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A casa di Adriana ho notato una stampa di Emanuele Luzzati che conosco benissimo raffigurante una scena con un tizio che suona una serenata con la chitarra e la sua bella che ascolta innamorata dal balcone, un regalo di nozze che Adriana ha ricevuto da alcuni amici del marito. Il fatto è che, con il tempo, si è perso un pezzo del corpo della ragazza destinataria delle attenzioni del suo spasimante. Se passate da loro fateci caso perché non è facile accorgersi della parte mancante. Non so se avete presente lo stile un po’ strampalato di Luzzati. Sarò campanilista ma a me fa impazzire. Ai miei bambini ho già mostrato alcuni dei suoi cortometraggi animati sulle musiche di Rossini ottenendo feedback sorprendenti. Anche a mia figlia, quando li ha visti da piccola, sono piaciuti molto. Ho chiesto informazioni sull’accaduto e il marito di Adriana mi ha confessato di non sapere quando si sia staccato il pezzo, probabilmente durante qualche trasloco o semplicemente si è scollato e poi la signora delle pulizie ci è passata sopra con il Dyson. A vederli da vicino fanno un po’ impressione, Adriana e suo marito. Lui supera i due metri e lei, che sarà un metro e cinquanta, gli arriva all’ombelico. Con Adriana non sono molto in confidenza e non ho mai capito che lavoro faccia lui. Solo solo che quando esce dall’ufficio si fa venire a prendere in macchina da un autista perché in quei venti minuti che impiega per rientrare a casa gli piace schiacciare un pisolino. Poter usufruire di un servizio quotidiano di un noleggio con conducente è un lusso che si possono permettere anche se, lo so per certo, non sono una coppia di miliardari. Mi sembra però di aver capito che per lui sia una sorta di esigenza fisica. Intorno alle 18, l’ora in cui si congeda dai colleghi, sviene letteralmente dal sonno. Non importa quanto abbia riposato la sera prima, se fuori ci sia buio o ancora il sole, se faccia caldo o freddo, se abbia particolarmente faticato al lavoro, se abbia mangiato lo stinco o solo un’insalatina con i pomodori. Tè e caffè non gli fanno effetto. Tra le 18 e le 18:30 deve trovarsi in un posto in cui gli è possibile chiudere gli occhi e sonnecchiare per una mezz’oretta. Non lo biasimo perché anche me è successo. Ho fatto per tantissimi anni il pendolare e addormentarmi sul treno del ritorno, provato dalla fatica tutta mentale del mio impiego di copywriter e creativo, era un vero e proprio ristoro psicofisico. Ancora oggi, se mi trovo in casa a quell’ora, non disdegno di sdraiarmi sul divano e chiudere gli occhi qualche minuto. Il marito di Adriana all’andata va con i mezzi e per rientrare a casa ha sottoscritto una specie di abbonamento vita natural durante con un servizio privato di trasporti. Mi chiedo perché non si avvalga di un taxi, secondo me spenderebbe di meno. Quando torno da scuola anche a me viene un po’ sonno e devo prestare molta attenzione alla guida. Penso ad Adriana e a quanto sia fortunato suo marito mentre russa sui sedili posteriori tra il traffico della tangenziali all’ora del rientro. Penso anche ai numerosi modi che esistono per riparare la stampa di Luzzati e mi chiedo perché non abbiano ancora provveduto.

einstürzende neubauten

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Letteralmente, almeno secondo Google Translate, edifici nuovi che crollano. Non sapevo che ci fosse un progetto per demolire la diga di Begato, una specie di vele di Secondigliano ma alla periferia di Genova, un po’ meno malfamate ma altrettanto ecomostruose. Una vera e propria diga considerata abitabile appoggiata a serrare due lembi di una vallata, l’apoteosi degli edifici tipici dei dintorni del capoluogo ligure con tutti i saliscendi e gli ingressi da sotto e da sopra e da mezzo, ma con l’aggravante delle case popolari, delle dimensioni inutilmente esagerate e del pugno nell’occhio dal punto di vista cromatico (e nello stomaco, dal punto di vista emotivo). Posti che, davvero, ad ambientarci delle riprese video il ricorso alla musica degli Einstürzende Neubauten sembra il minimo.

