top secret

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I compiti in classe e le prove di verifica sono atti amministrativi della scuola, in base ai quali i docenti documentano e formulano le loro valutazioni sugli apprendimenti degli alunni. Ai sensi della normativa sulla sicurezza dei dati (cosiddetta ‘privacy’, D.Lgs. n. 196/2003 e Regolamento UE 27 aprile 2016, n. 679), il titolare ultimo di tutti gli atti e dei documenti della scuola è il Dirigente Scolastico: nessun atto può quindi essere dato in originale senza la sua autorizzazione e nessuno è autorizzato a fornire copia di verifiche, compiti in classe, relazioni, registri o qualunque altro atto della scuola senza la specifica autorizzazione del Dirigente Scolastico.

La normativa riguardante la trasparenza e il conseguente diritto di accesso agli atti da parte di cittadini verso la Pubblica Amministrazione (L. 241/1990, D.P.R. 184/2006 e successive modifiche) sancisce la legittimità della richiesta dei genitori di poter “visionare” compiti e verifiche dei loro figli e di richiederne copia.

Nella normativa citata, si distinguono un accesso “informale” agli atti, mediante motivata richiesta anche verbale di visione degli stessi, e un accesso “formale”, mediante presentazione di istanza documentata.

Sulla base di quanto sopra, si dispongono le seguenti modalità per le richieste in merito da parte dei genitori:

  1. accesso informale: i genitori possono chiedere ai docenti di “visionare” compiti e verifiche svolti in classe dai propri figli; i docenti daranno visione agli interessati della documentazione richiesta, chiarendone gli aspetti pedagogico-didattici e valutativi; questo può avvenire durante il ricevimento settimanale con le famiglie;
  2. accesso formale: i genitori che necessitano di una copia di tali documenti debbono presentare richiesta indirizzata al Dirigente Scolastico, in cui dovranno indicare tutti gli estremi del documento oggetto della richiesta, specificare l’interesse (diretto, concreto e attuale) connesso all’oggetto della richiesta ed esplicitare la propria identità. Previa autorizzazione del Dirigente Scolastico, i docenti provvederanno quindi a fotocopiare o a far fotocopiare il documento richiesto e a consegnarlo alla Segreteria didattica. I genitori, durante gli orari di segreteria, a seguito di una comunicazione via mail da parte dell’Istituto, a fronte di una firma per ricevuta e del corrispettivo economico dovuto, ritireranno presso la segreteria didattica la copia della verifica richiesta.

Il sonno di una scuola unicamente basata sulla valutazione non può che generare mostri come quelli che leggete qui sopra. Si tratta di una circolare circolata tra dirigenti e pubblicata più o meno as is su diversi siti di istituti di ogni ordine e grado.

Quando la scuola è unicamente basata sulla valutazione succede che i genitori intendono i voti come unità di misura ufficiale per pesare il cervello, la personalità e il futuro dei loro figli. I figli, cioè gli studenti, provano ogni mezzo e trovano i sistemi più raffinati per adulterare il punteggio con valori i più alti possibili – allo stesso modo in cui alle medie immergevamo il termometro al mercurio nel the bollente per darci malati e evitare l’interrogazione di matematica – con l’obiettivo di non tradire le altissime aspettative dei genitori. I docenti applicano metriche da mercato rionale mandando in vacca ogni criterio di raggiungimento degli obiettivi e, allo stesso tempo, cercano con i corsi di formazione più sofisticati di intercettare i metodi di contraffazione delle prove dei loro studenti che, grazie ad acronimi del calibro di BYOD e DAD, oramai vivono su un altro pianeta, altro che cloud.

Come potete leggere su questa circolare – provate a cercarla sul sito della scuola dei vostri figli o di quella in cui insegnate, sono sicuro che salterà fuori – le verifiche scritte sono dunque intese atti amministrativi, una cosa che fa sembrare la scuola un tribunale. Un posto dove si rischia una denuncia e non un luogo invece dove ci si diverte con la cultura, con lo stare insieme ai compagni, con l’imparare e tutte quelle cose belle che si leggono nella documentazione ufficiale, nei piani di offerta formativa e nei libri degli specialisti dell’educazione.

