guida turistica di un posto in cui non c’è assolutamente niente da vedere

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“Guida turistica di un posto in cui non c’è assolutamente niente da vedere”, o, come si legge nel sottotitolo, “Il bus davanti”, è un’esauriente raccolta di momenti e di luoghi che generalmente poi non si ricordano, con l’obiettivo invece di costringerci a tenerli a mente. Non ci credete? Se vi succede di stare fermi in coda nel traffico segnatevi data, ora e coordinate geografiche del posto (potete mandare la posizione a qualcuno tramite Whatsapp) e poi appiccicatevi un post-it sul frigo ma uno di quelli con l’adesivo bello resistente perché dovrà restare appeso dieci o vent’anni, in modo che tra dieci o vent’anni vi consenta di ricordarvi persino del lotto di case popolari in cui si è accesa la prima luce del mattino e che ha dato il via al tour di quel luogo in cui non c’è assolutamente niente da vedere.

Oppure, ed è per questo che si parla di un bus davanti, della pubblicità del concessionario che ha utilizzato una mediocre clip-art di Charlot completamente decontestualizzata dal messaggio in cui si parlava, appunto, di auto usate, posizionato sul retro del bus che vi precede a passo d’uomo fermo. Saremo vecchi e queste madeleine di fastidio urbano ci evocheranno le stesse sensazioni. Il fatto è che avere un autobus davanti in coda non lo si augura nemmeno al nostro peggior nemico. Così grande e grosso e farcito di persone in mascherina chirurgica ostruisce la visibilità e impedisce di capire se c’è margine per passare davanti e toglierselo dai coglioni senza fare un frontale con qualcuno che arriva nel senso di marcia opposto.

Peggio di un bus ci sono solo gli ufo la mattina, quei camion con le luci lampeggianti nel buio che procedono con la stazza di un pachiderma e la flemma di una lumaca e che quando si approssimano all’incrocio e, per forza di cose, devi dar loro la precedenza perché hanno tutti i requisiti per prendersela, realizzi amaramente che vanno nella tua stessa direzione con una lentezza che in natura si trova solo negli animali morti. Ma sopra il lampeggiante continua a lanciare il suo segnale che induce a prestare attenzione, quello è un mezzo più pesante e ingombrante di una bisarca che trasporta bisarche.

Mi vedete? Fermo con l’ufo a pochi metri dal parabrezza. A destra ci sono studenti e stranieri in attesa dell’autobus. A sinistra un quartiere sovietico con una Mercedes d’annata parcheggiata sotto, il logo sulla punta piegato da qualcuno che non ha fatto in tempo a rubarlo, come si faceva da ragazzi con quello della Volkswagen e non chiedetemi il perché. Il conducente dietro si sfoga sul clacson come se il suono emesso dal suo autoveicolo fosse in grado di spazzare via gli ostacoli che ha di fronte e che, vuoi per il bus o per l’ufo che va ancora più lento del bus, nessuno riesce a capire quanti sono o anche solo se c’è un anziano sulla sua Ford grigia che accompagna la moglie a fare le analisi del sangue. Mi verrebbe voglia di scendere – tanto siamo poco più che fermi – e ricordargli che il problema è tutto suo, che avrebbe dovuto partire da casa un’ora prima di quel momento in cui attraversare la città diventa la parte più difficile di tutto il viaggio di lavoro. Io di trasferte non ne faccio più, se sono qui è perché accompagno mia figlia al capolinea della gialla e attraverso un pezzo di Quarto Oggiaro per dirigermi verso ovest. E comunque, quando mi toccavano, mi trovavo nella solitudine di farmi la barba alle quattro e mezza per raggiungere prima delle sei del mattino la barriera di Milano Sud. Ora passo in una brughiera in cui le cose peggiori sono il limite dei 70 in superstrada, le cavallette in volo che scontrano sonoramente il parabrezza, certe macchine da ottantamila euro con le targhe straniere e il benzinaio extralarge che ha l’unghia del mignolo lunga, solo quella, e non ho ancora capito perché. Forse suona la chitarra classica, glielo chiederò, prima o poi.