Ho letto solo oggi su Repubblica dell’iniziativa di radere al suolo quell’oscenità architettonica e non immagino la difficoltà di sgomberare un vero e proprio quartiere racchiuso in un unico mega-condominio. Tanti anni fa seguivo un ragazzino problematico nelle attività scolastiche che abitava proprio lì. Appartamenti a parte, il complesso aveva spazi comuni interni ed esterni più che inquietanti. Ricordo lo stato d’animo quando mi trovavo da solo sulle scale, in ascensore o sul tetto che congiungeva le sommità delle due colline, il punto preferito dai ragazzini della zona. La vita da quelle parti non era uno scherzo, e la famiglia di Christian era perfettamente in linea con il disagio che si percepiva. La diga di Begato si vede dall’autostrada, venendo da Milano. O, almeno, si vedeva. Chissà come sarà il panorama, d’ora in poi.

quando tua mamma Creusa ti chiama

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«Asky!», così ha chiamato la donna che mi precedeva in coda alla cassa del supermercato. La cosa mi è sembrata strana perché ai cani non è consentito l’ingresso. Quante volte vi è capitato di vedere esemplari domestici a quattro zampe attendere il padrone con gli occhi tristi di quella tristezza che hanno solo i cani, legati a un palo all’esterno della Coop o dell’Esselunga? Ho immediatamente pensato alla stranezza della scelta del nome: un cane che si chiama Asky altro non può essere che di razza Husky, quelli che attirano le ire degli animalisti puristi in quanto costretti a sopportare il clima di latitudini ben diverse rispetto a quelle da cui provengono. In verità ho un ex collega che ha un Husky, a essere precisi una Husky, e quando la portava in ufficio mi raccontava che quella che da noi patiscono il caldo è una leggenda metropolitana. Non lo so e non mi interessa. Sono proprietario di un gatto e mi basta e avanza. «Asky dove sei?», ha ripetuto la mamma. Dal corridoio delle riviste è spuntato un bambino di corsa, avrà avuto nove o dieci anni. «Ascanio forza vieni che ora tocca a noi!». Ho pensato allo spreco di dare a un figlio il nome del fondatore di Albalonga, o comunque di un protagonista dell’Eneide, per poi rivolgersi a lui con una abbreviazione così riduttiva della portata storica del suo significato. Incontrare Ascanio alla Coop mi ha catapultato in una nuova dimensione. Ho rivolto immediatamente lo sguardo, con timore reverenziale, a Creusa intenta a riporre il contenuto del carrello sul nastro trasportatore, sperando che all’altro lato della cassa ci fosse Enea in persona pronto a mettere tutto nelle buste di plastica. Una famiglia in fuga da Troia e intenta a fare provviste prima di giungere nel Lazio – probabilmente i prezzi qui da noi sono più convenienti – e fondare una nuova città. Il problema è che Creusa muore prima. Anzi si perde, e poi Enea torna a cercarla ma vede solo la sua ombra che lo convince a continuare la spesa alla Coop in sua vece e a portare a termine la missione con la sua fidelity card e soprattutto con Ascanio che, nel frattempo, ha preso un Topolino e pretende anche un ovetto Kinder. Sapete come sono i bambini quando accompagnano i genitori a fare la spesa. Chissà che gli diranno, ad Ascanio, i compagni di classe. Lo chiameranno Asky anche a scuola? Speriamo di no.