Nessuno vuole prendersi la responsabilità di ammettere che un sistema scolastico così è oramai superato. Anziché cambiarne i paradigmi gli sforzi sono tutti volti a definire i confini in modo da non incorrere nel rischio di un ricorso. Genitori contro insegnanti. Insegnanti contro studenti. Studenti contro dirigenti. Dirigenti contro il personale di segreteria. Tutti gli stakeholder della scuola, anziché perseguire un obiettivo comune, mirano alla sopravvivenza del proprio clan senza incorrere in grattacapi. Per farvi un esempio, la prof di matematica di mia figlia fa strappare agli studenti le brutte delle verifiche. Non sia mai che qualcuno le porti a casa e possa ravvisare incongruenze con la valutazione effettuata sulla copia consegnata. D’altronde gli insegnanti non vogliono essere valutati, i genitori sono ingerenti, i dirigenti sono manager senza budget, in segreteria lavorano spesso persone che nessuna azienda privata assumerebbe. Si dice che la scuola dev’essere inclusiva, ma è bene che inizi a non esser più divisiva.

sette

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La scuola a funziona a due velocità. Non sono più uno studente da un pezzo ma sono certo che la settimana di chi va a scuola duri circa un mese. Avete letto bene. Per tirare al venerdì pomeriggio, o per chi fa la settimana piena arrivare al sabato, trascorrono stagioni, addirittura anni e in alcuni casi lustri fino a quando, finalmente, si può uscire, fare tardi nei club e la domenica mattina dormire. La settimana degli insegnanti dura invece a malapena un paio di giorni e nessuno ha ancora compreso quale sia il motivo di questa percezione ai confini della realtà.

Il mio orario settimanale quest’anno comprende sei ore a lunedì e sei ore al martedì. Questo vuol dire praticamente che mi brucio in due giornate la metà del monte ore dedicato alla didattica.

Alla primaria non c’è bisogno di quei software complessissimi pensati per incastrare l’orario dei professori. In due maestri per classe ci si distribuisce le ore a seconda della rispettiva disponibilità. La mia collega di team si è organizzata la sua presenza pensando al figlio che quest’anno va alle medie e deve seguirlo nello studio. Per questo è risultata una distribuzione dei turni così sbilanciata. Per alcuni colleghi questa equità è oggetto di battaglie sindacali e sfide in presidenza, ma a me va bene tutto. Non ho grossi problemi. Vengo da una realtà professionale in cui non c’erano giornate lavorative. Ci si metteva davanti al computer e non si sapeva quando sarebbe terminato il lavoro. A volte la mattina ci trovava già con il pc acceso dalla notte prima.

Ecco perché per me è indifferente lavorare la mattina oppure nel pomeriggio e non ho ancora capito se cambiando gli orari la cosa potrebbe giovarmi. Non nascondo però che quest’anno faccio un po’ più fatica. L’aver concentrato dodici ore nel giro di trentasei circa mi pesa. Ed è per questo che arrivo al martedì sera come se avessi conquistato mio vero venerdì sera. Stanco, spossato, completamente bollito, con una birra media in mano davanti alla tv.

Mi sono così adattato a questa situazione solo ribaltando completamente tutte le priorità e le aspettative sulla settimana. Finisce che la febbre del sabato sera – il Covid non c’entra – mi assale il mercoledì, mentre dovrei essere nel pieno della mia settimana lavorativa, e già al venerdì pomeriggio accuso già quel malessere che in condizioni normali mi renderebbe inviso il lunedì mattina. Proprio così. Il mio martedì è in realtà un venerdì, quindi la domenica è come se fosse un giovedì e già al venerdì sera mi arriva l’eco della musica della Domenica Sportiva. Se esco, in giro trovo tutto chiuso anche se è tutto aperto, e se fossi ancora fidanzato la porterei tutto azzimato al ristorante cinese e poi andrei al cinema.

Non ci avete capito nulla, vero? Nemmeno io. Ora non so più quando riprenderà quel tourbillon di ore in classe, di materie, di bambini che fanno domande, di quaderni da consegnare e da ritirare, di compiti da correggere, di parole parole parole e forse è questo il motivo per cui, agli studenti, le settimane durano mesi, stagioni intere, anni. Dentro alle loro settimane c’è tutta la confusione che facciamo noi adulti.

l’ora di rugby

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Non faccio a tempo a completare l’operazione quotidiana, oramai routine, in cui mi specchio nel tablet all’ingresso per misurare la temperatura – non c’è più bisogno di provare posizioni e distanze empiricamente, sono diventato espertissimo e ho capito dove e come mettermi per far lampeggiare la lucina verde che mi dà l’ok alla nuova giornata lavorativa a scuola – quando vedo Francesca volare lungo l’ultima rampa di scale per placcare il bambino per il quale è impiegata come insegnante di sostegno e, sfruttando la forza della sua fuga, lasciare che si abbandoni in terra, offrendo il suo corpo come riparo alla durezza del pavimento. Non so quanti punti valga un’azione difensiva del genere e se, dopo, occorra organizzare una mischia, si possa andare in meta oppure l’arbitro consenta a Francesca un calcio piazzato.

