residenti resilienti

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Verso la fine degli anni 90 tra gli appassionati delle vacanze in Francia era d’obbligo la consultazione di Homelidays, uno dei primi siti web grazie al quale era possibile entrare in contatto con chi offriva in affitto case o camere e contattarli comodamente in inglese via e-mail, evitando momenti imbarazzanti al telefono a causa del nostro francese improvvisato. E lo so che sicuramente tra di voi c’è qualcuno che ha usato un altro portale simile prima di quello e non vi biasimo, d’altronde la frenesia di assicurarsi una posizione pioneristica dell’Internet, ai tempi dei socialcosi, è difficile da contenere.

Il successo di Homelidays è provato dal fatto che, con il tempo, è stato assorbito da un’organizzazione più strutturata e poi da un’altra più grande ancora, ma questo è stato il destino di tutte le iniziative del settore turistico fai-da-te che, pian pianino, sono convogliate tutte sulla piattaforma Airbnb, mentre anche i proprietari di strutture vi si trasferivano perché c’è più pubblico e i motori di ricerca ti ci riportano sopra, volente o nolente.

Lo scambio di case contiene l’essenza dell’ospitalità e del viaggio, sia che qualcuno vi lasci le proprie cose e si fidi ciecamente di chi vi soggiorni, sia che metta sul mercato appartamenti acquistati ad hoc, facendo diventare l’essenza dell’ospitalità di cui sopra un business. Saprete meglio di me che gli abitanti dei quartieri più caratteristici delle città sono su tutte le furie proprio per questo. Le case si svuotano di chi ci vive e si riempiono di turisti mordi e fuggi e i quartieri più caratteristici delle città attirano esercizi commerciali e servizi per i turisti mordi e fuggi snaturando l’essenza del posto. Un forma di gentrificazione a tutti gli effetti difficile da contenere perché fonda le sue radici nell’economia nata sul web e, quindi, per forza di cose, democratica, laddove è democratico tutto ciò che è impossibile da regolamentare perché voluto dal basso e sostenuto dalla gente. Il fatto è che la filosofia del CouchSurfing degli albori della rete non ha retto all’impatto della venalità. Un’epoca dorata in cui la smania di guadagno viaggiava sui modem a 56Kbps e c’era tutto il tempo per filtrare le cose con l’umanità.

In famiglia abbiamo ancora il vezzo di affittare gli appartamenti quando viaggiamo, preferendo di gran lunga questa formula all’albergo. La casa ti permette più intimità, la possibilità di usare la cucina, e nel caso in cui trovi qualcuno che ti lascia il posto in cui vive per i giorni richiesti, trovi quel calore che una camera di hotel, anche con decine di stelle, non restituirà mai. Le più accoglienti che ho trovato sono quelle francesi, forse perché sono loro ad aver inventato l’approccio di Homelidays e sono rimasti ancorati a quel modo di ospitare gli estranei. Anni fa, nell’appartamento a Parigi in cui ho soggiornato, c’era un pianoforte a coda pazzesco e vi giuro che non sarei più uscito di casa. In questo momento mi trovo a Lione nell’appartamento di un’artista che, oltre a tutti i suoi quadri in mostra sulle pareti, ci ha lasciato anche un formidabile gatto certosino. Da ospite, la cosa mi fa sentire doppiamente in vacanza, fermo restando che casa mia non la affitterei mai a nessun sconosciuto, ma forse nemmeno a gente che conosco, e tantomeno il mio gatto.