trent’anni di garanzia

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Io vado in ansia con i prodotti surgelati acquistati nei supermercati dei centri commerciali. Per questo ho elaborato una strategia che consiste, sostanzialmente, nel metterli nel carrello solo alla fine dell’esperienza di spesa. Non sempre i congelatori sono ubicati in prossimità delle casse e, in quel caso, ripercorro a ritroso la naturale disposizione degli scaffali facendomi largo tra gli altri clienti che, invece, seguono il tracciato pensato dagli esperti di marketing della GDO.

Non so quanto tempo possano sopravvivere fuori dal freezer e osservo code di gambero, pizze, barattoli di gelato, minestroni e merluzzo impanato come un pesce rosso qualunque abbandonato all’esterno dalla sua boccia piena d’acqua. Ai surgelati manca il respiro, soffocano a contatto con l’aria e bisogna mangiarli subito. Se fosse davvero così lo spesone bisettimanale mostrerebbe tutti i suoi limiti. Le scorte che perdono la loro funzione primaria, quello di poter essere conservate dentro la confort zone della data di scadenza e soprattutto un pranzo e una cena contigui all’insegna del junk food.

Ma se oltre al supermercato avete pianificato un passaggio da Sephora, da Intersport o da Cotton&Silk meglio farlo prima della spesa. Per i vostri surgelati, esposti in eccesso alle luci impossibili dei negozi della fast fashion, sarebbe il colpo di grazia. C’è poi il concetto di sotto-Natale, che per i centri commerciali significa un lasso di tempo che va da fine ottobre a carnevale. Sotto-Natale nei centri commerciali ci sono persino le bancarelle come ai mercatini di Bolzano. Lo so perché mi sono fermato da un sedicente artigiano del cuoio che vendeva portafogli, borse e cinture come se le facesse solo lui e nessuno avesse mai contrattato il prezzo con i milioni di commercianti di uno dei generi di articoli al mondo che hanno subito maggiormente l’industrializzazione della taroccatura.

Mia moglie si ostina a valutare acquisti per nostra figlia malgrado non abbia ancora imparato che comprare un capo di abbigliamento al buio per una diciottenne è buttare via i soldi. Comunque, mettiamo lo stesso una manciata di cinture di colore, texture, tipo di pellame e fibbia diverse uno vicino all’altra e al proprietario della bancarella, che dice di farle lui e che addirittura setaccia i mercatini dei rigattieri alla ricerca di modelli vintage da ricopiare, già gli viene l’acquolina in bocca. Nessuno, a parte noi, comprerebbe mai qualcosa in una bancarella ubicata in uno spazio di passaggio di un centro commerciale perché l’artigianato perde tutta la sua portata di genuinità. Chi gestisce i centri commerciali organizza questi mercatini come opera di redenzione per aver affossato il commercio al dettaglio ma è ancora peggio.

Il sedicente artigiano mi dice che la cintura di cui sto valutando l’acquisto è coperta da una garanzia di trent’anni. Io subito non mi rendo conto del significato di questa sparata. Poi però quando cerca di contenere la richiesta di sconto di un altro acquirente interessato come me alle cinture, considerando che a quel punto se concede lo sconto a lui dovrà concederlo anche a me, e gli conferma i trent’anni di garanzia, e l’altro acquirente scoppia a ridere facendogli notare che tra trent’anni magari saremo tutti morti da un pezzo o, comunque, chissà che fine avremo fatto, penso anch’io che proporre una garanzia trentennale come extra compreso in un prodotto di quel valore è controproducente, per non dire una fanfaronata. Che ce ne facciamo di una cintura in cuoio con la riproduzione di una fibbia vintage coperta da trent’anni di garanzia?