Il fatto è che con certi bambini il mestiere dell’insegnante non è certo un lavoro per persone delicate e sedentarie o per vecchi come me. Occorre stare sempre all’erta, pronti a scattare per rincorrere qualcuno in caso di fughe pericolose, a schivare il lancio di oggetti o – l’ho visto con i miei occhi – sedie, che anche se da bambini di 6 anni sono comunque sedie di legno e metallo come tutte le altre. Insomma in generale a impedire che qualcuno si faccia del male. Non ci si può distrarre nemmeno un minuto. Anzi, basta un secondo che hai smarrito chi hai in affidamento e le conseguenze possono essere serie o, nel migliore dei casi, anche divertenti.

Ieri eravamo tutti in auditorium per uno spettacolo teatrale. Il nostro Ettore, affetto da una forma seria di autismo, l’abbiamo messo in prima fila sotto il palco in modo consentire alle maestre di gestire i suoi incessanti tentativi di comunicare in modo scomposto attraverso il corpo. Se vedi Ettore sembra un cieco, corre muovendo la testa come Stevie Wonder quando canta, eppure dentro a quella testa c’è qualcuno prigioniero ma qualcun altro deve aver buttato la chiave e, ora, ce lo teniamo così. Un mix tra Stevie Wonder e Ian Curtis quando faceva i suoi ipnotici balletti davanti al microfono.

A Ettore piace correre. La sua classe trascorre l’intervallo vicino ai miei alunni. Le sue maestre delimitano con i cinesini colorati lo spazio in cui gli è consentito muoversi, una linea che confina con il nostro settore. Da quando ha scoperto che non sono in grado di resistergli supera il confine, mi prende entrambe le mani e mi fa capire che vuole correre insieme a me. Io non sono preparato – e non so davvero come ci si potrebbe preparare a gestire un caso come il suo in una struttura inadeguata che però deve risultare inclusiva a tutti i costi – e quel suo modo di guardare-non guardare mi spiazza ogni volta. Facciamo così una corsa affiancati che termina nelle braccia della sua insegnante di sostegno. Alla fine, me la cavo sempre dignitosamente e torno tra i miei.

Comunque ieri, allo spettacolo, Ettore era in prima fila. Qualcuno potrebbe chiedersi il senso di portarlo a teatro con tutti gli altri, io non so rispondere ma il senso c’è. Più di una volta, nel corso della rappresentazione, è sfuggito al controllo delle maestre e si è lanciato sul palco. Le maestre si sono però dimostrate sempre pronte a placcarlo in tempo, come fa la collega Francesca con il suo. Una seguendola sulle scalette, l’altra saltando direttamente sul palco, bloccandogli ogni via di fuga e trascinandolo al suo posto. Gli attori, abituati a recitare al cospetto di bambini di quell’età e sicuramente consapevoli che di Ettore ce n’è sempre qualcuno, tra il pubblico delle scuole, hanno gestito in modo professionale le interruzioni e proseguito impeccabili fino agli applausi finali.

Mi sono chiesto però che cosa sarebbe potuto succedere se Ettore fosse riuscito a impadronirsi della scena, piombare nel mezzo della recitazione, magari facendo crollare la scenografia e mandando tutto in vacca. Una sorta di stage diving, ma al contrario. Il pubblico che si lancia sulla star. Il deus ex machina. La quarta parete. Il vero colpo di teatro.

mani in alto

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In molti la chiamano “mensa inferno”, un po’ perché potrebbe essere il set per una bolgia dantesca e un po’ perché certe manifestazioni, come la minestra di riso e prezzemolo vomitata sul tavolo e nei piatti dei compagni di classe da parte di qualche palato sensibile in eccesso, potrebbero richiamare le più celebri pellicole con Satana protagonista in visita, sotto spoglie non sempre riconoscibili, dalle nostre parti.

In realtà da una mensa di bambini della primaria non ci si può certo aspettare un’atmosfera da ristorante stellato, anche se il cuoco della società che ha in mano l’appalto passa con le sue crocs bianche e il cappello da talent enogastronomico a fine pasto per chiedere, a noi insegnanti, se è andato tutto bene. La qualità non è delle peggiori, anche se mi è capitato di mangiare certi piatti che, per farli insapore, bisogna proprio impegnarsi.

Da quando c’è il Covid le cose sono un po’ cambiate perché osserviamo due turni e, di conseguenza, la densità abitativa di quello che, a parer mio, è uno degli ambienti dal maggior rimbombo acustico mai visti sulla Terra, ora è dimezzata. Il risultato è che la mensa è un po’ meno mensa inferno e, con gli avventori che vi soggiornano indossando la mascherina, sembra più la pausa pranzo di un lazzaretto che una scuola. Nonostante ciò, noi insegnanti – che ora mangiamo isolati in una postazione individuale separati anziché in mezzo ai bambini come prima, che era una cosa divertentissima – cerchiamo di mantenere il più possibile ordine e silenzio.

