prime

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Ieri pomeriggio, nel corso delle due ore settimanali in cui insegno inglese in seconda C, è venuta fuori la questione Babbo Natale. Hanno sette anni, ci credono tutti e non c’è alcun bisogno di fornire prove documentate sul fatto che esista o meno. Nessuno di loro l’ha mai visto, qualcuno dice di sì ma mente sapendo di mentire, qualcun altro sostiene di aver intravisto una slitta parcheggiata sotto casa. Arianna, una delle più sveglie, ha addirittura chiesto a mamma e papà di visionare le immagini delle videocamere dell’impianto di antifurto domestico per coglierlo sul fatto ma i genitori – davvero geniali – le hanno dimostrato – non so come – che le riprese si sono interrotte proprio sul più bello, probabilmente a causa di qualche superpotere che gli consente di neutralizzare i sistemi di sorveglianza. Ho pensato a tutto questo potenziale sprecato, ma Babbo Natale rappresenta l’onestà per antonomasia e non ci possiamo fare nulla.

Una trovata che comunque ho avallato con convinzione. Anzi, il momento mi è sembrato propizio per verificare se tutti loro avessero sottoscritto con Babbo Natale l’abbonamento Prime, e, superato il primo momento di stupore, non è stato difficile convincerli sulla veridicità di quanto sostenessi. In comune con Amazon c’è anche il modo in cui sono organizzate le consegne. La slitta non può certo contenere i pacchi regalo per tutto il mondo, per questo Babbo Natale ottimizza i percorsi secondo le zone di residenza dei destinatari. Non solo. Babbo Natale Prime prevede il plus di un refill di dolci nei calzettoni vuoti lasciati appesi sul camino, proprio come quelli presenti nell’illustrazione dell’attività natalizia proposta dal nostro libro di testo di inglese che tutti, giustamente, hanno ricondotto alla festa della Befana (sanno benissimo comunque che le due multinazionali dell’e-commerce preferito dai bambini non sono affatto in concorrenza).

E se pensate che la mia giornata è proseguita poi con l’ultimo collegio docenti dell’anno, quello prenatalizio, potrete riconoscere quanto, quello del docente, sia un mestiere strano. Anche sottopagato, ma fondamentalmente strano. La maggior parte delle professioni si esercita fianco a fianco con i colleghi. Poi ci sono i lavori (pochi) che si fanno in solitudine (così sui due piedi mi vengono in mente appunto i corrieri di Amazon – quelli in carne sudamericana e ossa – e chi si occupa di pastorizia). I docenti sono nel mezzo, perché siamo tanti dipendenti della stessa organizzazione ma manca completamente lo spirito di squadra, non so se sia il termine più adatto. Intendo quella sorta di intesa che ti spinge a fermarti a fine giornata lavorativa a prendere un aperitivo insieme o al limite quell’aziendalismo sincero o interessato che ti convince di fare parte di una famiglia, che poi in realtà la famiglia è quella dei proprietari dell’azienda che diventano ricchi grazie al tuo aziendalismo sincero o interessato.

Durante il collegio docenti prenatalizio non ci sono regali di natale ai dipendenti e nemmeno il catering con il rinfresco. I dirigenti più illuminati danno alle collaboratrici i soldi per andare a comprare qualche panettone o pandoro, due bocce di prosecco e la Pepsi per gli astemi, da consumare durante il brindisi al termine della riunione. Ma in realtà, avallato anche l’ultimo punto all’ordine del giorno, tutti si affrettano a tornare dalle rispettive famiglie. Anche i colleghi più giovani, quelli che nelle aziende degli altri settori considerano il posto di lavoro anche un ambiente di caccia, sbocconcellano una fetta di dolce parlando dell’ultima nota che hanno dato e poi se ne vanno quasi senza salutare. La triangolazione con il resto della popolazione scolastica, in primis gli alunni, frena un po’ l’impeto alla socializzazione sul lavoro quando non si parla di lavoro – per non dire che è un deterrente all’accoppiamento – ed è un peccato. Questa granularità di rapporti umani – passatemi il termine – penalizza la scuola tanto quanto l’assenza di reti di rappresentanza e di marketing di sé fatto con criterio, a partire dalla quasi totale latitanza di insegnanti su LinkedIn. Sarebbe bello un Tinder da intellettuali e pedagogisti esclusivo per i docenti, ma anche lì occorrerebbe un sistema di filtro per evitare ogni tipo di ingerenza dei genitori, nel bene o nel male.

elephant

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Dallo scorso venerdì insegno cultura digitale e fondamenti di informatica a ventisei tra studentesse e studenti della secondaria di primo grado del mio comprensivo. Si tratta di un corso pomeridiano finanziato grazie ai fondi del PNRR dedicati alla formazione inclusiva sulle competenze di base e che durerà fino a maggio, due ore la settimana. Le ragazze e i ragazzi sono lì per scelta, magari non proprio tutti, e il primo incontro è andato nel migliore dei modi. Tra gli obiettivi c’è anche il fornire una preparazione propedeutica al successivo conseguimento della certificazione ICDL. Quando ho introdotto la questione, a inizio lezione, qualcuno si è precipitato immediatamente a googlare il significato dell’acronimo, facendo piombare di colpo l’intera classe alla fine degli anni novanta.