non importa dove sei

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Per non presentarsi a casa mia a mani vuote ha rovistato in una scatola dei ricordi per riesumare un po’ di quei flyer di club e mostre raccolti in giro per il mondo fino a quando ha avuto la possibilità di viaggiare. Avevano programmato la luna di miele in India ma poi, con il figlio in arrivo, lui e la moglie hanno ripiegato su un piano B per visitare il Salento fuori stagione. In un loft di New York lo aveva colpito la lunga fila di depliant dalla grafica modernissima e dai font accattivanti appiccicati a un metro e mezzo d’altezza sulla parete del corridoio e così ha copiato l’idea. A Ostuni, però, si sono concessi un trullo ristrutturato. Oggi nessuno sprecherebbe più denaro in quel tipo di marketing, quello di lasciare pubblicità in cartoncino stampato alle casse dei negozi e non è certo perché è da un anno che viviamo come dei reclusi. Forse non ne colgo il valore affettivo, forse dovrei farlo, di certo a casa mia non c’è posto per appenderli. Sono comunque bravo a dissimulare e così, sbrigati i convenevoli, mi avvisa che venendo qui dal parcheggio ha notato un tassista russare in macchina in una stradina in cui dubito che qualcuno possa aver mai bisogno di una corsa per andare da qualche parte. «Non importa dove sei», mi incalza. «La giornata lavorativa mica è finita». A me viene in mente che fuori è decisamente primavera e potrebbe essere andata che il tassista ha portato qualcuno lì e, sbrigate le faccende del pagamento e della ricevuta, gli è venuta voglia di schiacciare un pisolino per evitare un colpo di sonno sulla via del rientro. È già sera ma è ancora chiaro e immagino l’interno del parabrezza riflettere il display del navigatore satellitare acceso. Mi verrebbe voglia così di scendere in strada e di scrivergli sulla vernice bianca immacolata del cofano, con uno di quei pennarelli indelebili che usiamo a scuola, che chi dorme non piglia pesci. Mi potrebbe cogliere sul fatto qualcuno che abita lì, a partire da Roberta mentre rientra da qualche suo impegno di lavoro trascinando lo stesso trolley che usa anche quando trascorre il fine settimana dal suo compagno che vive a Livorno o Angelo, che porta fuori il cane che – sono parole sue – è un surrogato di quello che aveva prima ma che ora è morto.

il bar come unità di misura della pressione a cui è soggetta la gente

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Il distributore Total su cui si affaccia casa mia è provvisto di un piccolo caffè con tanto di tavolini e sedie fuori, uno spazio esterno che la pandemia ha ridimensionato e in cui ora nessuno non può sedersi e consumare. Se c’è un benzinaio è facile intuire che la strada in cui è ubicato non è certo via dei Condotti, non ha il pavé e soprattutto negozi. C’è un discount poco più in là, qualche attraversamento pedonale, pericolosissimo quando viene sera, e poi una serie di rotonde che costringono il traffico a rallentare. Per darvi le coordinate, ci troviamo nell’hinterland milanese di nord-ovest in una sorta di arteria che devia il traffico fuori dal centro del paesino in cui ho sono residente. L’apparente mission del bar, prima del coronavirus, era principalmente quella di servire un caffè al volo a chi faceva rifornimento. In realtà nel tardo pomeriggio non era raro notare qualche addetto alla manutenzione stradale o qualche altro lavoratore in tuta blu – penso a elettricisti o operai del gas, sempre che si dica così – chiudere la giornata di fatiche outdoor con un bianco mosso o una Moretti da 66cl. Da quando siamo zona arancio scuro il bar del benzinaio ha messo un tavolino sulla porta per impedire l’accesso e servire i clienti solo per l’asporto. Ogni volta che passo di lì ci solo gruppetti di persone che bevono il caffè in bicchierini di plastica da distributore e fumano una sigaretta chiacchierando. Il culto del caffè e della sigaretta al bar a tutti i costi, anche se costretti in piedi, al freddo, fuori dal locale di un benzinaio in una strada di periferia con l’aggravante del rischio di contagiarsi e contagiare a causa del coronavirus mi ha lasciato incredulo. Non è meglio starsene a casa?