Il fatto è che i bambini, dopo cinque ore di lezione, hanno voglia di chiacchierare tra di loro. Del resto il rito del convivio lo abbiamo inventato noi adulti. Immaginate che palle stare a tavola con dei musoni che non spiccicano una parola. Nei giorni in cui mi trovo a pranzo in compagnia di Teresa che ha l’altra terza e di una collega della quinta che so che la pensa come me, lasciamo abbastanza correre anche quando i nostri alunni fanno un po’ di confusione. Il lunedì invece c’è la maestra Danila che già di per sé non è molto simpatica e, in più, è particolarmente rigida nel rispetto delle regole.

A scuola da noi c’è un’antica usanza che è quella di far alzare la mano a tutti i bambini in mensa quando si supera il limite dei decibel tollerato dall’insegnante. Bambini e insegnanti alzano la mano e sospendono il pasto. Per me non è problema, perché anni di punk industriale a un volume inumano in sala prove mi hanno reso mezzo sordo e con l’acufene. La maestra Danila invece ha una soglia di sopportazione molto bassa e basta una risatina sopra le righe per farla scattare in piedi sui tacchi con la mano alzata. Nel giro di qualche secondo il clamore sfuma verso il silenzio e lascia il posto alla solita paternale con quel tono da maestrina gnegnegne che, davvero, sopporto a fatica. Devono alzare la mano tutti, bambini e maestri, per riportare la quiete e, terminato il sermone, si può continuare a mangiare in pace.

Quest’anno ho deciso di non seguirla più in questa pratica fuori dal tempo. Non la seguo più perché a pranzo ho voglia di farmi i cazzi miei, come tutti i miei alunni. Resto pronto a zittire chi si mette a riprodurre i barriti come fa Marco che è un provetto imitatore di animali, ma per il resto, se i bambini hanno voglia di chiacchierare, li lascio fare. Maestra Danila alza la mano, tutti alzano la mano, io continuo a mangiare, ho fame, sono in pausa pranzo, e se fossi al tavolo con i miei alunni li guarderei negli occhi mentre tengono le mani in alto e solleverei invece le mie sopracciglia, come a dire che maestra Danila ha ampiamente rotto i coglioni.

Comparse

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Non capita a tutti di avere un parente stretto assoldato per fare la comparsa in un film. Il papà di Roberta è uno nelle decine di bambini che si intravedono sullo sfondo delle vicende di Pierre Arrignon, il marinaio di Marsiglia interpretato da Jean Gabin ne “Le mura di Malapaga”. C’era poi l’amico di un amico, un’altra persona comune come me e voi che però aveva avuto addirittura un piccolissimo cameo in uno dei numerosi film flop di Celentano. Qualche giorno fa, invece, qualcuno in classe ha proposto l’ascolto di un brano e la conseguente visione di un video. La canzone era una tra gli infiniti pezzi stagionali che cadono fortunatamente nel dimenticatoio al solstizio o equinozio successivo, un format che va per la maggiore con la strofa semi-rappata da un cantante poco più che adolescente e il ritornello melodico interpretato da una delle migliaia di cantanti tutte uguali uscite dai talent.

Non ho fatto in tempo a completare il titolo nella barra di ricerca di Youtube che Vittoria ha alzato la mano per dirmi che, in quel video, si vedeva anche suo fratello. Ho appreso la notizia con entusiasmo perché è, a tutti gli effetti, una cosa piuttosto fuori dal comune. Ho detto a Vittoria di avvisarmi nel punto in cui compare e, anzi, le ho chiesto ti avvicinarsi al pc di classe per essere più pronto a mettere in pausa la riproduzione. Prima ci ha tenuto, però, a raccontarmi la scena per cui è stato ingaggiato: ci sono dei giocatori di basket e lui è uno di quelli. In realtà poi ho scoperto che non sono giocatori di basket ma ragazzi in tuta in cui poi l’abbigliamento sportivo nemmeno si nota perché sono ripresi in primo piano. Meglio così perché, grazie a questo plot twist, il fratello di Vittoria è perfettamente riconoscibile, nella frazione di secondo in cui la camera si sofferma su di lui. Almeno a lei, considerando che non l’avevo mai visto prima.