Inutile dirvi che ho sfruttato a pieno la ghiotta occasione. Per un’ora o poco più ho provato nuovamente l’ebbrezza di sentirmi addosso tutti i capelli e tutti neri, liberato da quei dieci kg in eccesso – a essere ottimisti – che mi hanno reso ostile a più di un capo d’abbigliamento che tutt’ora faccio fatica a buttare tanto gli sono affezionato, ritrovando persino quella indimenticata forma e prestanza fisica da trentenne che mi consentiva di superare ogni limite, a partire dall’applicare tutte quelle competenze descritte dalla certificazione ICDL sul posto di lavoro di allora – facevo il programmatore – per quasi 48 ore di fila – e di file, perdonate il gioco di parole – senza dormire.

Ho approfittato così dell’inaspettato varco spazio-temporale che ha inghiottito me e le ragazze e i ragazzi partecipanti al corso per introdurre la lezione con i due video che uso come best practice dell’impiego del deepfake e dell’AI al servizio della creatività umana. C’è stato non poco scetticismo a fronte dei 4:33 di “Yellow” dei Coldplay, le story dei social su cui la generazione zeta misura la scansione della vita durano molto ma molto meno, così mi sono limitato alla prima strofa e ritornello, tanto la faccenda non cambia. La successiva proiezione di “Grace” degli Idles però li ha lasciati di stucco, mai mi sarei aspettato una reazione così wow, da parte loro. Nessuno conosceva la canzone, tantomeno uno dei migliori album usciti quest’anno, per non parlare della band, a quell’età non ascoltano certo la musica di noi vecchi né seguono XFactor. Qualcuno però aveva già sentito e visto Chris Martin e soci. Un ragazzo di terza ha sostenuto addirittura che sua madre sfoggiasse il testo della canzone tatuato sul corpo, peccato non avergli chiesto dove e con quale font (sicuramente in corsivo, un must delle indelebili citazioni a cazzo sulla epidermide).

Il corso di cultura digitale conferma il fascino che il mese di dicembre esercita su tutta la popolazione scolastica. Io l’ho presa con grande entusiasmo, ci voleva dopo settimane di cinque e seienni che si cagano ancora addosso. Non solo. I miei bambini, tra addobbi, calendari dell’avvento e i lavoretti tipici del suprematismo bianco e cattolico, sono fuori dalla grazia di dio e non vi sto a descrivere la reazione delle mie colleghe alla nuova fotocopiatrice di plesso, una tappa del percorso di trasformazione digitale in potenza ma che invece – tanto quanto l’ICDL – ha costituito un passo tecnologico all’indietro. La mia scuola ha cambiato finalmente fornitore ma la sostanza non cambia. Ci hanno rifilato un modello di fascia piuttosto economica. Tanto per cominciare è privo del wi-fi, per fortuna mi era rimasta una vecchia chiavetta USB, anch’essa della preistoria, uno di quegli accrocchi in grado di connettere alla intranet anche i morti. Poi, a differenza della stampante ormai alla frutta di cui disponevamo prima, è sprovvista di un sistema di job accounting nativo per impostare utenze e relativi valori di utilizzo, a meno dell’installazione di una periferica aggiuntiva per la lettura di badge, una delle tante spese su cui la DSGA non scende a compromessi. Il destino delle foreste amazzoniche del pianeta, già a partire da queste settimane prefestive ricche di renne e slitte da stampare, è purtroppo segnato.

Anche Jacopo, il bambino di quarta che io chiamo “Elephant” – proprio come il film di Gus Van Sant perché il rischio che, raggiunta l’adolescenza, si presenti a scuola con un borsone traboccante di AK-47 e munizioni compatibili, non è così campato in aria – è in fibrillazione per le feste imminenti. Da quando l’ho trascinato fuori a forza dalla mia prima, dopo che aveva lanciato una bottiglia da due litri piena d’acqua in classe per colpirmi perché poco prima l’avevo contenuto per consentire alle collaboratrici che voleva menare di mettersi in salvo uscendo dal bagno centrando invece una delle mie alunne più delicate, finalmente mi evita come la peste. Un episodio che rischia di essere frainteso come una buona notizia ma, se leggete tra queste righe, riconoscerete il fallimento didattico e sociale della scuola, nel senso dell’istituzione ma anche un po’ della mia in cui io faccio la mia parte, trascinando a forza un bambino di nove anni e contribuendo quindi alla resa incondizionata alle complessità. Agendo da uomo, come ha detto la mia dirigente, comportamento che ho impiegato tutta una vita a disimparare.

La scuola è il vero elemento con disabilità, in questa storia, e non è facile trovare una soluzione. Quando Jacopo ha spalancato la porta per scagliare dentro quella molotov disinnescata, con il cappuccio della felpa sulla testa come nei video dei rapper bianchi che scimmiottano i maestri afroamericani, mi è sembrato proprio il figlio di un trumpiano. Qualche settimana dopo il fattaccio, mi sono trattenuto all’uscita perché ho notato la mamma di Jacopo assalire a male parole la collega di sostegno che se ne prende cura per ventidue ore la settimana, una cosiddetta copertura totale ma dalle crisi di rabbia del bambino, a differenza mia e di tutti gli altri inquilini della primaria in cui insegno, semplici e casuali comparse della sua vita, come la collega che è stata sfiorata per un pelo dal cuscino dell’aula di psicomotricità che Jacopo ha lanciato giù dalla tromba delle scale. La mamma di Jacopo era molto risentita, mi è sembrato addirittura che dicesse “belle cose che insegnate a scuola”, ma posso essermi sbagliato. Comunque, di fronte a quella scena, ho pensato una cosa molto populista che mette in stretta relazione il RAL di noi insegnanti pubblici con quello che facciamo, cose che vanno dallo schivare bottiglie da due litri d’acqua a ingegnarsi per mettere in rete una stampante spacciata per modello di ultima generazione.