i morti non ci dicono nulla

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I morti non ci dicono nulla. Non ci parlano proprio. Ci insegnano moltissimo, almeno quello. Le vittime delle epidemie ci ricordano che i vaccini sono la soluzione. Le guerre che è meglio parlarne prima o, per lo meno, non comportarsi da prepotenti. Per il resto proprio non c’è storia. Anzi, di storia ne abbiamo a tonnellate, anzi ancora, a millenni. Entri in una tomba vuota di una necropoli etrusca e ti aspetti che qualcuno o qualcosa azzardi un contatto. Invece al massimo trovi un nido di rondine, una ragnatela, i cavi elettrici – che poi possibile che non ci sia un modo per occultarli – e stop. Girelli per i borghi medievali la notte al buio e immagini che ogni ombra anomala si muova verso di te ma poi è un gatto o un turista russo. In genere non c’è anima viva ma è molto meglio di un’anima morta, perché se apparisse qualcosa di soprannaturale, pensate a un’urna sul comodino come accadeva negli sceneggiati di una volta, io rischierei un infarto, andando ad aumentare le fila di quelli che vorremmo incontrare almeno in sogno, per avere in cambio qualche numero da giocare al lotto. Qualche notte fa ho sognato mio suocero. Lo abbracciavo stretto ma sentivo che ci stava abbandonando per tornare alla dimensione a cui appartiene ora e io non volevo andasse via di nuovo e lo chiamavo forte. “Franco!”, gridavo. “Franco!”, tanto che l’ultimo l’ho urlato per davvero e mia moglie si è spaventata e mi ha svegliato, temendo che mi sentissi male. Poi ci siamo calmati e ho cercato di riaddormentarmi ma non ci sono riuscito subito. Ho provato un po’ di senso di colpa. Mio papà non l’ho mai sognato così.

città che muoiono

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Il belvedere a ridosso delle prime scalette che conducono verso il ponte che collega la terraferma a Civita di Bagnoregio induce tutti i visitatori alla stessa reazione emotiva. È il primo punto da cui si vede il paese sulla rocca di tufo al centro del panorama e l’emozione è realmente forte. Poi ti avvicini alla città che muore, come è descritta nel suo pay off, e a freddo puoi notare qualche difetto. Sul ponte di poteva fare qualcosa di meglio, per esempio. I piloni bianchi che lo supportano, in mezzo a tutto quel tufo e a quel verde, sarebbero potuti essere di un materiale e di un colore differente. Provate a immaginare un’opera di quell’impatto in mano a un’archistar. Un ponte realizzato con le più moderne tecniche bioarchitettoniche o, addirittura, tutto trasparente. Ma nell’insieme l’orgoglio campanilistico della bellezza che abbiamo solo noi e tutta per noi si alimenta passo dopo passo, avvicinandosi a quel posto che ha dell’incredibile. La resa massima di Civita di Bagnoregio probabilmente è verso il tramonto, ma attenzione che ci fate la figura di quelli che non vogliono pagare i 5 euro del biglietto d’ingresso, obbligatorio dalle 8 alle 20 di sera. Noi siamo arrivati a pochi minuti dalla chiusura della biglietteria, felici di aver potuto contribuire alla sua manutenzione. Probabilmente altrove avrebbero messo dei tornelli, a metà del ponte, attivi 24×7, e una cassa automatica, in modo da rendere il giusto pedaggio sempre obbligatorio. Se pensate che il vicino bosco dei mostri di Bomarzo costa 11 euro, tutto sommato ci sta. Poi, una volta in cima alla rocca, Civita di Bagnoregio dà l’impressione di una città dai giorni tutt’altro che contati. Una Mont-Saint-Michel ma infinitamente più bella, anche se valorizzata la metà. Certo, in mano ai francesi sarebbe piena di botteghe con il rumore delle cicale finto, bancarelle di magneti e varia fuffa turistica. Invece, per il posto che è, ha mantenuto un certo rigore. Ci sono ristoranti e bed&breakfast ma niente di più. Salendo lungo il ponte, ho notato sulla cima della collina a destra una splendida villa immersa nel bosco dominare la vallata sottostante e ho pensato a cosa di possa provare, ogni mattina, a svegliarsi, affacciarsi dalla finestra più alta e godere di un panorama così. Tutto sommato, però, preferirei essere da questa, di parte. Uno degli undici abitanti della rocca. Ma cosa faresti tutto il tempo lì sopra?, viene da chiedere dopo un’affermazione così. Vivere bene, vivere e basta, mi sembra già un buon punto di inizio.

