rompere il ghiaccio

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Non c’è modo più efficace di cominciare la scuola rompendo il ghiaccio, soprattutto se fa ancora molto caldo in aula e la metafora della cella frigorifera non è poi così male. Peccato che il ghiaccio, a proposito di relazioni tra le persone, significhi freddezza di rapporti, e non è detto che le schegge che si generano rompendolo siano in grado di migliorare l’ambiente. Meglio lasciare che siano il tempo e il caso a scioglierlo, come accade in natura, e che il riscaldamento locale faccia il suo dovere? No. In questi casi è consigliata una terapia d’urto. Ho chiesto così alla dozzina di bambini che avevo davanti – gli irriducibili iscritti al piano scuola estate 2021 che hanno scelto di frequentare anche l’ultima settimana di vacanza precedente all’inizio ufficiale del nuovo anno scolastico – di rompere il ghiaccio, facendomi spiegare da loro il significato di quel modo di dire. Davanti avevo una classe eterogenea, in una gamma comprensiva di studenti in procinto di andare in alla secondaria di primo grado sino a bambini appena usciti dalla prima primaria, con l’aggravante che non tutti si conoscevano tra di loro.

Per rompere il ghiaccio ho detto allora che l’estate 2021 è stata un’estate straordinaria, di quelle che non ci dimenticheremo mai più nel corso della nostra vita. Un’estate pazzesca, nel bene e nel male. Ho diviso la lavagna in due settori con i rispettivi titoli: “che cosa è successo” da una parte e “che cosa MI è successo” dall’altra, avviando il dibattito su tutto ciò che, privato o pubblico, porteremo con noi per sempre dagli ultimi mesi appena trascorsi.

La sfera personale è filata via liscia. Viaggi, città d’arte, mare, grotte, laghi, montagna, amici e famiglia. Un granchio ha pizzicato la mano alla più piccola del gruppo, ma solo perché lo ha accarezzato (a me i granchi non ispirano tenerezza, e se la devo dire tutta anch’io mi sarei ribellato a una confidenza di questo tipo. Non è così che si rompe il ghiaccio tra specie diverse). Un’altra è stata costretta dai genitori a quaranta ore di viaggio senza sosta per raggiungere una cugina moldava. Un’altra ancora è stata in fila un giorno intero sotto il sole per il biglietto del concerto di Sangiovanni. Ben gli sta. Cose così, come tutte le cose che capitano quando siamo in vacanza.

Quando si è trattato di elencare gli avvenimenti pubblici la questione si è fatta critica, colpa delle tragedie che sono state ricordate nei primi tre o quattro interventi: incendi di boschi e di palazzi, i finestrini mandati in pezzi dalla grandine (è il ghiaccio a rompere le altre cose, ho aggiunto io) e cose così. Ho dovuto insistere per ricordare a tutti che abbiamo vinto gli europei di calcio, che abbiamo portato a casa una valanga di medaglie tra olimpiadi e paralimpiadi, che abbiamo stravinto gli europei di pallavolo. A quel punto Leonardo ha alzato la mano per aggiungere un’altra cosa bella, e cioè che siamo a buon punto con la campagna vaccinale. Non l’ha detto proprio così ma il senso era quello. Così mi sono stupito di non averci pensato prima. Anzi, di non aver messo il vaccino al primo punto di quell’elenco di cose belle. Avrei dovuto dirlo io. Il fatto è che il vaccino a scuola potrebbe risultare un argomento divisivo. Ci sono insegnanti (quattro gatti, per fortuna) che mettono i bastoni tra le ruote, ma tra i genitori di quei bambini e di quei ragazzini i recalcitranti potrebbero essere molti di più. Ho risistemato l’elenco alla lavagna con il vaccino al primo posto e ho osservato quella classe di studenti così vari. Solo gli occhi, naturalmente, l’unica parte del viso che si vedeva. Ho pensato a un altro anno con la mascherina e chissà se magari il prossimo non ci sarà bisogno di stilare una classifica perché la vera notizia, quella più bella, sarà una sola.

un mestiere da fighi

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Non pensavo che l’insegnante di scuola primaria fosse un mestiere da fighi. Me ne rendo conto invece ogni volta in cui rivelo ciò di cui mi occupo quando si parla del più e del meno con le persone appena conosciute e, in cambio, ricevo attestazioni di stima, questo senza che nessuno sia in grado di dimostrare se sia un bravo o pessimo docente.