un po’ di male nel bene e viceversa

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La mamma di Nicholas sfoggia lunghissime e vistose unghie a colori alternati: bianche con inserti tondi neri e nere con inserti tondi bianchi. Una scelta che sarà simbolo di armonia ed equilibrio tra le dualità dell’universo, nonché di interazione tra le energie antitetiche, quella positiva contro quella negativa e passiva, ma che al lato pratico le crea enormi difficoltà nel digitare la nuova password del suo account Google scolastico e dimostrarmi che c’è qualcosa nel suo smartphone che non va, d’altronde touchscreen e onicotecnica da sempre non sono compatibili. L’impatto tra le due forze si manifesta comunque sul tempo extra non pagato in cui devo fermarmi a scuola per quel tipo di assistenza tecnologica, così un po’ invidioso del suo telefono da mille e passa euro (un mese del mio stipendio) mi limito a suggerirle, la prossima volta, di acquistare un Android.

Non aggiungo che la resilienza di cui ci riempiamo la bocca e che va tanto di moda, vista da vicino, è un disvalore, una posa che ci impedisce di agire la vera rottura che poi è il break-even point in cui mandiamo affanculo tutto e tutti, ma in questi tempi di sovranismi non è il caso. I genitori che ci vengono a incontrare in prima sono comunque molto carini e ingenui. Chiedono più compiti – con figli in alcuni casi di nemmeno sei anni – e li crescono a merende bio in confezioni che si aprono solo con le forbici. L’intervallo lo perdo a tentare di strappare materiale di nuova generazione, probabilmente alieno, così dirotto quei mocciosi, a cui ancora un paio di anni all’infanzia avrebbero fatto più che bene, all’impiego del materiale scolastico di cui sono dotati. E non è tanto il problema che non sanno allacciarsi le scarpe, che si mettono i piumini al contrario, che non riescono a chiudere le zip, che non hanno forza sufficiente nelle mani per stringere il meccanismo che libera le fibbie degli zaini. È che qualcuno se la fa addosso, nel senso della cacca.

Nel migliore dei casi nei pantaloni in classe, nel peggiore cercando di risolvere l’impasse in bagno, perché poi sono cazzi delle collaboratrici sistemare le cose, e se si rifiutano potete stampare come ho fatto io la pagina del CCNL e evidenziare in rosa il passaggio in cui, non è scritto proprio così, spetta a loro prestare assistenza in queste situazioni di merda. Quando invece capita durante la lezione colgo immediatamente le avvisaglie di ciò che sta accadendo e mi blocco, talvolta sul più bello di un intervento appassionante, talaltra nel corso di una spiegazione di quelle che sono certo faranno la storia e che i miei alunni si porteranno dentro, per sempre, nella vita. Tutto ciò che mi circonda svanisce. I bambini, la LIM accesa, la collega di sostegno, i banchi, le pale sul soffitto. Tutto ciò che mi circonda svanisce, guardo nel nulla come certi ACD che hanno l’interruttore on/off. Mi spengo mentre la realtà continua il suo corso, cado in trance e penso: che cosa ci faccio io qui?

istruzione e merit

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Alla fine sembra che Parthenope fumi quasi più di Berlinguer, anche se del compiantissimo segretario del PCI si notano molti più pacchetti ancora sigillati. Due differenti approcci al tabagismo che, purtroppo, sottendono una componente decisamente sessista. I comunisti fumano in quanto intellettuali, le loro sigarette contribuiscono a mettere per iscritto ideali, strategie, visioni, e le sedi di partito immerse nella nebbia che ovatta persino il rumore delle macchine da scrivere trasmettono la visione romantica dell’abnegazione civile che anni di reti Mediaset, grillismo e nazifascismo melonista hanno spazzato via. Il fumo delle dee nate in acqua invece costituisce un valore aggiunto al desiderio che la bellezza ispira nel prossimo e alla sensualità femminile, e una laurea in antropologia (attenzione spoilerissimo) con il massimo dei voti, alla fine, risulta un di cui. Mi chiedo solo se Paolo Sorrentino avesse in testa l’idea di Stefania Sandrelli come volto e corpo perfetto per interpretare la Napoli del 2024 e quindi abbia setacciato le agenzie alla ricerca dell’attrice più somigliante alla sua versione da giovane, che poi sarebbe stata Amanda Sandrelli, o viceversa. Di certo, il gesto indotto dalla memoria muscolare all’uscita dalla sala, a seguito della visione di entrambi i film, è quello di tastarsi il taschino della giacca alla ricerca di un pacchetto.

Il connubio tra tabacco e politica nel mio caso si è consumato proprio nel corso di una manifestazione di piazza contro il primo governo Berlusconi. Rammento perfettamente l’istante: era il 12 novembre 1994, e a nemmeno metà percorso del corteo di protesta contro la legge finanziaria ho estratto le Winston dal mio parka ma, anziché accendermi l’ennesima sigaretta, ho gettato il pacchetto ancora pieno in un cestino della spazzatura a lato della strada. Avevo iniziato sottraendo le Milde Sorte dalla borsetta di mia mamma in seconda media, circa quindici anni prima, e da allora non avevo mai smesso. Ho persino toccato punte di due pacchetti al giorno ai tempi dell’università. Prendevo il locale per Genova alle 7.01, rigorosamente nel vagone fumatori, e mi fumavo la prima, facile fare il calcolo fino a notte inoltrata nei bar del centro storico. Si poteva fumare ovunque tranne al cinema, ma mia mamma ricorda l’aria irrespirabile durante i film a cui assisteva con l’uomo che poi sarebbe diventato mio papà, da fidanzati.