Ho la pazienza agli sgoccioli ma mia moglie si perde via a fare le foto alle cinque o sei cinture frutto della selezione e a spedirle via Whatsapp a nostra figlia che però è a scuola e, di certo, non può mica rispondere e indicarci quale preferisce. Così propongo una soluzione equa per tutti: le bancarelle resteranno per qualche settimana? Bene, abbiamo tutto il tempo per ripassare con lei, così potrà scegliere la cintura più adatta e, addirittura, permettere all’artigiano di tagliarla della misura giusta senza costringerci a doverci rivolgere al ciabattino in paese, in settimana. L’artigiano capisce che l’affare sta andando in fumo perché nessuno torna lì mai due volte. Ma il rischio d’impresa è così, non a caso faccio il dipendente pubblico.

La soluzione equa per tutti di cui sopra si rivela per niente equa per l’artigiano, ma il fatto è che le confezioni dei prodotti surgelati sembra che si stiano inumidendo in eccesso e non è certo un buon segno. Si sta per avverare uno dei miei peggiori incubi. Sarò costretto a divorare code di gambero, pizze, barattoli di gelato, minestroni e merluzzo impanato per l’intera durata del weekend, pagando molto salato il prezzo di questa eccessiva disinvoltura nella vita. Del resto, quali cose avete mai comprato con trent’anni di garanzia?

il limite dei 110 (percento)

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In questo momento stanno smontando i ponteggi della villetta in fondo alla strada, quelli che avevano una luce intermittente accesa tutta la notte e che dava un effetto pista di atterraggio nella piccola via che attraversa il mio piccolo quartiere alla periferia di un piccolo paese di periferia. Mi sono subito precipitato a controllare se i dispositivi di sicurezza di cui sono dotati i carpentieri siano conformi alla normativa vigente ed è in quel momento che mi sono accorto che la dismissione a cui stavo assistendo in tempo reale ha un doppio significato.

Intanto c’è qualcuno che vuole dimostrarci che le cose hanno una conclusione. Quelle impalcature mi sembravano su da un’eternità. Anche qui da noi, che malgrado qualche ritrosia abbiamo approfittato del 110% (che poi a me sembra una sorta di ossimoro numerico e che comunque non ho ancora capito se sia una messinscena oppure no) stiamo attendendo la posa del primo tubo innocenti (e non innocente, perché il nome viene da chi ha brevettato il sistema, l’ing, Innocenti, appunto) e lo stiamo aspettando con una diffusa inquietudine. Il nostro condominio sarà fasciato per la ristrutturazione del cappotto esterno e chissà per quanto somiglieremo a un’installazione di Christo, che non è un’opera della madonna. Non potremo avere piante sul balcone e il restare in casa sarà un essere chiusi in casa con una doppia protezione che, paradossalmente, ne dimezza la portata di sicurezza. Avremo persone che cammineranno davanti alle finestre come i protagonisti di quell’episodio di “AI confini della realtà” in cui una famiglia si ritrovava prigioniera in una casetta delle bambole di un’entità superiore, che poi era una famiglia proprio come loro ma in scala decisamente più grande. Una sorta di dimensioni-matrioske in cui non sai quale sia la più grande, una crescita e una decrescita all’infinito e lo so, non mi sono spiegato bene, tanto che il secondo significato che volevo scrivere dei carpentieri che smantellano i ponteggi già non me lo ricordo più.

Ah sì, ecco. Come saremo a lavori finiti? Che mondo troveremo là fuori? Le cose cambiano così tanto che i Måneskin aprono ai Rolling Stones, una notizia che detta così sembra che c’è qualcuno chiuso in casa, proprio come me con i ponteggi intorno, e qualcun altro che suona al campanello. In realtà aprire significa fare da supporto, che detta così sembra che sei una sorta di mensola e qualcuno o qualcosa ti si appoggia sopra e lo devi sorreggere. Per non parlare del supporto psicologico, e non sapete di quanto ce n’è bisogno dopo tutte questo su e giù con la mascherina e tutti tappati in casa per non rischiare il contagio. Fare da supporto significa invece fare da gruppo spalla, un po’ come l’apologo di Menenio Agrippa quando ci ha spiegato che tutte le membra hanno una loro funzione e che quindi bisogna lavorare insieme altrimenti il corpo smette di vivere. Che rischio per i Rolling Stones.