washington

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L’ultima funzionalità di Google Maps permette di zoomare al 100% fin sopra gli edifici. Ho provato a farlo con il mio, sono uscito sul balcone e ho visto proprio la lente di ingrandimento avvicinarsi minacciosa. Ma non c’è niente di cui aver paura perché, si sa, è tutto virtuale. Muovendosi con il cursore sopra, il tetto dei palazzi a mouse over cambia colore come gli ipertesti di una volta e si visualizza il nome e il cognome di chi ci abita. Se il caso lo richiede, cliccando sopra si apre qualcosa. Per esempio la coppia della famiglia con tre figli che ha comprato la villetta a schiera qui di fronte – avete presente quella in cui abitavano i tre gemelli frutto di una procreazione assistita, ma per questo non c’è nulla di cui preoccuparsi, Google Maps non riporta pettegolezzi. Se clicchi sul nome di lui ti fa vedere l’ultima foto che ha postato su Facebook, quella in bici con il cane scattata al parco ieri mattina all’alba. Credo che sia un ingegnere ambientale. Lei invece è un avvocato di grido e c’è un video in cui va a far la spesa con i figli, tutti con la polo con il colletto tirato su. Naturalmente se clicco su di me finisco qui, sul mio blog. Mia moglie, invece, linka direttamente con via Washington perché è il desiderio più recente in ordine cronologico espresso. Se non vi compare, basta svuotare la cache di Chrome. Ha trascorso la giornata di venerdì a casa di una collega in via Washington per portare a termine un progetto e, da allora, non fa altro che dirmi che le piacerebbe tantissimo abitare in via Washington perché via Washington è bellissima e si può uscire di casa anche solo per fare quattro passi e, in quattro passi, sei alla Feltrinelli di piazza Piemonte o in quella panetteria dove fanno la focaccia ligure. Qui da noi, dove se zoomi al 100% sugli edifici vedi chi ci abita dentro, esci soltanto con uno scopo. Se hai qualcosa da fare. La spesa, una commissione, andare in posta, fare una corsetta. Altrimenti è tutto talmente brutto che è meglio stare in casa. Il problema è che le case in via Washington, dove puoi permetterti la privacy di non essere rintracciato da nessun motore di ricerca, costano tre se non quattro volte la nostra e non ce le potremmo mai permettere. Fatevi un giro su immobiliare punto it e poi ne parliamo. Cliccando su mia figlia, poi, non c’è niente di cui ci si possa lamentare. Devo ammettere che è molto seria, studia tantissimo e non sembra risentire in modo evidente della clausura a cui è soggetta a causa della pandemia. Abbiamo commentato insieme l’iniziativa #ultimoconcerto, e persino lei ammette che è vero, nessuno dovrebbe rimanere indietro in questa crisi senza precedenti, ma che se già scegli di fare un lavoro che comprende un fattore di rischio – quello di piacere al pubblico – che non ha eguali, purtroppo devi mettere in conto che ci sono pochi anelli più deboli della società rispetto al tuo, e ve lo scrive uno che si compra un disco alla settimana. Come per gli altri settori economici, vediamo quanto era il tuo fatturato dichiarato in tempi normali e, in base a quello, cerchiamo di elargire un ristoro in percentuale adeguato. Per finire, invidio quelli il cui link indirizza direttamente alla propria pagina di Wikipedia. Io ho provato ad aggiungere la mia più volte ma poi, alla fine, ho desistito. Che cosa potrei dire? Meglio tenersi stretto uno spazio in cui scrivere racconti come questo. Anzi, se provate a cliccare adesso mi vedete sveglio in pigiama alle quattro del mattino ma è perché ho mangiato ieri sera gli avanzi dello spezzatino con i peperoni e il cous cous allo zafferano e mi è venuta sete.