la prima porta

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Sono in attesa del Frecciarossa per tornare a casa, un treno per Milano in arrivo a Bologna da chissà dove e che proseguirà fino a Torino. Una coppia di anziani dall’inconfondibile accento – lui parla come Erminio Macario – e diretta a Torino Porta Nuova discute sull’ordine delle fermate. Lei sostiene che il treno che prenderanno fermerà prima a Torino Porta Susa e dopo a Torino Porta Nuova. Lui asserisce il contrario. Il fatto è che il Frecciarossa ha qualche minuto ritardo e il battibecco si protrae sui binari più del dovuto. Passa un ferroviere, probabilmente il capotreno che darà il cambio al collega in arrivo, e il marito non perde l’occasione per chiarire la faccenda. «Mi scusi, ferma prima a Torino Porta Nuova o Torino Porta Susa?». Il ferroviere risponde che il treno arriva a Torino Porta Nuova ma prima ferma a Torino Porta Susa. Il marito non sembra convinto e la moglie, per tagliare corto, cerca di minimizzare il fatto di aver avuto ragione. «Probabilmente ricordi male», gli dice, «quanto tempo è che non prendiamo un treno ad alta velocità?». Il marito continua come se non la moglie non avesse aperto bocca. «Come fa a fermare prima a Torino Porta Susa?». Il ferroviere interpellato capisce l’antifona e aggiunge, sibillino: «Ferma prima a Porta Susa, ma dopo prosegue per Porta Nuova». Nel frattempo il Frecciarossa arriva a Bologna e la lotteria delle prenotazioni mi condanna a un’esperienza di viaggio a pochi metri dalla coppia. Il marito indossa la mascherina e scommetto che quell’espressione degli occhi, lo sguardo di uno che non si arrende facilmente, non promette niente di buono. Squilla il telefono e, con quella caparbietà mal esercitata che pervade le persone anziane alle prese con i dispositivi touch e la modernità in genere e che si manifesta in disagio, il marito impiega almeno sei ditate sullo schermo prima di avviare la conversazione. «Ciao, siamo sul treno, abbiamo cinque minuti di ritardo e poi non so se il treno fermi prima a Porta Susa o a Porta Nuova. Ti chiamiamo quando siamo lì». Io e la moglie ci guardiamo, lei capisce che ho capito, ma ho capito anche che noi uomini, prima o poi, diventiamo tutti così.

madre

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«Ci vediamo verso le 19 in Via Zoagli», mi scrive la persona che ho contattato per acquistare un pezzo di ricambio usato di un vecchio giradischi che mi è stato regalato e che voglio riportare in vita. La ricerca su Google Maps restituisce un risultato sorprendente. Via Zoagli, a Milano, si trova nel quartiere di Quarto Oggiaro. La cosa mi fa sorridere: avete presente, vero, che cos’è Quarto Oggiaro? La storia di Quarto Oggiaro? Chi vive a Quarto Oggiaro? Ho pensato che la scelta dei nomi da attribuire alle vie dovrebbe essere oggetto di scambio tra le città. In questo caso, se davvero fosse così, a Zoagli dovrebbe esserci una Via Quarto Oggiaro, magari una creuza che scende verso il mare. Se io vivessi in Via Zoagli a Quarto Oggiaro mi offenderei e me la prenderei contro il sistema che, ogni santo giorno, mi ricorda in che posto di merda abito se paragonato a Zoagli. Se percorressi ogni giorno Via Quarto Oggiaro a Zoagli mi irriterei altrettanto perché passare di lì mi ricorderebbe, ogni volta, i tristi palazzoni della periferia milanese. Poi, per fortuna, scopro che il nome completo della via di Quarto Oggiaro è Via Adele Zoagli, che grazie a Internet scopro essere la madre di Goffredo Mameli. Allarme rientrato.