Da quella manifestazione non ho mai più fumato sigarette con continuità. Mia moglie ed io le compriamo quando siamo in vacanza perché fumare in estate, usciti dall’acqua o al ristorante all’aperto di sera con il vino bianco fresco, è un cliché da cui non vogliamo esimerci. Non solo. Scrocco una Camel blu alla mia collega di sostegno ogni lunedì, al termine delle lezioni pomeridiane e prima della programmazione. Mi unisco al gruppetto di insegnanti fumatori più o meno accaniti e, tra un tiro e l’altro, ascolto i racconti quotidiani sull’andamento delle classi. Raramente intervengo perché un po’ mi gira sempre la testa, quando fumo, e ho paura di biascicare con la voce. Dopo un po’ di sigarette offerte però acquisto un pacchetto e lo offro in dono alla collega. La prima volta un po’ si è offesa ma poi ha compreso il senso del mio gesto – mi fa sentire meno un peso per il prossimo – e accetta le sigarette con un sorriso.

alone

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Una cosa che manda in brodo di giuggiole i genitori sono gli insegnanti che fanno ascoltare i Beatles in classe. Non ho abbastanza elementi per dimostrare se si tratti di una best practice pedagogica consolidata o semplicemente di una leggenda metropolitana, tanto quanto l’esposizione a Mozart degli esseri umani sin dalla fase pre-natale che ci renderebbe più intelligenti, men che meno di un metodo di mia invenzione.

Da attempato musicologo trombone posso solo dimostrarvi l’interdisciplinarietà del valore dei Beatles, nella fascia di età della scuola primaria. Sono utili se insegnate inglese, ovviamente, perché vi permettono di coniugare lo sviluppo dell’orecchio alla pronuncia perfetta con un dizionario adatto a qualunque esigenza, per non parlare di ciò che il quartetto di Liverpool rappresenta, ossia un’icona inconfondibile della cultura e della civiltà britannica. Sono utili se insegnate musica, perché rendono superfluo il ricorso alle zecchinate d’oro per l’intrattenimento dei più piccoli e intercettano le derive tamarre, nel migliore dei casi verso la trap di periferia ricca di parolacce, nel medio dei casi verso il pop in quota Annalisa e battiti live vari, nel peggiore dei casi verso i balli di gruppo da oratorio/club vacanze, grazie alla portata di un’alternativa convincente, comunque popolare, decisamente autorevole, poco di nicchia, tutt’altro che superata e di facile ascolto. Sono utili anche se insegnate italiano – i loro testi grondano di citazioni utili a semplificare grandi questioni, una volta tradotti – e perché no storia, in quanto perfettamente ascrivibili a un periodo decisivo per la modernità. Per non parlare del cartone animato di Yellow Submarine, provate a proiettarlo in classe e godetevi le reazioni.

Ma mai avrei immaginato che il mio vezzo di introdurre le lezioni con una sigla, una canzone dei Beatles – siamo partiti con la classica “All Together Now”- da variare ogni mese per catturare al meglio l’attenzione dei bambini, avrebbe generato una così invidiabile sintonia con i genitori della seconda C, la classe in cui insegno solo inglese. Le famiglie sono i principali stakeholder della scuola, metterli al corrente nel corso delle assemblee di classe di quello che facciamo costituisce un insuperabile veicolo di customer satisfaction. Ho presentato il programma nemmeno fossimo all’università – in seconda sono previste due ore la settimana, una in più rispetto alla prima – e senza volerlo ho centrato in pieno le aspettative rispetto all’insegnamento della lingua straniera, oggi secondo solo alle STEM come ossessione didattica della scuola dell’obbligo. Un papà ha detto che proporre i Beatles ai bambini gli sembra un’idea fantastica, tutti gli altri hanno confermato di trovarsi d’accordo, una mamma dichiaratamente metallara mi ha chiesto addirittura che cosa pensavo di far ascoltare nei prossimi anni. Non le ho detto che con i metallari noi dark ci menavamo, anzi i metallari menavano noi, negli anni ottanta, non mi sembrava la sede più adatta. Ma non è questo il punto.

So di deludervi, ma a me l’idea di somministrare una seconda lingua a mocciosi che a malapena si sanno esprimere nella prima non convince per niente, e mettere musica in inglese mi sembra comunque un modo efficace per perdere un po’ di tempo a lezione. Alla fine l’inglese per bambini così piccoli si risolve in una serie di istruzioni e parole tradotti letteralmente da imparare a memoria. Se va bene così, allora non c’è problema anche da parte mia. Un bagaglio a mano linguistico utile a sguinzagliarli da soli ad acquistare gelati in occasione delle prossime vacanze all’estero che farete. Un consiglio però: controllate che sappiano farsi restituire il resto corretto.

Il problema sono semmai le foto in bianco e nero, dei Beatles. Com’è possibile che siano esistiti giovani negli anni 60?, sembrano chiedere i bambini. Com’è possibile che delle canzonette pop siano state composte quando i nostri nonni erano appena nati? Quanti anni hanno, ora, quei capelloni?