Qualcuno dei compagni di classe di Vittoria però ha preso la cosa come una sfida, perché il giorno successivo, nel corso di un nuovo ascolto/visione collettiva, alla fine del video – non ricordo nemmeno quale fosse – Nathan ci ha tenuto a puntualizzare che forse, e ha aggiunto forse, tra i numerosi volti che si intravedono sullo sfondo c’era anche quello di suo cugino. L’intervento mi ha fatto molto ridere, come del resto ogni volta che tra i bambini scatta la gara a chi la spara più incredibile. Gli ho detto che non mi sembrava possibile, soprattutto a ridosso di ciò di cui ci aveva messo al corrente – e soprattutto provato con i fatti – Vittoria. Allora poi Nathan, per non sfigurare, mentre uscivamo mi ha voluto dare un ragguaglio. Non era proprio sicuro che fosse suo cugino, ma era certo che il taglio di capelli fosse lo stesso.

padre davvero

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Sono fresco reduce da un’attività che abbiamo svolto a scuola insieme alle altre classi terze. La prima post-Covid anzi, proprio a causa del Covid, la prima in assoluto.

Con le colleghe di matematica delle altre terze ci siamo inventati un’indagine statistica di interclasse, con tanto di intervista. Ogni classe ha scelto l’argomento su cui raccogliere dati rivolgendosi alla sezione seguente alla propria in ordine alfabetico. Abbiamo preparato uno schema in cui registrare le risposte, abbiamo designato un intervistatore (io ho fatto girare la mia ruota della fortuna fatta con Flippity che mannaggia non tiene più i fogli di Google per motivi di sicurezza) ma soprattutto ogni classe è stata libera di scegliere un argomento.

Per deciderlo noi abbiamo proceduto con un’altra indagine, questa volta preliminare, e l’ambito più votato dai miei bambini è stato “quale sport pratichi?”. Abbiamo persino creato la lista delle discipline più comuni tra bambine e bambini di otto e nove anni, quindi calcio, nuoto, ginnastica artistica e basket. Ho fatto aggiungere per sicurezza pallavolo (anche se per esperienza so che bisogna essere un po’ più grandi), karate (c’è una scuola che si allena proprio nella palestra della nostra scuola e lo pratica una delle mie) e qualcuno ha insistito per aggiungere il tennis, anche se le racchette sono più grandi di loro.

Poi c’è stata la questione dell’hip-hop. Ho fatto notare che si tratta di una bellissima attività fisica ma non è uno sport, come del resto tutte le altre varianti della danza anche se sono convinto che abbia più diritto di un posto alle olimpiadi la break dance, per dire, che il tiro a segno. Ho aggiunto anche la voce “nessuno”, purtroppo ci sono un sacco di bambini che, per mille motivi, non praticano nessuna attività agonistica.

Comunque, per farla breve, alle tre ci siamo dati appuntamento in giardino con le altre classi e abbiamo avviato l’indagine. La terza A ha intervistato noi (siamo la terza B). Le domande vertevano sulla squadra di calcio preferita ma sono cascati malissimo perché i miei, ne ho parlato proprio qualche giorno fa qui, non sono per nulla appassionati (cosa di cui vado orgogliosissimo) e quindi l’opzione più votata è stata proprio “nessuna squadra”. Qualcuno, di là, c’è rimasto molto male.

La collega che ha diretto la loro prestazione ha molta più esperienza di insegnamento di me, che sono alle prime armi, e ha gestito il loro intervento in modo molto efficace. Io invece ero in ansia perché temevo che i miei andassero nel panico quando è toccato a noi. Avevo paura che non si ricordassero come si fa a registrare i dati, come si formula la domanda, come ci si comporta nei banali saluti e ringraziamenti, quando è venuto il nostro turno. Per fortuna l’intervistatrice individuata dal caso – Sara – è sempre fin troppo sicura di sé (molto di più del suo maestro) e se l’è cavata egregiamente anche nei momenti più critici, come quando qualcuno della terza C – la classe che è toccata a noi – ha risposto proprio “danza”. Non me la sono sentita di far notare, davanti a tutti, che non si tratta di uno sport e così abbiamo dovuto rivedere tutta l’impaginazione dello schema sul quadernone al volo per riuscire a inserire la voce non prevista nel foglio.

Il punto è che, sotto sotto, avevo paura che i miei si mettessero in situazioni imbarazzanti, che gli cadesse la penna e la perdessero proprio durante la nostra intervista, che si mettessero a chiacchierare, che Giacomo cominciasse a ululare per imitare il verso delle balene come aveva fatto poco prima durante l’ora di scienze scienze o che Lorenzo si mettesse a imitare uno dei suoi cartoni animati giapponesi preferiti. Insomma, che non ce la facessero da soli.

E ho temuto anche che sfigurassero al confronto delle classi delle colleghe e che, sentendosi meno brillanti, provassero frustrazione. Una paura che poi riflette il mio pessimo approccio da educatore, quello che ha fatto crescere mia figlia con tutte le sue insicurezze, simmetriche alle mie. Mi veniva così da intervenire e dare una mano per far capire a tutti gli altri presenti, bambini e insegnanti, che cosa i miei intendessero con le loro spiegazioni, come se in classe parlassimo un linguaggio inventato che poi, fuori nel mondo della realtà, nessuno è in grado di comprendere. Di fare da mediatore tra loro e il mondo esterno alla nostra aula quando la presiedo io.