lapidario

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Le cose funzionano così. Fai lo sceneggiatore per un importante regista, qualcuno ti consiglia un bel romanzo con una storia in grado di reggere perfettamente la trasposizione per il grande schermo, leggi il libro e confermi l’impressione, sottoponi l’idea al regista con cui collabori, il regista realizza il film e vi ritrovate entrambi in lizza per uno dei principali premi del settore. L’estate però ispira solo storie che trasmettono malinconia e a cui nessuno è interessato. Vicende che abbiano sullo sfondo quartieri residenziali assolati e deserti, luoghi generalmente vitali chiusi per ferie, persone sole che non sanno che farsene delle vacanze, edifici scolastici oggetto di ristrutturazioni interrotte a metà per la pausa estiva e difficilmente terminabili prima della ripresa delle lezioni, amici che partono con altri amici lasciando a casa gli amici di prima, coppie che si sfaldano come nelle isole televisive della tentazione. In generale si fa fatica ad accettare le cose che sembrano sul punto di evaporare e le persone che non sono al loro posto e tutto ci sembra vuoto, un’area archeologica abbandonata a se stessa e alla mercé di tombaroli, turisti poco rispettosi, gite di classe che lasciano il segno con tratto pen e strumenti appuntiti su affreschi e colonne, nell’attesa di rientrare in hotel e tentare la fuga per raggiungere la discoteca più vicina. La scorsa estate ho visitato nell’ordine Ostia antica, Pompei ed Ercolano in un’atmosfera irripetibile a causa delle restrizioni da Covid-19. Anzi, a pensarci bene, se continuate a non vaccinarvi, anche quest’anno ci sono alte possibilità che tutto si ripresenterà tale e quale. Comunque ho camminato sui ruderi di città di duemila anni fa con un caldo torrido e a Ostia, per dire, c’eravamo solo noi, i quaranta gradi all’ombra e gli addetti al sito, donne e uomini in pensione con le divise e i berrettini con la visiera dei Carabinieri che ci hanno rimproverato perché non avevamo una adeguata protezione per il capo. Ho avuto la conferma che ci sarebbero tantissime storie da inventarsi in quei luoghi con i protagonisti dell’epoca, se solo ne sapessimo di più, se solo conoscessimo i dettagli della loro vita quotidiana. Sull’onda dell’entusiasmo per la storia antica quest’inverno ho così seguito, al colmo delle aspettative, la serie tv dedicata alle origini di Roma, cercando di cogliere al netto della vicenda principale che cosa facevano le comparse sullo sfondo. Non solo, quindi, i guerrieri secondari alle prese con l’ordinaria violenza in battaglia, ma donne, uomini, anziani, bambini, persone normali che sullo sfondo di eroi e re forgiavano metalli, portavano l’acqua, chiacchierano sulla soglia delle loro capanne. Mi sono chiesto quanta cura dedichino registi e sceneggiatori a dettagli di questo tipo. Quest’anno abbiamo organizzato un viaggio analogo ma ancora più indietro, nella storia degli Etruschi. La sfida è ancora più difficile perché l’arte è al riparo nei musei e il resto sono tombe e poco più e mi chiedo che cosa si potrebbe inventare, per un film, considerando una base di partenza così vaga. Necropoli e urne vuote. Molto più semplice lavorare a una versione tv della Divina Commedia, magari con le atmosfere dark che solo certe serie americane o nord-europee di successo riescono a rendere. Tre stagioni da undici episodi ciascuna più un prologo, ogni puntata divisa in tre parti, personaggi e storie attualizzate, colonna sonora che attinge a piene mani dalla produzione contemporanea. E poi c’è un copione già fatto e finito e che pare aver avuto un discreto successo, nel tempo. Ci vorrebbe anche una sigla ad hoc, una di quelle che, malgrado il binge watching, non skippiamo per passare subito alla visione dell’episodio ma su cui ci soffermiamo, ogni volta, per calarci nel mood e prepararci meglio a quello che sta per accadere.

finta di niente

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Abbandonato a fianco del contenitore giallo degli abiti usati, a pochi metri da casa mia, c’è una borsa di plastica stipatissima di giochi per bambini. Il fatto è che il cassonetto dovrebbe raccogliere solo indumenti e non capisco il nesso. Non è mica una discarica di qualunque cosa ci si voglia liberare. Basta però riflettere qualche istante per comprendere il procedimento che ha spinto l’ignoto benefattore a lasciarla lì. Accade ogni tanto che i contenitori gialli degli abiti usati attirino le visite di qualche bisognoso, pronto a rischiare una contravvenzione e a mettere in pericolo la propria incolumità, considerando come si apre e si chiude il meccanismo di deposito, piuttosto che a rivolgersi alle strutture che ritirano e distribuiscono ai più poveri i vestiti di seconda mano. Il proprietario dei giocattoli deve aver pensato proprio a qualche genitore desideroso di portarsi a casa, oltre a un guardaroba rinnovato a costo zero, una bella sorpresa per i figli. Si sarà immaginato un padre e una madre rientrare con jeans firmati e scarpe alla moda gettate da qualche sprecone con in più un Monopoli come bonus, e bambini felici che si divertono vestiti di tutto punto in un appartamento dimesso di un quartiere popolare.

Questo spiegherebbe anche il motivo per cui l’intera borsa di plastica non sia stata riposta dentro al contenitore, un gesto in più che avrebbe messo al sicuro le parti più delicate e le scatole dei giochi dai temporali estivi che, almeno da queste parti, ricorrono con certezza ogni sera, per non parlare delle deiezioni dei cani.