Io sono uno che non indora certo la pillola, faccio eccezione solo per Babbo Natale ma non ho nessun problema a dire tutte le altre verità. Paul ha 82 anni, Ringo 84, George è morto a causa di un tumore e John è stato addirittura freddato da un folle mitomane a 40 anni, davanti a casa sua. Spoilero immediatamente come stanno le cose per evitare il susseguirsi di domande morbose su argomenti che interessano tantissimo i bambini di quella fascia di età e tagliare corto.

Questa volta però c’è stato un plot twist che devo assolutamente raccontarvi. Ginevra, quella che siede nel secondo banco, è piena di tic perché a 4 anni è stata dimenticata sullo scuolabus che la portava alla scuola materna. Ha trascorso tutta la mattina chiusa nel deposito fino a quando qualcuno è riuscito a ricostruire la catena degli avvenimenti, l’ha riportata a casa e sono state avviate tutte le procedure del caso per attribuire la scala delle responsabilità. La mia è una scuola di un comune di quattro gatti, e questa notizia ha fortunatamente fatto passare in secondo piano quella – decisamente più sconveniente per l’istituzione che rappresento – del nonno che ha sbagliato a ritirare il nipote giusto. Ha preso un bambino e, sulla via di casa, qualcuno che lo ha rincorso gli ha fatto notare il qui pro quo.

Dicevo che Ginevra, tra un tic e l’altro, scesa l’attenzione sulla morte dei Beatles, mi ha chiesto se i musicisti quando diventano vecchi vanno in pensione. Volevo dirle che sarebbe una cosa fantastica perché significherebbe che quello del musicista è un lavoro, che i musicisti arrivano a un certo punto della loro vita senza morire di overdose o suicidarsi a ventisette anni e che, a quel punto della vita, sono riconosciuti da un sistema previdenziale che tiene i conti anche alla loro attività e che fa anche per i musicisti i calcoli per capire quando è il momento di fermarsi. Che poi sarebbe un bene che i musicisti, a quel certo punto della loro vita, si fermassero. Volevo dire a Ginevra che avevo la risposta, o meglio che le avrei risposto solo dopo aver ascoltato il nuovo disco dei Cure che sta per uscire, tra qualche settimana. Avrò le idee più chiare sul fatto che i musicisti sanno riconoscere davvero quando è il momento giusto per andare in pensione.

black out

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Sono pochi i mestieri come il mio che, tra i rischi, comprendono la possibilità che un moccioso di sei anni ti vomiti sulle Camper scamosciate. Il fatto è che, per la prima volta da quando insegno, ho un bambino cinese con cui instaurare un rapporto normale, e per normale intendo che io parlo e lui mi risponde, oppure lui parla, io capisco e posso rispondergli. Mi spiace se avete intercettato una venatura di ottuso razzismo in quello che ho scritto, ma vi posso assicurare che le mie ragioni sono motivate e la provenienza (che poi sono tutti bambini italiani nati qui, fatti e finiti, ma lo sarebbero anche se non fossero nati qui, non vedo problemi) non c’entra un tubo. Due cicli fa c’era una ragazzina che praticava il mutismo selettivo, e io rientravo a pieno merito nella sua blacklist appartenendo alla categoria degli adulti non di famiglia con l’aggravante dell’autorità precostituita. Il ciclo scorso è stato quindi il turno di un bimbo ipoacusico, un po’ Asperger e tutto accartocciato nel suo mondo di numeri e forme geometriche. Mi manca molto, e sono sicuro che qualcosa delle nostre conversazioni strampalate e senza capo né coda sia rimasto anche a lui.

Quello di quest’anno è invece simpaticissimo e dolcissimo, anche se un po’ timido. Lui mi parla, io gli parlo, e insomma ci capiamo. Ieri, durante la merenda di metà mattinata, mi ha detto di accusare un po’ di mal di pancia, dopo pranzo. Gli ho proposto di chiamare a casa, ma ha preferito resistere. L’ho rassicurato chiedendogli di avvisarmi, nel caso il fastidio perdurasse. E così è stato. Pochi minuti dopo mi si è avvicinato – eravamo al centro della classe – ha biascicato qualcosa di cui, purtroppo, non ho colto granché.

Un’incomprensione che si è rivelata fatale. Ha riaperto bocca ma, questa volta, non per parlare. Ho fatto un balzo all’indietro ma non è stato sufficiente. Il vomito – poca roba, per lo più acqua, non so perché ma i bambini da quando si portano le borracce ecologiche a scuola bevono come dei cammelli, e la merendina appena consumata – si è distribuito democraticamente tra il suo zaino, il pavimento e le mie scarpe.

