gli stessi che documentano nel dettaglio la vita dei figli sui rispettivi profili Facebook, si sono assunti addirittura l’onere di scartabellare tre le condizioni di servizio di questa o quell’altra piattaforma per capire se gli strumenti offerti fossero in linea con il GDPR, per non parlare dei dirigenti che si sono rivolti personalmente a Microsoft o a Google per avere garanzie sul fatto che i dati dei bambini fossero conservati in un cloud europeo. Ve li immaginate Project Manager indiani decifrare i fax della pubblica amministrazione italiana con tali richieste di altri tempi?

Ma chi se ne importa. Nelle scuole italiane si sono diffuse largamente Google Workspace for Education e Microsoft Teams e, a poco più di un anno di distanza dal paziente zero, possiamo dire che di riffa o di raffa abbiamo portato a casa il risultato. Non entro nel merito se DAD e DDI siano efficaci, tutto sommato però le due piattaforme adottate ci hanno permesso di dare continuità alla didattica. Lasciate stare tutto il folklore sugli intrusi nelle lezioni in videoconferenza e qualche episodio di spavalderia adolescenziale online. Nei casi in cui si sono verificati problemi è perché i docenti coinvolti non erano pratici dello strumento. C’è poi un sottobosco di sostenitori del software libero che è un mondo delle idee bellissimo se, nelle scuole, non fossero insegnanti di buona volontà a occuparsi della gestione della componente informatica ma esistesse un team dedicato (e pagato).

Tutto questo per dire che potrei essere smentito ma non credo che Microsoft e Google si troveranno mai, un giorno, costrette da qualche hacker a pagare un riscatto per sbloccare le loro piattaforme didattiche. Non credo che succederà perché la sicurezza dei dati è il loro core business. La disponibilità, il miglioramento e l’accuratezza dei loro servizi in termini di user experience e di funzionalità offerte hanno coinciso con la sicurezza informatica. Certo, direte voi, è facile dotarsi di sistemi di protezione di altissimo livelli quando hai fantastiliardi da investire, ma questa è l’imprenditoria. Se vuoi stare sul mercato globale scegli il modo in cui proporti, correndo dei rischi e prendendo delle decisioni. Poi è chiaro che nel settore del digitale i giochi sono fatti. A nessuno oggi verrebbe in mente di sviluppare un motore di ricerca, un software di videoscrittura o un social network. Tanto meno dalle nostre parti, dove non c’è una tradizione informatica e i pochi cervelli adatti a dedicarvisi, giustamente, volano altrove.

La notizia del momento è che la piattaforma di registro elettronico più diffusa in Italia è stata presa in ostaggio in un attacco di tipo ransonmware. Sapete come funziona? Qualche malintenzionato cambia di nascosto la serratura di un ambiente virtuale e, per darti la chiave, chiede un riscatto.

Agli hacker che impediscono l’accesso ai proprietari della piattaforma non interessa certo vendere i voti di Carletto e Mariuccia della 2B ai servizi segreti russi, da questo punto di vista un registro elettronico non è certo Facebook. Piuttosto guadagnare mettendo in ginocchio un’azienda che fornisce servizi a una delle principali organizzazioni della nostra economia, la scuola. Nei confronti di questi professionisti che stanno vivendo una delle peggiori situazioni in cui un’azienda del settore ICT possa essere coinvolta esprimo la massima solidarietà e spero che il tutto si risolva senza conseguenze.

Rinnovo però una domanda retorica, chiedendomi perché non ci sia mai stato un piano di sviluppo digitale strutturato per la scuola come avviene nelle aziende in cui Internet e l’informatica giocano un ruolo fondamentale. Perché non ci sia una visione organica e nazionale, anziché demandata ai singoli istituti. Perché non ci sia una efficace analisi dei fabbisogni e delle scelte da intraprendere per proteggere investimenti, creare economie di scala, consentire crescita flessibile in modo da poter riutilizzare quanto integrato nella fase precedente senza, ogni volta, buttare via tutto.

Tutti aspetti che, in qualunque organizzazione di qualsiasi settore, fanno parte di una roadmap di sviluppo. Nella scuola italiana, invece, l’impressione è che ci si sia spesso lasciati prendere dall’entusiasmo del momento, da trend e demoni tecnologici, da linee guida indicate da figure poco competenti e da mille altri fattori che sappiamo e che è inutile ripeterci. Nessuna organizzazione si rivolgerebbe a fornitori di piattaforme digitali prive di garanzie su standard tali da assicurare continuità di servizio. E il paradosso è che, in home page, questi fornitori assicurano altissimi standard di sicurezza e puntano sull’italianità dei server.