Non è la prima volta che il contenitore giallo si circonda di oggetti che non dovrebbero essere lasciati lì. Qualche giorno fa c’era un seggiolino per auto, a conferma del fatto che chi fa la carità in questo modo poco efficace associa il concetto di indigenza a famiglie con prole e automunite. Tempo fa addirittura è comparsa una poltrona da salotto, in pelle marrone scuro e con i cuscini così logori da lasciar fuoriuscire il riempimento in gommapiuma. Il cerchio così si chiude: è chiaro che ci sono cittadini poco informati (o poco rispettosi) che confondono questo tipo molto rigoroso di raccolta differenziata con una stazione outdoor ove abbandonare oggetti ingombranti, con l’idea che gli addetti alla pulizia delle strade siano paladini del decoro urbano che caricano tutto, indipendentemente dal tipo di rifiuti che devono recuperare con il mezzo in dotazione al momento.

Nel sacco dei giochi ho notato però una tombola che possedevo anch’io, da bambino. Un modello, ai tempi evoluto, in cui le cartelle da distribuire ai giocatori si collocavano in alloggiamenti in plastica color écru e magenta dotati di fessure con sportellini richiudibili. Anziché impiegare fagioli o qualunque altro legume sui numeri estratti presenti sulla propria scheda era sufficiente muovere lo sportellino e occultarli. Ci pensate? Sarebbe fantastico se potessimo avere queste griglie per coprire o scoprire parti di cose nella vita, come il pulsante “vedi meno post come questo” sui social che ti mette al riparo dalle informazioni più scomode o, in generale, poco in linea con la tua sensibilità. Da qualche giorno – per fare un esempio – rimbalza tra una testata e l’altra la notizia secondo cui Amazon manderebbe al macero milioni di prodotti invenduti per risparmiare sui costi dei magazzini. Uno si immagina tutta la gadgettistica o le cineserie da pochi Euro che ci durano il tempo che meritano, invece ho letto qualcuno di questi articoli e si parla anche di articoli di valore.

Io però non lo credo possibile e così ho scelto di vedere meno post di questo tipo. Poi mi sono immaginato interi pallet di computer e tv abbandonati nei pressi dei contenitori gialli degli abiti usati come quello sotto casa mia. Ho pensato che non può essere vero, perché se Amazon avesse davvero milioni di prodotti invenduti troverebbe una soluzione come la persona che ha abbandonato lo stesso modello di tombola con cui giocavo da bambino e che sono stato tentato di portarmi a casa. Poi però ho notato, poco più a lato, un bambolotto dalle sembianze raccapriccianti, avvolto in una tutina da neonato e delle dimensioni di un bambino vero, con i capelli tutti arruffati e gli occhi parzialmente chiusi. Stavo per scattare una foto di forte condanna etica da postare su Instagram – avevo fatto lo stesso con la poltrona squarciata alla mercé del piscio dei cani del quartiere – ma poi ho desistito. Ho puntato l’obiettivo dello smartphone ma, immediatamente, ho provato una sgradevolissima sensazione.

mare profumo di mare

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C’era una fabbrica, proprio lì, a coprire la vista del lungomare. Ma c’erano anche delle scalette, un sottopasso, e una rampa finale e dopo finalmente gli scogli e l’acqua e persino la foce di un torrente. Quel passaggio mia mamma l’ha percorso ogni giorno per più volte al giorno, da bambina e da ragazza, per godersi il mare. Poi la fabbrica è stata dismessa e demolita e al suo posto hanno costruito dei giardini, di certo più adatti a un contesto balneare. Nel frattempo mia madre è andata a vivere un po’ più distante, poi ha conosciuto mio papà, siamo nati noi e anche per me, da ragazzo, quello sbocco sul mare, che è rimasto lì ma con una diversa conformazione, è risultato decisamente comodo. Abbastanza vicino per fare un bagno al volo, fumare una sigaretta al sole, asciugarsi e tornare sui libri.

Quella spiaggia aveva perso però tutto il suo fascino che deve aver suscitato a mia mamma quando era ragazza, forse perché quando c’era la fabbrica la gente aveva meno pretese. Una sabbia con la consistenza della terra aveva preso il posto degli scogli e la foce del torrente somigliava sempre più a una discarica. È accaduto lì che ho conosciuto una famiglia che, ogni giorno, partiva da Torino in macchina per recarsi al mare. Ogni giorno d’estate sempre lì con ombrellone, pranzi al sacco, teli da mare, tavolino e sedie da spiaggia. Una madre con due ragazzini e una bimba più piccola. Ricordo di aver acceso una sigaretta, uscito dall’acqua, e di aver fatto due conti. Autostrada, benzina e consumi per i viaggi di andata e di ritorno costano meno di una mezza pensione per quattro persone. Ma non mi tornava il motivo per cui fare tutta quella fatica quotidiana per trascorrere del tempo in un posto così brutto. Sarebbe bastato qualche chilometro in più per godersi degli scorci incantevoli.