polpette di che cosa

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L’aspetto che più sorprende il visitatore è che l’Ikea è una città nella città. Dentro comprende quartieri e caseggiati, ciascuno frammentato in nuclei abitativi a loro volta frazionati in ambienti attraverso finte pareti o separé costituiti da librerie, armadi o pannelli. Una moderna metropoli multiculturale ma priva di spazi di aggregazione dedicati alla comunità, con edifici immaginari pensati senza piazze e cortili perché quello che conta è dentro la casa, il suo interno e chi lo abita.
Questo è l’incipit della prefazione all’edizione 2022 della guida turistica “Ikea” a cura di Ingo Besta, edizioni (Owner of a) Lonely Earth. Ingo Besta è un esploratore professionale di non luoghi e l’idea di pubblicare un supporto dedicato a chi sceglie di trascorrere un weekend in uno dei numerosi templi dell’arredamento prêt-à-porter svedese nasce proprio da un dato di fatto. Chi si addentra nello spazio espositivo viene così rapito dai milioni di mobili, complementi di arredo e suppellettili posizionati nelle soluzioni allestite da non notare i passaggi segreti tra un settore e quello contiguo. I percorsi segnalati sono infatti tracciati per guidare il cliente lungo la totalità dell’esperienza di visita, in una pienezza di prodotti che trova il suo apice nel market sottostante. Solo gli abitanti del luogo sanno come e dove trovare quello che cercano senza visitare tutto il superfluo e la guida di Ingo Besta ci fa sentire accolti nel posto molto di più di un cittadino onorario qualsiasi. Non mancano i consigli per mangiare e trovare ristoro senza spendere un capitale, proprio come i volumi dedicati alle mete del turismo di massa. Ma c’è di più. La guida Lonely Earth “Ikea” 2022 ci mette a disposizione gli strumenti più utili per vincere il mal d’Ikea, ovvero quella sensazione un po’ così che ci prende quando lasciamo la città per inoltrarci nei bassifondi a cercare i prodotti di cui abbiamo preso diligentemente nota tra le stanze di quel popolo immaginario che ci ha ospitato con un trasporto senza precedenti nei suoi ambienti più privati. Il piano terra svela l’arcano e cerca di indurre a una sintesi ma con un limite: dove sono tutte le cose che, viste insieme, fanno innamorare il turista? Gli ambienti destrutturati e la nuova collocazione ricomposta per tipologia di impiego si riduce agli occhi come un sottosopra da film di fantascienza. La sicurezza mossa dall’intimità domestica viene minata dalla disposizione per articolo banalizzando le totalizzanti personalizzazioni dell’esposizione a un catalogo secondo generi ed è lì che il viaggiatore realizza che il suo appartamento decostruito è uguale a tutti gli altri. I suggerimenti di Ingo Besta permettono invece di tornare al parcheggio con il carrello pieno di mobili e di certezze. Persino le polpette, una volta cucinate in padella dopo una lunga sessione di montaggio con manuale, brugole e viti, acquistano un altro sapore, anche se non è ben chiaro quale sia il nuovo e quale fosse l’originale. La guida Lonely Earth “Ikea” 2022 di Ingo Besta si conferma così un compagno di viaggio irrinunciabile per le nostre scelte di arredo e di conseguente vita in casa. 

ti prego non mettere in copia Cinzia

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Una cosa su cui mi trovate pienamente d’accordo riguardo il lavoro da casa che ho letto tempo fa e che ho anche riportato qui da qualche parte – solo che non in questo momento ritrovo il link – è che il passo dal lavoro da casa all’isolamento è assai breve. Si faceva l’esempio dell’Overlook Hotel e di come vivere con i contatti con il prossimo ridotti all’osso possa mandarti seriamente in tilt. Lo smart working evita il bagno di folla e tiene al riparo dalla gente, siamo d’accordo. Ai tempi del Covid chiunque può risultare un appestato e starsene alla larga dai rischi è una tentazione irresistibile. Il fatto è che io e voi siamo animali sociali, quante volte ce lo siamo detti, e dagli altri c’è sempre da imparare.