Quando, lo scorso anno, si è diffusa la notizia che qualcuno al MIUR aveva dichiarato di voler lavorare per lo sviluppo di una nuova piattaforma proprietaria e tutta italiana da fornire alle scuole per la DAD, mi è venuta la pelle d’oca. Pensate allo spreco di denaro, tempo e risorse, avendo già a disposizione le soluzioni di Google e di Microsoft, di cui si può dire tutto tranne che non sia gente che sappia fare il suo lavoro e che offra livelli di sicurezza adeguata. Non è che tutti riescono a fare tutto. In Italia siamo bravissimi in cucina e abbiamo la stragrande maggioranza del patrimonio artistico e culturale mondiale. L’informatica lasciamola alla Silicon Valley.


pause play forward

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La recente lettura del romanzo “La valle oscura” di Anna Wiener, il racconto dell’esperienza dell’autrice nel mondo delle start-up digitali e nella valle del silicio, mi ha permesso di riflettere sul mio primissimo impiego nella bolla Internet e sul fatto che, per un vasto periodo della mia vita, non sono esistite serate o fine-settimana realmente liberi. Non c’era un vero e proprio stacco tra un giorno feriale e il seguente. Piuttosto una pausa variabile tra una consegna e il progetto successivo. Un modello che ha segnato per sempre – almeno fino a oggi – l’idea che ho del lavoro. Fare l’insegnante comporta un approccio simile. Volendo, si potrebbe non staccare mai tra ore in classe, preparazione delle lezioni, attività di ricerca materiali e contenuti, confronto sulle best practice, programmazione e reportistica, commissioni, incarichi extra. Per non parlare del fattore umano: basta una dotazione di sensibilità entry level per portare i tuoi alunni con te nel tempo libero, in macchina, nelle conversazioni con i tuoi famigliari, persino in vacanza. Anche la scuola può trasformarsi in un’esperienza totalizzante, e non venitemi a dire che dipende dalla sfera privata che hai. Ritengo di avere affetti e interessi piuttosto ingombranti e complessi da gestire. Tutto questo accadeva prima dello scoppio della pandemia. Qualcuno poi ha messo in pause la vita e imposto una nuova normalità. Dalla primavera dello scorso anno mi capita di trovarmi a riflettere, in piedi sul balcone di casa e intento a osservare gli inequivocabili segnali delle stagioni che si susseguono nei giardini delle villette intorno al condominio in cui vivo. Penso che è la prima volta nella vita in cui sono costretto a restare immobile. Oggi è stato l’ultimo giorno di didattica a distanza prima delle vacanze pasquali. La mia dirigente ci ha pregato di non esporci con i bambini e con le famiglie circa il ritorno in presenza della prossima settimana. Io però non ce l’ho fatta. Mi sono espresso con la massima cautela ma è stato difficile trattenere l’ottimismo. Se ne sono accorti tutti. Però qui lo posso dire: bambini, vi aspetto in classe. Ci vediamo tra pochissimo.