Quando qualcuno mi chiede che lavoro faccio, dapprima rispondo solo un generico “insegnante”. Poi c’è chi insiste e vuole sapere di quale ordine scolastico e la materia, e a quel punto metto le carte in tavola. Mi tocca chiarire che, alla primaria, siamo tenuti a insegnare tutte le discipline e che, nell’attuale ciclo, seguo la parte logico-matematica, artistica e di lingua inglese. Una manfrina che, per brevità, i più traducono con la locuzione “maestro elementare”. Parole che, nell’immaginario collettivo, inducono a una visualizzazione di questo tipo:

Ed è a questo punto che si innescano le espressioni di incredulità e le reazioni di sorpresa. Intanto perché sono un uomo e l’uomo che per lavoro si prende cura metodicamente di una ventina di mocciosi a mille e quattrocento euro al mese suscita curiosità e restituisce quella sorta di folklore che trasmettono certi personaggi caratteristici e bizzarri che vediamo alla tv o in giro nei nostri paeselli.

Ma questa è solo l’interpretazione più cinica. Alla notizia che insegno alla scuola primaria, nelle mamme si attiva il processo dell’analisi comparata con l’esperienza scolastica dei loro figli, mentre i padri – specie quelli che fanno lavori pagati meglio, cioè praticamente tutti a parte gli insegnanti come me – a stento riescono a dissimulare il loro scetticismo. Si precipitano a pisciare immediatamente per delimitare il loro territorio e non rischiare crepe alla stima professionale di cui un ingegnere gode in famiglia. Corrono a banalizzare il nocciolo della questione con l’aneddotica personale sugli insegnanti maschi incontrati nella loro vita o delle persone che conoscono perché, in fondo, dentro di loro si attiva un segnale di allarme di cui questo spot costituisce una sintesi efficace:

che attesta che il mestiere di insegnante di scuola primaria è un lavoro da fighi.

Succede che anche il maschio ingegnere più alfa si abbassi ad ammettere di essere privo della pazienza necessaria a tenere a bada una classe di bambini per diverse ore al giorno, d’altronde non è mica un requisito maschile. L’importante è non equivocare una reazione di questo tipo come un atto di subordinazione a chi esercita un mestiere di natura femminile. Tale dichiarazione va letta come “ce l’ho così lungo che la società non si aspetta da me che sottragga tempo alla mia forza riproduttiva e alla mia abilità nel sostentamento e nella difesa della comunità di appartenenza in attività che non richiedano competenze organizzabili tramite diagrammi di flusso”.

In questo frangente occorre agire con un po’ di intelligenza e di psicologia. Non dimentichiamoci che, anche se ingegneri, sono sempre uomini e, quindi, piuttosto elementari. L’insegnante di scuola primaria dovrà quindi mostrarsi innocuo e disponibile a non mettere a repentaglio le dinamiche di gruppo nelle battute di caccia e nell’organizzazione della difesa delle mura. Automaticamente, la conversazione si assesterà sugli attestati di stima.

Che, a dirla tutta, a volte sono sin troppo espliciti e suscitano imbarazzo. Non è che uno che dedica la sua vita alla scuola è, per forza di cose, un eroe invisibile della contemporaneità. Piuttosto, ormai l’opinione più comune è che è grazie a noi che ci prendiamo cura dei figli più piccoli, tenendoli lontani dalle famiglie per buona parte del giorno, che l’economia va avanti, perché consentiamo ai genitori di recarsi al lavoro – un lavoro vero – senza orpelli da accudire. Certo, è così che la società restituisce una visione in cui noi insegnanti passiamo poco più che per bambinai (con tutto il rispetto per i bambinai), ma d’altronde cosa possiamo pretendere, che già godiamo di cinque mesi di vacanze l’anno.