Invece, va da sé che se la sono cavata alla grande senza lasciare che mettessi becco, quindi senza il mio supporto, a dimostrazione che il mio ruolo è indifferente al loro successo, cosa che probabilmente accade anche per mia figlia. Hanno superato ogni impasse di autonomia e tra di loro, senza chiamarmi in causa come fanno di continuo in classe per ogni cosa, quando non trovano il tappo della penna o perché hanno una pellicina o perché non leggono con attenzione le consegne indicate all’inizio degli esercizi di matematica presenti sul libro di testo. Mi sono chiesto così quale sia il segreto per essere dei buoni insegnanti senza questa idea sbagliata che ci facciamo noi genitori e cioè che i propri alunni e i propri figli non ce la faranno mai senza di noi. Semmai, è vero il contrario.

non è mai fuori

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Nessuna delle mie alunne gioca a calcio, guarda il calcio, parla di calcio o si interessa al calcio. Mi piacerebbe che tra loro ci fosse una che sogna Beckham – o qualunque sia il suo omologo italiano nell’immaginario infantile collettivo del 2021 – tra i bambini della mia classe. Una che, da grande, diventi come quelle ragazze che vedo uscire in pantaloncini e maglietta mentre sono fermo al semaforo prima di svoltare per il capolinea della metro a cui vado a recuperare mia figlia quando torna tardi dal centro. C’è un campetto, lì, e quando sopraggiungo in auto è sempre rosso. Le calciatrici non passano inosservate perché escono dagli spogliatoi con il borsone da calcio sulle spalle dopo l’allenamento. Si riversano a recuperare le loro auto nel parcheggio antistante il campo, uno di quei parcheggi di periferia in cui, dopo una certa ora, si piazza il furgoncino di un venditore di panini con la porchetta e altre schifezze da street food di bassa qualità.

Nessuna delle mie alunne gioca a calcio. La spiegazione che mi sono dato è che forse sia uno sport non ancora così diffuso tra le bambine, o forse sono ancora troppo piccole perché non c’è nemmeno nessuna che pratica il volley o il basket. Alcune di loro fanno equitazione, hip hop e nuoto. Comunque nemmeno i miei maschietti mostrano particolare interesse. Sono tutti presi dai videogiochi, e non so cosa sia peggio. Ieri mattina Marco però ha portato in giardino un dado in spugna grande come un pallone ma, appunto, cubico. Ogni tanto li vedo accennare un cross e una conclusione al volo o tentare un tackle con le castagne e con i ricci, a dimostrazione che di norma basta avere qualcosa di vagamente sferico per occupare dei maschi per tutto il tempo necessario. Nel giardino della scuola persiste il divieto di utilizzare i palloni, così chi non riesce a rinunciare si arrangia come può. Il dado sull’asfalto del campetto da basket tutto sommato rotolava, e in quattro e quattr’otto hanno formato due squadre ed è stato subito fischio d’inizio.

Vederli tirare calci a un cubo di spugna è stato divertente. Le direzioni che prendeva quel surrogato di pallone rendevano i loro tentativi di emulare i campioni della domenica ancora più comici. Qualcuno poi lo ha colpito troppo forte e il dado è schizzato oltre i limiti del campo. Uno della squadra avversaria ha gridato “è fuori!”. Marco, il proprietario del cubo di spugna, ha risposto “non è mai fuori”. Tutti allora si sono lanciati alla rincorsa del dado e la partita è proseguita oltre il perimetro di gioco. Io ero un po’ giù, non vi sto a spiegare il perché, ma quel colpo di scena mi ha restituito il buonumore. Ho pensato a come andrebbe il mondo in generale se le cose le gestissero i bambini, con quel modo imprevedibile di cambiare le regole a seconda di come è meglio procedere o per i capricci di qualcuno. Proprio come in una partita infinita, senza campo di gioco e senza tempi regolamentari, senza nessuno che ti chiami per rientrare perché è pronto, perché l’intervallo è finito, perché dobbiamo riprendere la lezione.

guarda un po’

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Parlare di fronte a una moltitudine di persone comporta l’annoso problema di chi guardare mentre si parla. Non solo: quando l’uditorio è composto da gente con la mascherina chirurgica, e in tempi di Covid è la normalità, si distinguono solo occhi sgranati (e in alcuni casi attenti) di tutti i colori, mentre i particolari del campo visivo scoperto a disposizione si riducono vistosamente. A scuola funziona così. L’insegnante, quando è assorto nella sua esposizione, facilmente si scorda del numero di studenti davanti e si smarrisce nella sua confort zone di quei due o tre alunni che sa per certo che lo stanno ascoltando, anche se in realtà i due o tre alunni che l’insegnante sa per certo che lo stanno ascoltando ricambiano lo sguardo dell’insegnante perché non possono fare altrimenti. Anzi, probabilmente hanno già sviluppato una strategia che gli permette di scindere ciò che osservano da ciò che pensano, come se avessero un salvaschermo di cortesia con la migliore espressione attenta mentre, dentro, il sistema operativo è un modalità stand-by.