La procedura, quando un bimbo sta male, è quella di avvisare in segreteria in modo che la segreteria chiami uno dei genitori. Da più di una settimana, però, i telefoni degli uffici amministrativi sono guasti, come dicono loro. Chiami e ti dà sempre occupato. Non saprei dirvi se sia una cosa da nulla, una di quelle che si risolvono spegnendo e accendendo qualcosa, se qualcuno non ha pagato una bolletta o se il problema è invece serio. Il punto però è che in nessun’altra organizzazione, di qualunque settore o dimensione, sarebbe ammissibile un black-out dei telefoni di questa portata. Più di una settimana in cui un servizio (acquistato da un servizio pubblico) non funziona e nessuno è venuto a sistemarlo, sempre che qualcuno abbia chiamato l’assistenza.

giudizi in acrilico

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Ho un collega che non si ferma ad auspicare buon lavoro e buona serata in calce alle email. Per i destinatari della sue missive si espone direttamente a favore di un ottimo lavoro e di un’ottima serata. D’altronde sognare non costa nulla, e allora perché non farlo in grande? Perché non sperare il massimo per quelli come me? Mi è venuto il dubbio che, in conseguenza dell’ennesimo palla al centro dell’ennesimo ministro dell’istruzione, la restaurazione dei giudizi sintetici sia stata recepita con eccesso di zelo da parte del personale scolastico. Così mi sono chiesto se l’andamento del giorno in arrivo possa essere augurato lungo una scala che comprenda anche i valori da distinto in giù fino a gravemente insufficiente, livello a causa del quale l’oggetto di tale conferimento si veda costretto a ripetere la giornata da capo. Una bocciatura che ti fa rimanere in una sorta di loop da giorno della marmotta, fino a un giudizio migliore.

Ma a essere retrogradi, nella scuola, non c’è proprio gusto. Il terreno è fertile per i reazionari. Penso ai docenti che, per il diritto alla disconnessione, chiedono che non si mandino email al di fuori dell’orario di servizio. Che poi, quando sei in classe, le email mica puoi leggerle, quindi a pensarci troppo a come risolvere la questione finisce che il cervello ti va in corto circuito. So di colleghi che hanno scritto al presidente della Repubblica, a Zuckerberg e persino a Dio in persona per chiedergli di spegnere l’Internet durante il weekend per non essere disturbati e mischiare lavoro e vita privata, quindi in caso di black out della rete a partire da venerdì sera prossimo sapete con chi dovete prendervela. E i genitori non sono da meno. Lo scorso anno una mamma ha provato a mobilitare altre famiglie per imporre alla scuola in cui insegno di rimuovere gli access point dagli edifici scolastici. Non c’è da stupirsi se ora gli esponenti del pensiero unico, votati dagli elettori del pensiero unico, sostengono che lo smartphone, a scuola, sia da vietare. Privi degli access point e senza smartphone, sfrutteremo la funzione hotspot della fotocopiatrice di plesso o dei crocifissi.

glutine

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Ci sono due o tre cose che dovete sapere della scuola in cui insegno. La prima è che la nuova coordinatrice di plesso abita nella casa che ha l’ingresso di fronte al cancello principale, ride sempre quando le chiedo se ha trovato coda per recarsi al lavoro e sono certo che apprezzi la boutade da vecchio rincoglionito boomer anche se non fossi il vicepreside, non sono uno di quei tipi con la tempra del capo che bisogna ingraziarseli con il consenso. Semmai con il cibo. Oggi era il primo giorno di scuola e ci ha fatto trovare una torta spaziale in sala docenti, già tagliata a quadrotti e accompagnata da un augurio di buon inizio, scritto a mano. Sotto il messaggio si è premurata di aggiungere persino gli ingredienti e, se non ho letto male, ha seguito una ricetta inclusiva per i colleghi affetti dalle più comuni allergie alimentari.

Una nota di merito anche per il giovane maestro a cui scrocco le sigarette nei momenti di tensione ed è per questo che ho appena comprato due pacchetti per non sentirmi in colpa, di cui gli farò dono domattina. Non sono un fumatore, lo sono stato, ma ogni tanto sento il bisogno di fare due tiri perché mi rilassa. Questa mattina, per dire, ho accolto la mia nuova prima, un nuovo primo giorno di scuola che mi ha ispirato una considerazione. Converrete con me che la vita è un susseguirsi di momenti che affrontiamo da soli o accompagnati e/o circondati da persone che abbiamo o non abbiamo scelto noi. Avete capito cosa intendo. Non possiamo scegliere i genitori e le sorelle perché qualcuno o qualcosa, ad un certo punto dei miliardi di miliardi di anni lungo i quali si protrae la storia dell’universo, decide di proiettarci in un nucleo famigliare a cui, fino a una certa età, diamo per scontato di appartenere, fino a quando diventa lecito mettere in dubbio l’opportunità (che non è proprio il termine che intendo ma al momento è il più vicino al concetto che voglio passarvi) di sentirsene membro. Ci sono poi le situazioni di cui siamo responsabili a partire dalla propria, di famiglia, anche se per i figli vale in parte lo stesso discorso di prima, a cui si aggiungono una moltitudine di agglomerati umani provvisori, passatemi il termine, di cui in qualche modo e almeno in piccola parte costituiamo una componente strutturale, altrimenti ce ne saremmo già liberati senza pensarci tanto su. Infine, ecco la maggior parte dei casi in cui siamo costretti tra gente che non abbiamo potuto scegliere. Pensate al condominio, ai lunghi viaggi sui mezzi pubblici, ai colleghi in ufficio e, per chi lavora nella scuola primaria, alle classi a cui veniamo abbinati a ogni inizio di ciclo.

Le schede di raccordo che ci sottopongono le colleghe della scuola dell’infanzia non sono di aiuto. Io le ho lette e rilette decine di volte, nei pochi giorni di preparazione al nuovo inizio, ma oggi, al cospetto dei bambini che vi sono descritti e che vedrò quotidianamente per i prossimi cinque anni, tutte le informazioni puf, si sono volatilizzate come un control-c e un blackout prima di un control-v qualunque in un pc senza batteria, poco dopo il primo intervallo.