Per questo, quando chiacchiero del più e del meno con persone appena conosciute, evito di parlare del mio lavoro. Anzi, evito di parlare proprio. Poi però c’è sempre qualcuno che tira in ballo la sfera professionale – siamo ciò che produciamo – e a quel punto, svelato il mio mestiere, mi tocca fare la persona seria, empatica, brillante, credibile, affidabile, dispensatrice di sorrisi e affabilità, e da quel momento so già che sarò costretto a omettere le mie passioni, le mie perversioni, le cazzate che mi capita di combinare ogni giorno il mio lato oscuro, il tutto a favore della componente di autorevolezza, quella che mi sforzo di tenere sempre accesa nei pochi mesi in cui non sono in ferie, come sostiene la maggioranza della gente. Se faccio l’insegnante e sono un uomo ho, per forza di cose, un’indole paziente. Che poi è vero, ma che pazienza.

E solo allora capisco, dalle espressioni altrui, di esserci riuscito. Ce l’ho fatta: ho convinto chi ha preteso spiegazioni del fatto che sono una brava persona, un buon insegnante di scuola primaria. In più, un uomo equilibrato di cui i genitori dei miei alunni possono fidarsi lasciandomi, ogni mattina, i loro marmocchi per poter far girare l’economia mentre io chiedo di ricopiare le cornicette disegnate alla lavagna.

Poi però c’è sempre qualcuno un po’ più sagace degli altri, e che spesso è una donna, che mette insieme ciò che già sapeva di me, magari anche gli aspetti più sconvenienti della mia personalità, con tutto ciò che ha appena ascoltato e capisce che, tutto sommato, sono così anche grazie a quella parte di me che meno può essere ricondotta a un mestiere per svolgere il quale sto in una classe con venti bambini di otto anni per sei ore al giorno. Qualcuno che trae delle conclusioni e che pensa che, davvero, per fare l’ingegnere occorre essere una sorta di semi-divinità ma, specie se sei un maschio, l’insegnante di scuola primaria è un vero mestiere da fighi.

ricrescita

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La scuola è grande e tra colleghi non ci conosciamo tutti, un po’ come accade in certe multinazionali con headquarter e filiali. Qui c’è la sede principale con la presidenza, gli uffici amministrativi e la secondaria di primo grado. Poi ci sono i plessi della primaria e quelli dell’infanzia in distaccamenti veri e propri. Prima del Covid si tenevano i collegi docenti plenari in cui almeno potevamo incontrarci tutti di persona. Poi è subentrata la pandemia e, da allora, vediamo solo la faccia in videoconferenza di quelli di noi mostrati random dalla piattaforma che utilizziamo, sempre che si tenga la videocamera accesa. Qualcosa però mi dice che, quando anche un giorno il pericolo di contagio cesserà, continueremo a mantenere la stessa modalità perché, oggettivamente, è più comoda. Ma se aggiungiamo anche il fatto che ogni anno è un continuo via vai di docenti tra precari, supplenze e trasferimenti, il turn-over estremo impedisce di consolidare amicizie professionali oltre il proprio metro quadro, senza contare che – anche ne migliore dei casi  – non è per niente facile. Non è come nelle aziende normali, in cui al netto della competizione per far carriera non è raro che nascano forti legami. Qui c’è moltissima umanità rispetto ai lavori orientati al profitto del datore di lavoro, però la mediazione degli studenti e le loro incessanti richieste di attenzione favoriscono la dispersione della portata relazionale degli insegnanti tanto che poi difficilmente, al termine della giornata lavorativa, ci si va a fare una birra tutti insieme. Qualche settimana fa ho passato un po’ di tempo, tra una lezione estiva e l’altra, con una collega che prima conoscevo solo di nome. Ho intuito solo dopo qualche scambio su esperienze molto simili che fossimo coetanei e gliene ho chiesto conferma. Non ci sarebbe nessun problema se non per il fatto che, prima di saperlo, ero certo fosse molto più grande di me. Una stima che, a pensarci a mente lucida, non ha senso. Ho 54 anni e molto più grande di me, alla mia età, significa 65/70 anni suonati. Mi vergogno di non riuscire a dare un’età al prossimo ma sono convinto che non si tratti di un problema di incapacità di focalizzare e trovare la sintesi o, peggio, di una considerazione anagrafica deviata che ho di me stesso. Anche se mi compro dischi di band i cui componenti hanno trent’anni meno di me non significa – almeno spero – che mi creda un irriducibile adolescente. Sono consapevole della mia età ma credo che l’essere anziani nel modo in cui pensiamo siano gli anziani sia una condizione culturale. E comunque si tratta di un modo di sentirsi che abbiamo tutti. Mia mamma mi dice spesso di percepirsi come la stessa persona di quando aveva 18 anni, poi si guarda allo specchio e vede un’anziana di 84 anni e resta delusa. Con la mia collega coetanea però abbiamo parlato di argomenti da anziani, e questo è ovvio perché, tutto sommato, siamo abbastanza anziani. Al termine della conversazione ero ancora più convinto della mia opinione, e cioè che non mi interessano le cose da vecchi e non mi riferisco alle malattie, ai nipoti o a com’era meglio quando eravamo giovani noi rispetto al presente. Voglio continuare a parlare di post-punk, di letteratura americana, di politica, di comunicazione digitale, argomenti per i quali pensavo fosse fondamentale la data di nascita, quanto hai già vissuto e il periodo che hai vissuto. Evidentemente non è così.