Quella spiaggia era frequentata anche da bagnanti provenienti dalla campagna circostante. Era facile riconoscerli dopo, in attesa del treno a fine giornata. Le facce scottate dal sole e dalla vita. Gli occhi che dicevano che avrebbero preferito nascere lì, in quella città con i passaggi che portano sulla spiaggia, senza dover prendere il treno in estate da una località di mare per fare rientro, alla sera, in un paese dell’entroterra.

società sportiva

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La gente non vede l’ora di mettersi in tuta il sabato mattina e uscire di casa. Poi ci sono anche quelli che nel weekend corrono, vanno in bici, camminano, zampettano con le bacchette da nordic walking per i parchi urbani, e sono davvero tanti. Alla gente normale però basta solo il contatto con la tuta per percepirsi di maggior tonicità, in forma e pronta a mettersi in marcia, un po’ come quando prendi l’appuntamento dal dottore e, messo giù il telefono, ti senti già meglio. Con la tuta ci si va al supermercato, si fa la spesa nelle botteghe di quartiere. In tuta si lava la macchina, si fa la scorta alla casa dell’acqua per la settimana, si va in posta o a fare un bancomat e, tra una commissione e l’altra, c’è il tempo per un caffè al bar della piazza o, se è quasi mezzogiorno, uno spritz. La diffusione delle tute come outfit trasversale a ogni ceto sociale ha indotto la moda ad adattarsi alle nuove linee. Prendete i pantaloni da uomo, sempre più slim, o le scarpe che, anche quando sono eleganti, richiamano le sneakers. A vederci tutti con la tuta, l’uomo del futuro di noi penserà che siamo una società sportiva, una civiltà in cui teniamo molto al nostro benessere fisico. L’uomo del passato giudicherebbe invece esclusivamente l’estetica discutibile e il tessuto artificiale di bassa qualità con cui vestiamo i nostri corpi. L’uomo del presente è solo più pratico degli altri e non vede l’ora di mettersi in tuta il sabato mattina e uscire di casa. Tutto qui.

radiolina

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Tutti lo chiamavano “gola secca” ma noi lo chiamavamo Radiolina perché la sua voce ricordava quegli apparecchi a bassa fedeltà audio che trasmettevano “Tutto il calcio minuto per minuto” e che gli appassionati tenevano incollati all’orecchio la domenica pomeriggio, durante le passeggiate a spasso nel centro o sul lungomare con la famiglia al seguito. Radiolina non si vedeva ma lo si sentiva e basta. Il suo timbro si diffondeva ovunque per una legge dell’acustica tutta particolare, come quei portici di Bologna in cui se parli rivolto a una colonna senti il tuo interlocutore nel punto opposto. Ovunque stanziasse nella stazione di Genova Principe, da lì irradiava le sue trasmissioni pubbliche, il suo incessante e incomprensibile monologo di cui i più giovani facevano a gara a cogliere le parti più scurrili. Radiolina costituiva una presenza costante di quell’ambiente, come gli annunci dei treni in ritardo, le rotelle dei trolley sulle mattonelle, le ali nei voli pericolosi dei piccioni nella hall. Era impossibile resistere alla tentazione di cercare da dove provenisse quel sottofondo metallico di spoken word. I colori neutri degli abiti dimessi di Radiolina lo rendevano invisibile, perfettamente mimetizzato nello sfondo come uno di quei giochi della Settimana Enigmistica. Il vero nome di Radiolina è Roberto Maini ed era un talentuoso pittore. Non conosco la sua storia e non so perché vivesse per strada ma con una folle e paradossale dignità. La stazione di Genova Principe era la sua casa, i pendolari il suo più affezionato pubblico. Ho trovato questa chiacchierata di Radiolina registrata nel 92 alla Panteca, un altro posto altrettanto surreale di una città incredibile e complessa come poche altre nel momento del suo massimo splendore.