carte bollate

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Non so come lo viviate negli altri capoluoghi. Qui, alle porte di Milano, il concetto di città metropolitana rende perfettamente l’idea. Mentre a sud tra navigli e nutrie gli agglomerati urbani si stemperano fino ad assumere le sembianze di parco agricolo, a nord l’urbanizzazione si estende senza soluzione di continuità tra paesi complementari tra di loro fino nel cuore delle province con cui confiniamo. A osservare una mappa o una qualsiasi raffigurazione dall’alto la composizione del territorio è piuttosto netta. A passarci dentro, invece, la rappresentazione risulta meno rigorosa. L’hinterland è molto meno ordinato e decifrabile. Si fa fatica a capire dove finisca un paese e dove cominci quello dopo e, in certe strade provinciali che fanno da confine, persino la segnaletica toponomastica si alterna e si ripropone secondo un meccanismo casuale, per i non addetti ai lavori, ed è complicatissimo raccontare a qualcuno dove ti trovi, nel caso fosse necessario. Allo stesso modo, definire dove si trovano certi posti e dare indicazioni è una pratica aleatoria, nessuno oramai si sogna più di chiederle.

A un anno dal primo caso di Covid, Bollate – periferia nord ovest di Milano – è stata declassata a zona rossa. Un puntino di contagio di colore più intenso rispetto a tutto il giallo che c’è attorno. A Bollate va tutta la mia solidarietà perché Bollate è a poco più di un km da casa mia. Da Bollate si estende il parco dove spesso vado a correre, c’è la cartoleria come quelle di una volta, gestita da due anziani che è chiaro che, quando andranno i pensione, la cartoleria non esisterà più. A Bollate c’è un’associazione culturale che ha organizzato una ciclo-staffetta per riportare a casa l’agenda rossa di Paolo Borsellino, c’è la mia erboristeria di fiducia e l’Arcaplanet in cui faccio rifornimento di cibo per la gatta. Ora però ogni varco stradale per entrare a Bollate è presidiato da forze dell’ordine, protezione civile e giubbe fluorescenti e fa impressione passarci davanti. Bollate è anche il primo posto in cui ho abitato quando mi sono trasferito da Genova, ho trovato quindi una certa continuità tra zone rosse. Transito in macchina davanti ai posti di blocco e mi ritorna in mente il giorno prima dell’inizio del G8, quando ho percorso a piedi l’intero perimetro dell’area off-limits. Il problema è che, davvero, il territorio comunale di Bollate sembra estendersi ovunque in ogni direzione, qui intorno. Noi del paese vicino ci sentiamo circondati e intrappolati, anche se le vere vittime sono loro, i bollatesi, a cui va tutto il nostro cordoglio.

case da sogno, ricordi da incubo

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Se grido di notte non spaventatevi, sicuramente ho sognato la mia vecchia casa di campagna. La mia vecchia casa di campagna apparentemente è una cascina costruita dal mio trisnonno sulle pendici di un monte a un km dal centro del paese, a ridosso di boschi piuttosto brulli e sopra il cimitero, ma questo aspetto non accentua di un grado l’inesistente registro horror di questa innocua vicenda. La casa è isolata, la cascina successiva salendo la montagna è a circa un km più in alto ma da quarantanni è disabitata e oggi è solo un rudere. Nella la mia vecchia casa di campagna ho trascorso almeno una dozzina di estati di fila fino ai quindici anni, e quando dico estati intendo dal primo giorno di vacanza dopo la fine dell’anno scolastico a giugno fino all’ultimo giorno prima della ripresa a settembre, anzi quando frequentavo la scuola elementare si tirava fino al primo ottobre. Senza contare poi numerosi fine-settimana durante l’anno e poi tutti i brevi soggiorni negli anni successivi fino alla fine che quella casa ha fatto (grazie a quella sagoma di mio cognato che l’ha ipotecata per i suoi affari, fate quindi ciao all’agenzia delle entrate). Nella mia vecchia casa di campagna ho passato tantissimo tempo con mia nonna e le mie sorelle da piccolo, quindi tutto sommato giorni felici e spensierati come sono le vacanze estive fino alla scuola superiore. Quello che non capisco è quindi il motivo per cui la maggior parte degli incubi che mi fanno urlare di notte sono ambientati lassù. Non li saprei raccontare, rammento solo qualche ambiente che mi angoscia fino al momento dello spavento, eppure a fasi alterne, nei periodi di maggior stress, il brutto sogno nella mia vecchia casa di campagna torna a trovarmi. Di ricorrente non c’è nulla, non ci sono spettri o mostri, disgrazie o calamità naturali, agenti soprannaturali o morti viventi. Solo stanze e muri di pietra, luoghi e ambienti distorti dal sonno, cose che so che stanno per succedere ma di cui non riesco mai a vedere la scena clou: l’urlo mi fa balzare sul letto o mia moglie, avvertendo l’escalation onirico-emotiva in corso fatta di grugniti, versi e sospiri, riesce a prendermi in tempo e a svegliarmi. Probabilmente è l’assenza di persone familiari nel sogno che mi angoscia, gli spazi abbandonati che diventano i veri protagonisti con le cose che invecchiano con il tempo anche se, senza vita, in realtà nella loro immutabilità dovrebbero costituire un punto di riferimento stabile per i nostri ricordi e che, distorte dalla paura, trasmettono l’opposto della sicurezza.