le ferie, spiegate bene

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Non è scritto da nessuna parte che le ferie debbano coincidere con l’inizio e la fine di una vacanza o di un viaggio. Anzi, sono convinto che trascorrerle dal primo all’ultimo minuto fuori da casa propria sia controproducente. Mettersi in viaggio il primo giorno di ferie significa giungere stremati al momento della partenza, perché nei giorni precedenti i preparativi si sommano con la chiusura delle cose da fare al lavoro. Per non parlare del rientro in ufficio la mattina successiva al ritorno a casa dopo un viaggio. Ve lo dico perché l’ho fatto per anni e non solo non mi sono mai goduto appieno i due momenti, ma i primi giorni di ferie e gli ultimi li ho sprecati come periodo di decompressione per adattarmi alle condizioni precedente e successiva. Soprattutto, riprendere il lavoro così è a dir poco traumatico.

Il problema è che due o tre settimane di ferie in un anno sono davvero poche e così pensiamo erroneamente che il modo più fruttuoso di estendere al massimo la durata sia quello di farle coincidere il più possibile con un viaggio o un soggiorno altrove, ignari del fatto che le ferie sono, prima di ogni altra cosa, uno stato d’animo. Tutto questo sempre che, come me, non facciate l’insegnante ma non è certo questo il luogo per avviare un dibattito su una questione annosa come l’organizzazione della pubblica istruzione.

Quest’anno le cose però non sono andate proprio così. Chi ha voluto – e io ho scelto di farlo – ha potuto mettersi a disposizione per i corsi estivi organizzati dalle scuole su input del MIUR. Giornate di lavoro straordinario (retribuite come extra oltre allo stipendio che già prendiamo e non è certo questo il luogo per avviare un dibattito su una questione annosa come la busta paga dei docenti) e proposte come recupero di quanto perso durante l’anno scolastico per la pandemia. Ogni scuola si è organizzata come ha preferito, in base alle adesioni di studenti e personale. Io ho partecipato per l’intera durata del nostro piano scuola, un mese tondo tondo (dal 14/6 al 14/7) per quattro ore di lezione ogni mattina. Avete letto bene: oggi finalmente sono in ferie anch’io, e lasciate perdere la data di questo post, io li pubblico retrodatati e non chiedetemi il perché, sarebbe lunga da spiegare. Oggi è il quattordici luglio, la ricorrenza della presa della Bastiglia, della mia laurea e ora anche della fine di quest’anno scolastico che è durato un mese in più degli altri.