Le classi difficili costituiscono le vere sfide per gli insegnanti quelli veri, ed è forse per questo che la prima cosa che ho detto, quando all’uscita il mio collega mi ha offerto l’ennesima sigaretta, è stata “richiesta di trasferimento”. Ho trascorso la seconda metà della mattina a mettere in piedi un moccioso che ha continuato a manifestare il suo dissenso alla scuola borghese e gentiliana gettandosi sul pavimento per poi, una volta costretto alla posizione riconducibile a quella eretta, precipitarsi fuori dall’aula.

A un’altra, stiamo parlando di nanetti di sei anni, la mamma ha riempito lo zaino di tutto il materiale necessario per i prossimi mesi di tutte le materie – otto quaderni, due astucci, la cartelletta per i disegni – ma senza lasciarle la merenda. Fortunatamente nessuno della classe ha pianto ma, per esperienza, so che il vero choc da distacco si presenza dopo una decina giorni, quando risulta inconfutabile che la scuola, quella vera, quella in cui non si gioca e non si fa il pisolino dopo pranzo, è cominciata e si protrarrà fino a quando quello che si getta in terra e quella che è costretta a portare venti kg di materiale scolastico per disattenzione dei genitori sulla schiena, non prenderanno la patente di guida. Buon lavoro, lo auguro a me stesso e a tutti i colleghi che iniziano un nuovo ciclo. Buon lavoro.

AD

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Il primo collegio docenti dell’anno scolastico ha lo stesso impatto di un concerto dei Sepultura. Non ho mai visto i Sepultura dal vivo – appartengo a un’altra parrocchia – ma credo che renda l’idea. Te ne stai seduto alla cattedra dell’aula magna, alla sinistra della Dirigente, in quanto collaboratore vicario, e esauriti tutti i punti all’odg ecco avvicinarsi un’orda di colleghi vecchi e nuovi a rompere la quarta parete delle assemblee di insegnanti pronti a farti domande e chiedere le informazioni più assurde dei generi più disparati. L’elasticità con cui cercare dati nell’archivio mnemonico, ogni anno, mi mette sempre più alla prova. Il punto è che l’entropia è il fattore specifico e caratterizzante della scuola italiana e chi si cura degli aspetti organizzativi e didattici state sicuri che non è mai pronto, in occasione dell’evento che sancisce l’avvio della nuova stagione, quello che nelle aziende fighe si chiama kick off. Puoi aver trascorso le più belle e più rilassanti e più lunghe e più solitarie vacanze del mondo ma stai tranquillo che è impossibile proteggersi dall’onda d’urto che consegue alle cosiddette varie ed eventuali. Che poi, arrivati a quel punto, uno pensa che il collegio sia finito. E invece.

Immaginate qualche decina di nuovi collaboratori catapultati in una realtà lavorativa simile a quelle in cui si è militato in precedenza ma con peculiarità uniche e, in quanto tali, paradossalmente opposte. Gente magari fresca di nomina come la collega partita dalla Sicilia in aereo la sera prima, non appena pubblicate le graduatorie, atterrata giusto in tempo per l’avvio dei lavori, quindi immediatamente dopo a bordo di un treno per rientrare a casa a più di mille km, fare armi, figli e bagagli, e tornare su ancora immediatamente dopo per non perdere il posto.

Fino a tutta una serie di richieste che, in qualunque altro tipo di organizzazione di qualunque altro settore e di qualunque altra dimensione, comporterebbero uffici e team e portali dedicati a temi che vanno dalle piattaforme digitali ai permessi per lutto, dalla distribuzione delle compresenze al codice della fotocopiatrice, dai dissapori con i colleghi all’acqua dei distributori automatici, o semplicemente solo la necessità di fare quattro chiacchiere. Come sono andate le vacanze. Le tappe ai distributori all’uscita dell’A1 per spendere di meno attraversando l’Italia, i figli che fanno alle superiori, la scoperta di un’allergia mai avvertita prima, e molto altro. Ma davvero molto e davvero altro.

E AD, se non siete del settore, non significa anno domini ma piuttosto animatore digitale, che è una carica che lo so che fa ridere, a chi non lavora nella scuola. Potete immaginarci come una sorta di Fiorello in grado di passare dal karaoke alla conduzione di Sanremo al mattatore di strada ma, tutto questo, nel settore dell’IT in ambito educational/scolastico con l’aggravante del rigore e della burocrazia tipici della PA italiana. Quest’anno la mia preside ha dedicato addirittura una slide, nella presentazione a supporto del collegio docenti, tutta dedicata a me. Ha spiegato le ragioni della mia riconferma e c’è stato pure un applauso. Sono diventato rosso, così mi sono voltato verso il proiettore cinese che abbiamo comprato con i soldi del PNRR, che prima di andare in stand-by si collega con una specie di Netflix altrettanto cinese e mostra, suddivise in riquadri di anteprima, tutte le novità ancora cinesi disponibili in streaming, film che nessuno, qui in Italia, vedrà mai.