A me viene da puntare sempre verso gli stessi banchi, quelli in fondo, e credo si tratti di un’esigenza frutto di un calcolo matematico a cui contribuiscono la mia altezza e il fatto che, quando spiego, sto sempre in piedi. L’angolo di incidenza del mio sguardo, privo di controllo, raramente va a intercettare le prime file. Sono troppo vicine e dovrei inclinare la testa verso il basso in modo innaturale, mettendo a rischio la cervicale. Poi però mi rendo conto che guardo negli occhi sempre gli stessi bambini, quelli negli angoli in fondo a destra e a sinistra, così cerco di sforzarmi a variare la messa a fuoco. In quanto uomo e di mezza età, però, fare due cose contemporaneamente – concentrarmi su quello che dico e variare in modo uniforme l’obiettivo – non mi riesce, così alla fine torno sempre lì.

Il rischio è che qualcuno si senta perseguitato, ad avere costantemente i miei occhi addosso. Ci vorrebbe così una lista di comportamenti da osservare, da tenere sempre a disposizione, come quei mini portaritratti dei figli che si appiccicano sul cruscotto dell’auto con il monito “papà non correre”. Nella mia dovrei scrivere a caratteri cubitali di:

  • passare in rassegna tutte le facce che ho davanti dedicando lo stesso tempo a ciascuno
  • parlare lentamente
  • non pulirmi le mani sporche di gesso colorato sui pantaloni
  • controllare se Cecilia si è persa nel frattempo in quel buco nero che la inghiottisce se non le si presta attenzione
  • fare attenzione che resti tempo sufficiente a dettare i compiti e il materiale per il giorno successivo sul diario
  • non abbassare la mascherina.

Tutto il resto viene da sé.

fresco

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Il sistema che regolamenta la scansione delle stagioni è dettato da fattori che talvolta esulano da ciò che impone la natura, al netto del cambiamento climatico che stiamo vivendo. Se chiedi a una scolaresca come la mia quali sono i mesi di cui si compone l’estate è facile che ti rispondano giugno, luglio e agosto, quando invece le cose non sono proprio così. Ne sappiamo qualcosa noi, gente del novecento, che abbiamo provato l’ebbrezza del rientro in classe il primo di ottobre. In quella che sembra un’era geologica fa probabilmente l’organizzazione della scuola funzionava meglio perché c’era più tempo. Il personale amministrativo rientrava come i docenti dalle ferie il primo di settembre e c’era un mese pieno per reclutare gli insegnanti e partire con il piede giusto. Poi si è anticipato l’inizio delle lezioni di tre settimane ma il resto del calendario non è cambiato di molto. I motori della macchina organizzativa che parte dal ministero, passa per gli uffici scolastici regionali e provinciali e si parcellizza nei singoli istituti a scapito dei dirigenti e del loro staff si accende a ridosso del primo collegio docenti e rispettare una tabella di marcia è una sfida persa in partenza.

Lasciate perdere gli annunci a effetto wow della politica: a noi mancano sei docenti di matematica e scienze su sette, per dire, e meno male che c’è appena stato un concorso focalizzato sulle discipline STEM. Il registro elettronico va a regime in media a metà ottobre, stesso discorso per l’orario definitivo, la disponibilità di palestre e laboratori eccetera. Per non parlare degli interventi di manutenzione a carico dell’amministrazione comunale, che difficilmente terminano prima della campanella d’inizio. Ai non addetti ai lavori sfugge il motivo per cui non sia possibile regolare in modo più efficace gli ingranaggi che fanno funzionare il tutto sia a livello locale che nazionale. Se non è possibile far tornare il personale docente e non docente a scuola a metà agosto, in modo da garantire efficienza già dal 13 settembre, perché non si spostano in avanti le date del calendario scolastico facendolo durare dal primo ottobre al 30 giugno?

Io me li ricordo bene i mesi di settembre ancora in vacanza. Per certi aspetti erano i migliori. Avevo una casa in campagna, mi dilettavo a cercare funghi nei boschi e la sera, a spasso in bicicletta con gli amici, era bene coprirsi. Oggi ho provato una sensazione di fresco come quelle di allora, forse è stata la prima del nuovo anno scolastico, e il confronto mi ha messo di cattivo umore. Per fortuna che è durata poco, la scuola non è certo un posto per gente che patisce le alte temperature.