Ho avuto in classe studenti dai 7 ai 13 anni organizzati in gruppi omogenei, ho preparato micro-programmi da due o tre incontri per seguire un percorso organico indipendentemente dal forte turn-over di alunni che c’è stato e che non era previsto alla partenza. Ho svolto gli argomenti per i quali avevo pianificato il materiale ma ho anche improvvisato per svariati motivi (questo succede anche durante l’anno scolastico vero e proprio). Ho conosciuto colleghi con cui non avevo mai collaborato e alunni visti per la prima volta in questa occasione, e questa è stata la parte più significativa di tutta l’esperienza. Ho affrontato temi di cui mai avrei pensato di parlare in classe. Ho scoperto che in seconda media c’erano ragazzi che non avevano mai visto i Blues Brothers ma anche che non è vero che a quell’età ascoltano solo trap. Anzi, pare si sia riaccesa l’antica fiamma del pop, ne parlano anche qui, e sono felice di aver preso una cantonata preparandomi ad approfondire i loro ascolti preferiti partendo dalla peggio cose che  pensavo gli piacessero. Ho mostrato loro qualche app per fare musica e poco fa uno di loro mi ha mandato una composizione creata in quattro e quattr’otto appena rientrato a casa, poco fa, dopo l’ultimo incontro di stamattina.

Ma ora basta, sono davvero in ferie. Ho un sacco di roba arretrata che va da lavare l’auto a smontare lo scarico del lavandino per recuperare una testina dello spazzolino elettrico, fino a cercare in garage tutta la rassegna stampa sul G8 di Genova acquistata all’epoca e da rispolverare in occasione del ventennale che ricorrerà a giorni. Poi partirò, ma più in là, dopo che mi sarò già abbondantemente sentito in colpa per aver trascorso del tempo inoperosamente. Ma si sa, le ferie sono uno stato d’animo, ed è questo il problema.

sotto il palco

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Nelle mie lezioni cerco di presentare la musica in tutte le sue forme. Manca solo la dimensione della musica suonata, il che apparentemente costituisce un paradosso: la musica si fa principalmente con gli strumenti in mano. Non è facile, però, organizzare una classe di musica con studenti la maggior parte dei quali non ha mai preso lezioni pratiche. La scelta di uno strumento da attribuire individualmente dev’essere ponderata secondo le attitudini del singolo ma, circoscritta in un programma didattico e in tempi poco accomodanti, non è perseguibile. E poi si pone il problema di che tipo di ensemble formare, con una ventina di bambini o ragazzi. Un’orchestra vera e propria con archi, ottoni, legni e percussioni? Una banda da strada? Oppure, considerando l’impossibilità di insegnare venti strumenti diversi, comporre quattro gruppi da cinque elementi ciascuno e poi lavorare separatamente su batteristi, bassisti, chitarristi, tastieristi e cantanti? Fantascienza pura. Si potrebbe scegliere uno strumento per tutti, un rigido flauto o un più gradevole glockenspiel, che è quello che poi facciamo tutti, per non limitare il coinvolgimento alla sola vocalità. A me piace ascoltare musica tutti insieme, che è poi una delle mie grandi passioni quando sono a casa e quindi non vedo perché non mi ci possa dedicare anche a scuola. Ne scrivo spesso, qui, perché è un’attività che – curata nei dettagli – garantisce soddisfazione, consente di comprendere il carattere e le personalità degli alunni, permette il confronto e il dialogo, è inclusiva e aiuta gli studenti a mettersi in gioco e a farsi conoscere più approfonditamente grazie ai loro brani preferiti. Capita spesso che si riferiscano ai loro beniamini con un trasporto sorprendente, un attaccamento sicuramente diverso dalla venerazione che ho io per i Cure o David Bowie ma, al netto dell’ingombro della dimensione videoludica, non per questo non degna di attenzione. In questi casi mi impegno sempre a valorizzare gli artisti da cui si sentono ispirati – anche quando, oggettivamente, fanno cagare – e suggerisco loro di andare a vederli dal vivo, un giorno in cui finalmente si potrà uscire e ci si potrà sfogare liberamente sotto il palco scambiandovi il sudore e urlando senza mascherina. Cerco di trasmetter loro l’idea che il concerto è un’esperienza che non ha confronti. Vedere e ascoltare la musica live è una dimensione a sé in cui le vibrazioni dei suoni ci urtano e ci penetrano nelle viscere. Parlo ai miei alunni delle frequenze basse che fanno tremare la pancia, di quelle acute che ci fanno vibrare i timpani delle orecchie, dalla batteria che è una cosa miracolosa e che ci fa muovere a tempo. Racconto anche delle migliaia di sconosciuti con cui ci si ritrova, che sono lì come noi in quel momento per lo stesso identico motivo, persone che percepiscono la stessa cosa in un modo probabilmente all’opposto del nostro e che invidiamo perché cantano a memoria strofe che non ci ricordiamo. Ogni tanto trovo qualcuno che ha visto Vasco con i genitori a San Siro, altri che hanno partecipato a qualche rassegna estiva in piazza alla ricerca dei tormentoni, persino qualcuno che ha letto che nella località in cui trascorrerà le prossime vacanze si esibiranno in Maneskin, e poi ci sono molti meno privilegiati che hanno solo l’idea di cosa possa essere un concerto. A tutti dico di farsi regalare un biglietto del loro cantante o band preferita, appena si presenterà l’occasione, e di correre a vedere la musica dal vivo che è una delle esperienze più coinvolgenti e appaganti del mondo.