geografia umana

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Quando mi lascio la casa alle spalle e mi avvio verso il parcheggio a un km in cui ho lasciato l’auto perché ormai tutto il centro è per metà riservato ai residenti e per metà a pagamento. Nel momento in cui passo davanti alla pizzeria aperta alle due del pomeriggio di un giorno feriale che tanto feriale non è perché è il giorno dopo Santo Stefano, tutti hanno avanzi da finire e la margherita a pranzo è già blasfema in condizioni normali figuriamoci nelle vacanze di Natale. Da quella pizzeria si ode il coretto che ha sancito il successo di Self Control di Raf e che lo ha tramandato nei secoli dei secoli fino a noi, fino a questa pizzeria con la radio accesa e dentro solo una donna sovrappeso nel locale deserto, seduta a un tavolo nei pressi del forno a legna mentre legge una rivista di gossip e aspetta che succeda qualcosa. Un’ordinazione, un cliente affamato e ritardatario, una scusa per chiudere per non riaprire fino a sera.

Quando leggo accanto a un citofono dell’isolato successivo, che è quello in cui sorge il palazzo messo peggio in quanto a facciata scrostata dall’aria di mare, il cartello “affittasi casa vacanze” e mi chiedo a chi potrebbe venire l’idea di trascorrere anche solo un giorno di passaggio in un posto così. Quando faccio spazio lungo il marciapiede sconnesso alla signora con il bastone quadripode e il carrello a traino su cui ha montato la bombola e il respiratore, che ha deciso di fermarsi proprio lì per una pausa sigaretta e la fuma con tutta la sofferenza di chi è indeciso se si tratta di un piacere o di una schiavitù o che entrambe le cose sono interdipendenti. Quando noto l’ennesimo anziano con i jeans di sottomarca sbiaditi di taglia abbondante che gli cascano malissimo sulle gambe magre e sulle scarpe da tennis made in China.

In ciascuno di questi piccoli episodi che si succedono nel giro di una manciata di minuti, mi convinco che il vero dono soprannaturale a cui l’uomo dovrebbe avere diritto come ricompensa per sopportare le peggio cose che accadono lungo un’esistenza che ha sì dei momenti irripetibili ma che ha un epilogo scontato e uguale per tutti, non è né il terno al lotto o il dono dell’invisibilità o il potere di fermare il tempo a piacimento o la forza di leggere nel pensiero altrui. Il solo fattore che potrebbe consentire all’umanità un balzo in avanti verso la conquista dello status di semidivinità è il poter scegliere, prima di venire al mondo, il luogo dove nascere. Perché il grande inganno della vita è che ci sono posti che offrono ogni possibilità come gli altri, ma che invece non è vero.