E così come ai grandi, anche ai bambini non piace stare in classe quando fa caldo. Forse è per questo che i miei alunni sono convinti che il primo giorno di scuola coincida con il primo giorno di autunno, e quando gli dici che bisogna aspettare l’equinozio del 22 ti stupiscono con la loro espressione meravigliata. Qualcuno si chiede che cosa ci facciamo qui. Qualcun altro si presenta già con la felpa sopra la maglietta, in pieno mood da rientro. Io ho provato stamattina a indossare una camicia leggera di colore azzurro chiaro con le maniche lunghe, ma a metà lezione ero già pezzato nei punti in cui sudo di più. L’esperienza mi ha insegnato a prediligere i capi di abbigliamento scuri per dissimulare il disagio e non suscitare ilarità nel prossimo, soprattutto nei bambini che interpretano le chiazze sui vestiti dei maestri a loro modo come macchie di Rorschach qualsiasi, ma vi assicuro che, dopo una certa età, certe brutte figure sono l’ultimo dei problemi.

stare al gioco

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La questione più difficile da dirimere in classe è quando Lucilla mi si avvicina con il broncio per avvisarmi del fatto che Asia non vuole giocare con lei. Ci vorrebbe un corso di gestione delle relazioni interpersonali dedicato alla soluzione di questo tipo di crisi, che sono le più difficili di tutte. Dovrei chiamare Asia per convincerla a giocare con Lucilla, o suggerire a Lucilla di non rompere il cazzo ad Asia perché Asia vuole rimanere da sola, giocare con Rocco, chiacchierare con Flaminia e Virginia, raccogliere i vermi con Penelope o fare tutte le altre mille altre cose che preferisce fare piuttosto che giocare con Lucilla?

Ogni classe ha quei due – tre – cinque – diciotto elementi che, nei rapporti tra i pari, sono un disastro. Il mio buonsenso mi dice che non posso costringere nessuno a stare con chi non ne ha voglia. Io per primo non lo farei mai. Posso provarci nelle attività, formando coppie e gruppi improbabili, ma è altamente rischioso. Nella quinta dello scorso ciclo quando abbinavo i bambini sbagliati scoppiava l’insurrezione. Gente che piangeva, che incrociava le braccia scegliendo di non partecipare alle attività, sabotaggi e rappresaglie.

Così, almeno durante l’intervallo lungo dopo la mensa, mi sembra corretto lasciarli liberi di scegliere nella massima libertà con chi giocare. I miei alunni sono in terza ma, al netto dell’emergenza Covid, sono stati una classe vera (nel senso di come la intendiamo noi), i primi cinque mesi di prima. Lo scorso anno in seconda è filato via tutto in presenza ma con mascherine e distanziamenti. Meglio che un pugno in faccia, eh, però niente a che vedere con un compagno di banco, un circle time, una partita a palla avvelenata o un qualunque altro momento di confronto costruttivo tra bambini dello stesso gruppo.

Il compito degli insegnanti è trovare queste materiali da saldatori di stati d’animo per fondere tra di loro gli animi degli alunni. Io però credo che nessuno ne sia capace e che sia giunto il momento di smetterla con le illusioni. Sistemare le cose tra Lucilla e Asia mi fa sentire un re biblico con uno di quegli approcci alla giustizia che ti fanno passare alla storia. Un esempio per tutti. Ma so che se provo a convincere Lucilla a desistere, si metterà a piangere. E, dall’altra parte, Asia si lascerà persuadere permettendo a Lucilla di accompagnarla al suo club esclusivo di amichette ma poi, insieme alle altre, sarà ancora più spietata.

La mia salvezza si chiama Jolanda e, a differenza di tutti gli altri protagonisti di questo post, non ha un nome inventato. Jolanda è indipendente e forte e, in giardino, sta con tutti e con nessuno. La vedo vagare nella massima serenità e posarsi da un gruppetto all’altro, dai maschi alle bambine. Così mi avvicino a Lucilla, che nel frattempo ha capito l’antifona, e le suggerisco di provare a giocare con Jolanda. Lucilla mi guarda come se le avessi rivelato il finale della sua fiaba preferita, si volta e corre da Jolanda, che la accoglie con sé come farebbe con chiunque, ma questo Lucilla non lo sa. Pensa che è bello aver trovato una nuova migliore amica, almeno fino al suono della campanella. Ci sono ancora tante cose da imparare, almeno un milione di segreti da scoprire. C’è un mondo nascosto, per Lucilla. C’è un universo imperscrutabile, per me.