ho sbagliato bambino

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Non c’è nulla che metta ansia a un insegnante ansioso come l’uscita da scuola, quando il capannello di parenti forma un emiciclo in prossimità del cancello e il maestro restituisce, uno per uno, i suoi alunni ai rispettivi nonni genitori zii o chiunque abbia una delega depositata in segreteria, con tanto di foto, documento d’identità, autorizzazione controfirmata e lasciapassare A38. Qualche tempo fa c’era in giro una pubblicità della Volkswagen in cui un bambino faceva finta di salire su una T-Roc di un altro genitore per darsi delle arie con i compagni, ne ho scritto qui ma purtroppo il video è stato rimosso da Youtube. A me aveva colpito proprio perché se accadesse che un genitore ritirasse un figlio che non è il suo si scatenerebbe – giustamente – l’apocalisse. Il docente deve osservare attentamente chi si propone di prendere il bambino sulla rampa di lancio verso la libertà dalla scuola e, come quei giochi di memoria in cui bisogna collegare le carte scoperte, deve sincerarsi con se stesso che i due termini della coppia coincidano. Potete immaginare il delirio quando un insegnante ha una classe nuova, oppure nei casi in cui fa supplenza e accompagna dopo l’ultima ora un gruppo che non è il suo. Bisogna fidarsi dei bambini, bisogna fidarsi di chi si sporge verso il centro dell’emiciclo perché è il suo turno o X? Senza contare il fatto che un docente deve ispirare fiducia, sapere il fatto proprio e smistare con sicurezza ogni prole alla relativa collocazione. Talvolta ci si trova a bluffare di fronte a un prozio o al vicino di casa incaricato dalla mamma perché bloccata al lavoro o altri rimescolamenti di questo tipo, sperando che tutto fili liscio. Per questo, quando ho letto la notizia del nonno che ha sbagliato bambino all’asilo, si è aperto un varco di terrore dentro di me. Si è concretizzata infatti una delle mie peggiori paure, ancora più terribile di quella che avevo da piccolo dopo aver visto il film “Lo squalo”, quando temevo che passasse sotto casa una bisarca con rimorchio trasportante un gigantesco predatore testé pescato il quale, in preda a un energico istinto di sopravvivenza, balzava nella mia cameretta sfondando la finestra e, una volta dentro, mi inghiottiva in un solo morso. Ma i nonni, lo dico per cameratismo anagrafico, a volte sono un po’ rincoglioniti, magari mettono troppa sambuca nel caffè dopo pranzo o quel giorno hanno lasciato occhiali e Amplifon nel bagno del circolino dove giocano a burraco. Non siate troppo duri se qualche anziano confonde un bambino con un altro considerando che, diciamocelo, a quell’età i nostri mocciosi sono un po’ tutti uguali. Quando mia figlia era appena venuta al mondo e sonnecchiava inconsapevole del miracolo di cui era stata appena protagonista nella nursery insieme alle altre decine di neonati di quel giorno, ricordo di aver mostrato allo zio di mia moglie, venuto a trovare la nipote puerpera, la bambina a fianco di quella che avrei dovuto indicargli. Non avevo colto la differenza, questo per dirvi che può capitare a tutti. Non ho mai raccontato a nessuno questo aneddoto, e mai lo farò in vita mia. Statene certi.