Ieri ho preso un treno in Cadorna in quello che, ai tempi pre-pandemia, era l’orario di rientro degli impiegati e in pochi minuti ho avuto la fortuna di ritrovarmi circondato da dialoghi estremamente interessanti. Le persone conversano tra di loro. Le persone conversano con altri al telefono. La cosa più bella di cui sono stato testimone è stata una chiamata di lavoro in cui una delle due interlocutrici, quella che si trovava a pochi passi da me, ha detto a chi si trovava all’altro capo della linea una delle affermazioni più avvincenti che mi sia capitato di sentire al di fuori della mia confort zone da quando giriamo con la mascherina e ci dobbiamo spalmare il gel antisettico sulle mani. “Ti prego non mettere in copia Cinzia”, ho sentito esclamare. Un monito a cui non occorre aggiungere altro. Una richiesta d’aiuto. Almeno, io la ho interpretata così.

Vi chiederete cosa ci sia di così speciale. So che qualcuno di voi è stato insignito dell’onere di pensare al titolo di un romanzo ed è da settimane che seguo dibattiti a proposito. Qualcosa che, stampato su una copertina, accompagnato da un disegno realizzato in uno di quegli stili che vanno tanto di moda e che attirano i lettori che si fanno attirare dalle copertine che strizzano l’occhio alla grafica di tendenza, attiri i potenziali lettori che si fanno attirare dalle copertine che strizzano l’occhio alla grafica di tendenza e li induca a metter mano al portafogli.

Tu che hai proposto “Un libro da leggere” mi hai convinto all’istante. Io lo comprerei immediatamente. Peccato che ora ci siano ben altre priorità. Quell’altro che esternava discorsi inconcludenti e che pensava che strizzare l’occhio alla letteratura americana avrebbe spalancato le porte delle classifiche dei best seller ha toppato in pieno ed è stato – giustamente – mandato a quel paese. Per questo vi propongo, come titolo, “Ti prego non mettere in copia Cinzia”. A me è piaciuto talmente tanto che non solo penso sia una figata, ma ho anche pensato di cambiare il nome a questo blog. Basta con alcuni aneddoti e sa il cazzo che cosa voglia dire. Immergiamoci nella folla. Mettiamoci la mascherina e prendiamo i mezzi pubblici. Ascoltiamo di che cosa parla la gente. Ti prego non mettere in copia Cinzia. Ripartiamo da qui.