caserma

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A casa di Mattia mi sembrano tutti fuori di testa. Il padre è un militare e qualche giorno prima che inserissero nella mia classe il bambino è venuto a scuola in divisa per presentarsi a chiunque tranne che ai futuri insegnanti di suo figlio. Quando finalmente ci siamo conosciuti, la prima cosa che mi ha detto è di essersi diplomato allo scientifico e che la mamma di Mattia ha una laurea in qualcosa che non ho capito, prerequisiti che, secondo loro, escludono qualsiasi difficoltà nell’apprendimento delle materie dell’area logico-matematica. È Mattia stesso a definirsi un genietto, lo ha già fatto più volte ma io non me la sento di richiamarlo per la sua presunzione. È troppo piccolo per comprendere il significato sociale del suo comportamento ed è evidente che la colpa è dei genitori che non gli hanno mai fornito gli strumenti base di mediazione del sé. E poi io ho passato la vita a reprimermi e non voglio aumentare la schiera. Si sente uno in gamba? Buon per lui. Mattia ha anche un modo di gesticolare quando parla che non so da dove l’abbia preso. O forse sì. Vivono in un appartamento ricavato nella caserma con le pareti piene di gagliardetti e cimeli bellici. La mamma ieri, durante la videolezione di scienze, è passata dietro la postazione di Mattia trasportando una gigantesca vasca trasparente contenente un paio di minuscoli pesci rossi. In classe, quella di mostrare alla webcam gli animali domestici è una pratica piuttosto frequente e deriva dal fatto che la mia gatta stanzia costantemente sui miei polsi quando sono al computer. Così capita che qualcuno presenti il proprio cagnolino ai compagni e Mattia, o per lo meno sua mamma, non ha voluto essere da meno. Senza chiedere nulla, mentre correggevamo le divisioni, ha occupato con la vasca dei pesci tutta l’inquadratura. A dire il vero i suoi cameo sono frequenti e a loro modo esilaranti. Sento la sua voce fuori campo incitare il figlio a intervenire nelle discussioni. «Digli che lo sai anche tu!», oppure «fagli vedere come hai fatto il disegno!» e altre cose di questo genere che mi inducono a spegnergli il microfono da qui. Malgrado non abbiano problemi economici si sono fatti prestare un pc da qualcuno ma dev’essere un modello vecchio, almeno mi dice così quando si piazza sulla sedia al posto di Mattia e mi avvisa che deve riavviare tutto perché l’audio ha qualche problema. «Io la vedo e la sento benissimo», cerco di rassicurarla ma non riesco a finire la frase che mi interrompe. «Spengo tutto, mi raccomando ci aspetti». Ma a me viene voglia di andare avanti apposta perché mi sembra un comportamento fuori luogo e poco rispettoso. E poi tanto Mattia è veloce e recupera al volo, d’altronde la madre è laureata in qualcosa che non ho capito e il papà ha la conseguito la maturità scientifica.

fatti così

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Una mia collega sostiene che nella frase “Chi hai incontrato ai giardini” il complemento oggetto sia “hai incontrato”. Si chiama Eleonora ed è la stessa di qual è con l’apostrofo. Lo ha notato la mamma di un suo alunno durante la DAD che, come Eleonora e me, fa l’insegnante. Segue suo figlio, che ha Eleonora come docente delle materie dell’area linguistica da ottobre, durante le lezioni da remoto perché è beneficiario di un piano personalizzato volto all’inclusione come tanti altri bambini che, per una cosa o per l’altra, non riescono a tenere il ritmo della classe. Ma quindi, i genitori che assistono sono un problema o no?

A differenza dello scorso anno, a questo giro di didattica a distanza c’è stato un netto miglioramento della questione, nella mia classe. Faccio molte più ore sincrone e a tutti i bambini insieme, mentre con il primo lockdown avevamo formato dei gruppetti con incontri ridotti al minimo, privilegiando le lezioni asincrone. Ma erano bambini di prima e non tutti sembravano in grado di gestire il dispositivo e la piattaforma in autonomia. Ora, un po’ perché sono più grandi e un po’ grazie all’esperienza acquisita, li vedo da soli alle loro postazioni. Ogni tanto fa capolino una mamma, un papà o un nonno per controllare se tutto fila liscio. Ma nell’insieme nessuno si lamenta.

Io ho dato disposizioni affinché l’ambiente in cui si collegano sia adatto alla scuola da casa. Il posizionamento dei device deve consentire di scrivere sui quadernoni o sul libro ma, allo stesso tempo, garantire la possibilità di accendere o spegnere il microfono facilmente e senza dover spostare nulla. Il tutto possibilmente consentendo ai bambini una postura corretta – le ore al pc iniziano a essere tante – e soprattutto comoda. Ho suggerito di evitare che ci sia una fonte luminosa alle spalle per evitare riflessi sullo schermo – e fastidi agli occhi – e l’effetto controluce per l’insegnante. Nei casi in cui dei bambini da qui si vede solo la fronte ho chiesto di usare uno o più cuscini sulla sedia, in modo da migliorare la comunicazione docente-alunno con tutta la forza espressiva della mimica facciale. Il fatto è che la loro autonomia coincide con la nostra emancipazione dagli adulti che suggeriscono e, soprattutto, dall’ingerenza sul metodo adottato e sulla nostra competenza, abbattendo quindi la possibilità che qualcuno possa accorgersi delle colleghe che, come Eleonora, sostengono che nella frase “Chi hai incontrato ai giardini” il complemento oggetto sia “hai incontrato”.