scuola ufficio

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Il laboratorio digitale organizzato per il piano scuola estate è frequentato da tre gruppi di bambini della primaria e due di alunne e alunni della secondaria. Ho strutturato oil programma per gli studenti più grandi in modo più articolato pensando che, tra DAD e abilità con i dispositivi personali, sapessero già fare molto e riuscissero a imparare con maggior facilità. Ho previsto così una serie di approfondimenti sui più diffusi tool per la presentazione dei contenuti, a partire da quelli che la piattaforma di DDI che utilizziamo a scuola mette a disposizione, a cui ho aggiunto un po’ di pratica con Canva che, ad oggi, non teme confronti per il confezionamento di contenuti in modelli pronti all’uso. Il percorso si chiuderà con WordPress e l’introduzione alla creazione di siti con il più completo sistema di CMS. Si tratta di un programma pensato a supporto della didattica. Considerare grafica e impaginazione come parte integrante delle attività che si fanno a scuola è un approccio decisivo per formare i giovani sul ruolo dell’informatica oggi, imprescindibile in qualunque settore – a partire dallo studio – e non più appannaggio degli informatici. Certo, una predisposizione a smanettare aiuta, e sotto questo profilo i ragazzini che hanno partecipato mi hanno sorpreso per approccio. Peccato solo per Lorenzo, che ha dato forfait perché l’ho ripreso per cercare immagini inappropriate sui pc della scuola durante le mie lezioni. Gli ho fatto notare che a casa può anche stare tutto il tempo su Pornhub, ma qui a fare certe bravate si fa la figura dello sfigato. Non ho usato proprio queste parole, ma il senso c’era. A parte il suo caso, il resto si mette a lavorare a testa bassa sui portatili del laboratorio e non li senti più. Ho dato loro in pasto un documento interno della scuola da risistemare graficamente, e da quel momento non è più volata una mosca. Una situazione anomala per un contesto didattico. Trascorso qualche minuto mi sono persino preoccupato. Abituato al disturbo continuo di sedie che si spostano, astucci che cadono, interventi fuori luogo, richieste di andare in bagno, gente che si alza per temperare la matita e molto altro delle classi della primaria, ho osservato i partecipanti al laboratorio chini sulla tastiera ed è stato inevitabile il richiamo all’atmosfera che si respira in un ufficio. Il bello della scuola è proprio il fattore umano, che è fatto soprattutto di parole, odori (spesso poco gradevoli) e movimenti. In quel clima asettico ho ritrovato invece un gruppo di persone orientate a raggiungere un obiettivo, prendendo controllo il più possibile dello strumento a disposizione e perdendo il contatto con l’ambiente circostante. Ho chiesto loro, così, se preferissero lavorare con un po’ di musica di sottofondo ma sono stato sommerso da occhiate di scetticismo, forse pensavano che avrei messo canzoni da boomer.

in cattedra

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Avete presente quelli che hanno figli e dicono a quelli che non hanno figli che non possono capire perché non sono genitori? Non c’è preambolo migliore a sostegno della mia tesi, e cioè che non c’è nulla che riempia più la vita della scuola e, ve lo assicuro, se non siete insegnanti non potete capire. Questo non vuol dire che un docente non abbia la sua famiglia, la sua vita privata, la sua collezione di dischi in vinile e il suo gatto, rigorosamente in ordine di priorità. Però farsi carico della serenità di tutti quei bambini per mesi e mesi che poi d’improvviso puff, spariscono tutti nelle loro seconde case al mare o in montagna, è un’esperienza un po’ così così. Anzi, per certi versi ingiusta. Quest’anno, per rendermi conto se un po’ di continuità emotiva possa essere la soluzione di questo rapporto sentimentale a singhiozzo, ho dato la disponibilità per il Piano Estate, che è quella cosa a cui un insegnante come si deve non avrebbe mai dovuto dare il suo consenso perché le scuole cadono a pezzi, c’è carenza di organico, ero rimasto senza benzina, avevo una gomma a terra, non avevo i soldi per prendere il taxi, la tintoria non mi aveva portato il tight, c’era il funerale di mia madre, era crollata la casa, c’è stato un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette!