B2

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Questa mattina ho terminato due dei tre corsi che abbiamo organizzato grazie al programma di formazione del personale scolastico per la transizione digitale previsto dal DM 66/2023 e dedicati ai colleghi del comprensivo in cui insegno. Anzi diciamo pure alle colleghe, perché di colleghi maschi iscritti ce n’è solo uno. Prima di ogni lezione mi offre il caffè del distributore automatico e se vede che sono indaffarato me lo porta direttamente nel laboratorio di informatica. I due corsi in presenza che ho terminato oggi avevano il focus su alcune piattaforme che utilizziamo sia per la didattica che per l’organizzazione e la gestione del nostro lavoro, compresa la collaborazione e la comunicazione. Io cerco di arrivare almeno mezz’ora prima dell’inizio per avere tutto pronto e non rischiare imprevisti. Man mano che l’aula si colma dei partecipanti, offro il mio supporto affinché riescano a seguire le lezioni in modo efficace. Malgrado il laboratorio sia un forno, aiuto le colleghe a collegare i loro notebook alla ciabatta scomodissima avvitata al contrario sotto le postazioni, mi assicuro che utilizzino Chrome e non Edge e cerco di sbrogliare gli inevitabili aggrovigliamenti tra gli account Google personali e quello della scuola che si formano tra le schede aperte del browser. In questi circa dieci minuti mi pezzo come quando vado a correre, ed è a questo punto che arriva il collega a fornirmi ristoro con un bel surrogato di caffè bollente del distributore automatico che non rifiuto per non risultare scostante ma, piuttosto, trangugio il più velocemente possibile per abbattere il tempo di sofferenza.

I tre corsi che abbiamo organizzato sono stati pensati per livello e hanno avuto un’adesione al di là di ogni aspettativa per due ragioni. Intanto perché dieci ore di formazione erano obbligatorie per un motivo che non vi sto a spiegare, e poi perché le colleghe che mi conoscono sanno che il mio approccio è informale, per non dire che, mentre spiego le cose, racconto un sacco di minchiate. Insomma, credo di essere divertente e coinvolgente ed è un plus per un corso di formazione in presenza da seguire sventolando il ventaglio.

I due corsi in presenza, quelli che ho terminato stamattina nella sauna del laboratorio di informatica, erano entry level e ne abbiamo organizzati due solo perché, proprio per l’adesione in massa, i posti in laboratorio non erano abbastanza per tutti. Una casualità che però ha involontariamente generato due diciamo sottolivelli. L’entry level, cioè quello che avevamo pensato, e un livello sotto l’entry level con colleghe che – anche piuttosto giovani – a malapena sanno usare un computer, e quando dico a malapena intendo proprio nemmeno a muovere il cursore sul trackpad o, peggio, coordinare le dita sui tasti del mouse. E, credetemi, non lo dico con cattiveria. Anzi, e questo l’ho condiviso con loro, ho apprezzato tantissimo il fatto che si siano messe alla prova, al di fuori della loro confort zone, in un ambito che sicuramente non costituisce il diciamo core business della loro attività e, quindi, ne possono fare a meno come d’altronde hanno sempre fatto. Sono state loro a darmi la più grande soddisfazione, che poi ho scoperto esser stata reciproca proprio oggi, allo scadere dell’ultima ora dell’ultimo incontro.

Oltre ai due corsi in presenza c’è un terzo corso da remoto che abbiamo pensato invece di livello intermedio. Non tutti i partecipanti a questo modulo, però, si sono iscritti per migliorare la propria dimestichezza con le app didattiche. Il corso online è decisamente più comodo perché, anziché sudare nel girone infernale del laboratorio di informatica (30 persone, 30 dispositivi accesi, zero aria condizionata, finestre che non si possono aprire a causa delle veneziane rotte che ne ostacolano l’uso) è possibile migliorare le proprie competenze digitali a casa in mutande e con l’aria condizionata a manetta, indipendentemente dal livello entry, pro o master a cui ci si sente di appartenere. Una dinamica che va a scapito di chi, invece, si è iscritto per esercitarsi con le attività un po’ più complesse di quelle a cui è abituato ed è costretto ai continui stop di chi dovrebbe essere con il livello for dummies e chiede il mio supporto per le funzionalità più banali. C’è una collega che, addirittura, segue le lezioni con lo smartphone e che, come avrete capito, non può fare nessun tipo di pratica. Quando glielo ho fatto notare mi ha tranquillizzato sostenendo di trovarlo comunque utile. È chiaro che, per lei, è sufficiente la presenza per dimostrare di aver partecipato a un’iniziativa di formazione obbligatoria. La sua diciamo indolenza però è pienamente compensata da un gruppetto di fidate stalker digitali che hanno deciso di seguire sia il corso in presenza (quello non per dummies) sia quello online, giustificandosi col fatto di trovare le attività che propongo interessantissime. Come biasimarle.

Anch’io, a parte i corsi che tengo come esperto formatore (si chiama così nella piattaforma dedicata il docente), dovrò partecipare come studente a qualche altra iniziativa. Dovrebbero partire una serie di incontri sull’intelligenza artificiale – il nuovo tormentone e demone della scuola italiana – e, soprattutto, un corso per conseguire una certificazione di inglese. Al placement test che l’ente che si è aggiudicata l’iniziativa ci ha somministrato, sono risultato B2. Un risultato che mi ha riempito di gioia e ha gonfiato a dismisura il mio ego perché, quando insegno inglese ai miei bambini, mi sento meno che A1 e faccio una fatica boia.

B2 è un risultato più che soddisfacente, anzi, superiore a ogni aspettativa. Da quando ho ricevuto questa notizia ascolto i miei gruppi inglesi e americani preferiti con un approccio diverso. Mi sembra di comprendere di più i testi delle loro canzoni, oppure faccio finta di capire, facendo finta di non fare finta, oppure ancora capivo bene anche prima ma non sapevo che quella fosse una cosa che sapevo fare.