Anche mia figlia, che è grande e fa la quarta superiore, segue le lezioni da casa e io evito come la peste di trovarmi coinvolto in un qualunque momento di vita quotidiana in classe, a partire dalle spiegazioni per non parlare delle interrogazioni. L’altra mattina stavo lavorando in sala e, non chiedetemi perché, ha deciso di partecipare all’ultima ora in classe con me vicino. C’era la prof di scienze che procedeva con una serie di interrogazioni programmate e che ha portato a termine dieci minuti prima della fine dell’ora. La prof di scienze è alle soglie della pensione e non risalta certo per iniziativa né per quella verve che fa appassionare i ragazzi alla disciplina. «Mancano dieci minuti: che cosa facciamo ora?» ha chiesto. Il più brillante della classe – siamo in una quarta liceo classico, quella che una volta era il secondo anno del triennio – è intervenuto dicendo che si poteva chiacchierare un po’. «Ci dica come si sente lei in questo momento», ha chiesto.

La buona prassi impone ai docenti di avere sempre qualcosa pronto da fare per evitare i buchi. Meglio abbondare con le attività, non si sa mai, alla peggio si tengono per un’altra occasione. La prof di scienze non ha mangiato la foglia. Meno male, sarebbe stato un momento molto cringe, come dicono mia figlia, il più brillante della classe – che non è mia figlia – e tutti i suoi coetanei. «Ho trovato! Vi faccio vedere una cosa che vi divertirà sicuramente». Il programma, i questa fase dell’anno, prevede l’approfondimento degli apparati del corpo umano. «Scegliete un apparato!», ha chiesto alla classe. La rappresentante degli studenti, spigliata tanto quanto il più brillante ma, in quando donna, molto più intelligente, ha risposto per tutti. “L’apparato digerente, visto che è quasi ora di pranzo”.

Si è capito allora dall’espressione del viso che la prof di scienze stava cercando qualcosa sul suo PC. «Vediamo se riesco a farvi vedere questo video». Ma le competenze digitali della prof lasciano a desiderare, essendosi formata in tempi analogici. «Lo vedete?» ha chiesto. «No, vero? Mi si è bloccato tutto», ha continuato. «Peccato, volevo condividere con voi un episodio di “Siamo fatti così”, un cartone animato che racconta il corpo umano». Io mi sono vergognato tantissimo per essere stato testimone di una scena così intima e imbarazzante per lei, per la classe, per la scuola italiana e per il mondo intero. Ho fatto finta di niente proprio per non passare per il genitore ingerente che mette il becco nel lavoro degli altri. Però, qualche domanda, me la sono posta. E una la faccio a voi: nella frase “Chi hai incontrato ai giardini” qual è il complemento oggetto?

stella polare

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La mamma di Noemi mi ha chiamato poco fa per chiedermi se sapessi quando finiscono, quest’anno, gli esami di terza media perché sua figlia frequenta l’ultimo anno. Avrei potuto risponderle che la filosofia popolare ci insegna che gli esami non finiscono mai. Avrei dovuto anche evitare di lasciare il mio numero in calce all’e-mail di risposta che le ho inviato per cercare di soccorrerla per l’annoso problema di Classroom che le funziona sul cellulare e sul computer ma non sul nuovo tablet. «La bambina questa settimana sta con il papà e con me solo sabato e domenica», ha aggiunto. «Le spiace se le rubo un minuto nel week-end per cercare di risolvere il problema?». Io ai bambini con i genitori separati non riesco a dire di no. Qualche settimana prima c’era stato il caso della ex-coppia in cui, per farsi dispetto – almeno credo – le volte in cui era il papà ad avere in gestione il figlio mi faceva resettare la password di accesso alla piattaforma sostenendo che la madre non gliel’aveva comunicata e il figlio non poteva collegarsi per la lezione. Dopo qualche giorno la madre faceva lo stesso perché il papà, di contro, non l’aveva aggiornata con le nuove credenziali. Così la palla è tornata nel campo del papà la volta successiva, e via di un’altra password. Quando finalmente ho capito l’andazzo ho impostato una password dal sistema senza lasciare all’utente la possibilità di personalizzarla. Quindi l’ho inviata a entrambi i genitori, mettendoli rigorosamente in copia nascosta, onde evitare recriminazioni legate alla privacy. Insomma, la vita di un amministratore Google Workspace non è mai monotona. Comunque ho atteso tutto il sabato pomeriggio che la mamma di Noemi mi contattasse e poi, verso l’ora di cena, mi ha confessato su Whatsapp di essersi persa a fare la spesa, chiedendomi se fossi disponibile la domenica pomeriggio. Il fatto è che in tempi di zona rossa e lockdown non è che si possono accampare tutte queste scuse per non farsi trovare in casa. E, se volete sapere come è finita, è finita che Noemi ha deciso di continuare a usare il computer e che, quindi, il problema sul nuovo tablet non si sarebbe più riproposto. Così la mamma non si è più fatta sentire. Inutile negarvi quanto mi faccia piacere che i problemi si risolvano da soli, perché i problemi vivono di vita propria e spesso non c’è bisogno di una stella polare che indichi la via di uscita. Pensavo che la questione fosse chiusa fino alla telefonata di poco fa. La mamma di Noemi è tornata all’attacco e si è chiesta – e ha voluto chiedere a me – se potessi toglierle il dubbio sulle date degli esami di terza media. Le ho risposto che no, che non ne ero a conoscenza, che è meglio chiedere in segreteria e che comunque, sul sito, dovrebbe trovare il calendario dell’anno scolastico. «Grazie, lei è davvero molto gentile». Di nulla, si figuri, è stato un piacere.