A parte le battute, il Piano Estate sta alla scuola come la scappatella agostana sta a quando la moglie è in vacanza. Scaturisce un flirt didattico con classi eterogenee che non sono le tue, da cui ci si può lasciar sedurre e abbandonare al termine di quest’iniziativa così raffazzonata che poi alla fine, guarda un po’, si è rivelata una figata senza precedenti. Insegnare quello che ci pare e nel modo che ci pare a ragazze e ragazzi che partecipano per scelta senza l’assillo del programma e della valutazione. Ma che razza di scuola è, diranno i puristi e quelli dei compiti delle vacanze a sentire la brezza marina. Certo, le aule non hanno l’aria condizionata e spaccarsi di eritemi sul bagnasciuga non ha eguali. Chissà che cosa resterà di questi corsi di teatro, di musica leggera, di WordPress, di comunicazione ai ragazzi. Io sono fiducioso e poi, si sa, chiodo scaccia chiodo. A settembre tornerò fedele ai miei bambini, ve lo giuro.

problemi di stagione

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“Signor maestro, che le salta in mente?
Questo problema è un’astruseria,
non ci si capisce niente:
trovate il perimetro dell’allegria,
la superficie della libertà,
il volume della felicità.

Quest’altro poi
è un po’ troppo difficile per noi:
quanto pesa una corsa in mezzo ai prati?
Saremo certo bocciati”.

Ma il maestro che ci vede sconsolati:
“Son semplici problemi di stagione.
Durante le vacanze
troverete la soluzione.

Gianni Rodari

adempimenti di fine anno

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Il problema della dematerializzazione e della digitalizzazione dei processi nella pubblica amministrazione è molto più grande di quanto si possa pensare e la scuola, in una competizione mondiale, potrebbe ricoprire il ruolo di portabandiera per i nostri colori. C’è un aspetto di fondo indotto dalla forma mentis degli operatori del settore e va ricondotto alla deferenza che incute la modulistica. I siti web degli istituti scolastici sono zeppi di modulistica da scaricare, compilare e, se la circostanza lo richiede, restituire firmata in digitale dopo averla acquisita allo scanner. Una circumnavigazione di una procedura elementare che potrebbe essere evasa in un paio di clic senza sprecare una goccia di toner. Il fatto è che non c’è nulla di più volatile di un modulo in Word, anche se poi trasformato in PDF. I moduli per il personale scolastico sono stati realizzati da chi lavora in segreteria, non vedo perché non ci si possa sentire liberi di adattarli a seconda dei contenuti con cui dobbiamo riempirli. La modifica della struttura di un modulo ne depotenzia la validità? Eliminare le righe superflue di una tabella, correggere i doppi spazi, cancellare l’articolo che non occorre nelle formule ereditate da quando si stampava tutto e occorreva scegliere il/la sottoscritt__, oppure DATA e poi scrivere la data cancellando la dicitura DATA tanto si capisce che, quello che ho scritto, è la data, sono azioni di hackeraggio che mettono a rischio il posto di lavoro del docente? Il modello va preso per quello che è, cioè una linea guida che poi ognuno fa sua. Paradossalmente posso anche scegliere di sostituire il font, oppure rifarlo tutto da capo se – come spesso accade – l’impaginazione è resa spostando parole e righe con la spaziatura e non utilizzando margini o tabelle e ci si vergogna di restituire un documento personale impostato a cazzo da un impiegato all’oscuro dei principi cardine dell’editoria. Nessuno muoverà accuse di falsificazione di documenti ufficiali. Le relazioni di fine anno, le ore extra da retribuire con i fondi di istituto e tutti gli adempimenti da portare a termine prima del liberi tutti estivo comportano almeno uno di questi moduli per circostanza da riempire e lasciano gli insegnanti in balia di inutili e anacronistici orpelli burocratici. Colleghi docenti, non abbiate timore della modulistica, nemmeno quando è in pdf. Usate un qualsiasi tool gratuito, convertitela in Word e divertitevi a pasticciarla come volete. Non spezzerete nessun incantesimo.