dote scuola

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A questa seconda ondata di didattica da remoto la mia scuola ha ricevuto un numero di richieste di strumenti tecnologici da parte delle famiglie di gran lunga superiore rispetto ai device messi a disposizione dall’istituto e rispetto all’analoga iniziativa avviata in corsa durante lo scorso lockdown. Questo malgrado la precedente esperienza abbia più che dimostrato quanto sia fondamentale dotarsi di un dispositivo digitale in grado di accompagnare l’esperienza didattica dei ragazzi.

Non essendo possibile stilare una graduatoria in base ai fattori propri di una campagna di questo tipo basata su indicatori ISEE o simili (per ovvi motivi di urgenza), si procede privilegiando gli studenti delle classi più alte, quindi a partire dalla secondaria di primo grado, a scendere, con la precedenza a DVA o segnalazioni dei servizi sociali. Nel nostro caso, siamo arrivati a soddisfare le domande solo fino alla quarta primaria. Il punto è che le famiglie che richiedono un pc o un tablet per consentire ai propri figli di seguire le lezioni da casa dovrebbero attivarsi solo in caso di reale impossibilità di provvedere in autonomia. Ma i numeri parlano chiaro e, a conti fatti, la percentuale di richiedenti non risulta realistica. Sono arrivate candidature da nuclei con più figli, per esempio, oppure da genitori che lamentano di avere attrezzatura obsoleta e poco adatta.

C’è poi un fattore tutt’altro che secondario. Contesti famigliari anche abbienti in cui non è mai stato previsto l’acquisto di un dispositivo adeguato. Ragazzini e bambini che partecipano alle videolezioni collegandosi con il telefono, rendendo vano il potenziale delle piattaforme di didattica digitale che offrono – spesso gratuitamente – formidabili tool per ovviare alla mancata presenza in classe ma che, privi di uno schermo sufficientemente ampio e periferiche di input, a partire dalla tastiera, servono poco o nulla. Laddove non si lesina su smartphone di grido, tv di ultima generazione e altra tecnologia da migliaia di euro per l’intrattenimento e il gioco, siamo ancora restii a considerare un buon notebook un investimento in grado di supportare i ragazzi nel loro percorso scolastico. DAD a parte, pensate a quanto può essere utile un computer per le attività da casa e quante opportunità di una scuola diversa consentirebbe. Senza contare che un pc, in famiglia, serve sempre. Capiterà a tutti di dover scrivere un documento, compilare un modulo offline, visualizzare immagini a una grandezza decente.

Eppure le offerte di dispositivi con requisiti sufficienti ad assicurare la didattica a distanza non mancano. Certo, nei momenti di urgenza è facile incappare in qualche fregatura e non è raro che i prezzi aumentino. Per questo sarebbe stato più proficuo per i genitori provvedere a scuole chiuse, durante la scorsa estate, quando le cose sembravano procedere per il meglio ma il rischio di una nuova crescita dei contagi non era del tutto scongiurato. Un buon pc dovrebbe far parte dell’equipaggiamento didattico di ogni alunno tanto quanto libri, zaino e cancelleria. E non vedo perché debba essere a carico della scuola pubblica.