morto di fame

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Il mio vicino del piano di sopra è algerino e ha un nome che si pronuncia in modo ma si scrive in un altro. La scorsa mattina, erano le sette, ci siamo trovati nel parcheggio dietro casa. Le nostre figlie frequentano le superiori a Milano ed entrambi le accompagniamo al capolinea della gialla. Non ci siamo mai accordati per ottimizzare questo servizio di trasporto. Si potrebbe fare un giorno a testa, no? Il fatto è che più che un servizio è un vizio senza il ser davanti, e non comporterebbe sufficiente abnegazione se non dipendesse anche dalle tempistiche di risveglio e preparazione all’uscita. Siamo pazzi: nessun genitore mi ha mai fatto da taxista, e mi chiedo quanto resterà delusa mia figlia quando scoprirà che nessuno, al mondo, sarà mai così gentile nei suoi confronti come noi. Comunque a me e ad Assan, che si scrive Achen, capita di incrociarci nel parcheggio. Lui addirittura aspetta la sua principessina con il motore acceso, credo per scaldare l’abitacolo e aumentare il livello di confort. Venerdì scorso ci siamo incontrati lì ma non ci siamo nemmeno salutati. Qualcosa di diverso aveva catturato l’attenzione di entrambi e c’erano ben altri argomenti di conversazione. Nel mezzo del parcheggio qualcuno aveva lasciato un’alta colonna di vaschette in plastica trasparente di cibo cinese. Almeno una dozzina di quei classici contenitori che si usano per il cibo d’asporto, l’alternativa moderna e fighetta ai recipienti in alluminio che, per vedere cosa c’è dentro, devi sollevare il coperchio di cartoncino oppure fidarti di quello che chi l’ha confezionato ha scritto sopra. Una torretta in cui si intravedevano ravioli al vapore, noodles, pezzi di carne di matrice indistinguibile abbinata a verdure di tipo indistinguibile e immersa nella solita salsa dalla composizione indistinguibile. Né io né Assan, o Achem come si scrive, siamo riusciti a spiegarci l’origine di quella curiosa apparizione, che stava a me e a lui – due pessimi educatori della propria prole – come il monolite è stato alle scimmie kubrickiane. Forse, nella notte, un rider non ha trovato l’indirizzo della consegna o qualcuno non si è presentato all’appuntamento del ritiro. Oppure è stato uno scherzo: qualcuno ha ordinato tutto quel ben di Mao, ha dato una via falsa e l’addetto al trasporto ha lasciato i contenitori nel posto più prossimo all’indirizzo concordato. Le scatole erano chiuse, ben sigillate, e non vi nascondo che se non ci fosse stato testimone Achen, o Assan come si pronuncia, sarei andato più a fondo nella vicenda. Certo, non mi sarei mai fatto vedere da mia figlia, che chissà cosa avrebbe mai pensato di suo padre.

souvenir

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Anche i morti di fame come me, quando sono in viaggio, non resistono alla tentazione di portarsi a casa qualche ricordino della vacanza. Un fenomeno a spiegazione del quale ci dovrà essere per forza una teoria psicologica. L’aggravante delle origini liguri al bagno di realtà indotto dalla ricorrente esiguità del budget a disposizione non possono nulla di fronte all’efficacia del marketing percepito, quello che fa sembrare attraente qualsiasi stronzata imbellettata per chi non è del posto.

In vacanza sono molto più vulnerabili a questo fascino sia gli allocchi che cedono a qualunque tipo di gadget smaccatamente pensato per turisti allocchi, sia i turisti che si credono intelligenti – ma che sono allocchi tanto quanto gli altri – che spendono pensando di fare affari con prodotti che in patria non trovano, ma che sono gadget smaccatamente pensati per turisti allocchi tanto quanto i primi.

Io, per dire, non resisto a:

  • gli scaffali di alimentari e di birre dei supermercati olandesi e tedeschi. Non so a voi, ma l’abitudine alla varietà e all’organizzazione dei prodotti della nostra grande distribuzione fa sembrare anche il più economico discount del nord-Europa il paradiso del benessere enogastronomico. Nomi ed etichette sconosciute e variopinte, in reparti sedicenti bio e sostenibili, ci colpiscono come i pacchi colorati sotto l’albero di Natale. La gamma di prodotti mai sentiti – per non parlare di quelli etnici dei quali, da noi, non c’è nemmeno l’ombra – fa breccia nella nostra predisposizione consumistica e nella nostra accondiscendenza alla produzione locale industriale mascherata da specialità artigianale.
  • gli scaffali di vini e birre dei supermercati francesi. Spero di non offendere nessuno, ma a parità di prezzo il vino francese è nettamente superiore a quello italiano. O almeno a me sembra così. Sono stato in Francia e non ho avuto nessun problema ad assaggiare una varietà diversa al giorno senza svenarmi. Tutto buono e ad alta digeribilità.
  • i banchi di gastronomia e di spezie dei mercati. Avete mai provato l’esperienza di un mercato provenzale? Nel sud della Francia coesistono Europa, Africa e Asia in un miscuglio di lavanda, za’atar e curry che induce alla salivazione anche le più interrotte papille gustative.
  • i negozi di abbigliamento di seconda mano. “Episode” è una catena di negozi second-hand olandesi che ha almeno un paio di presidi in ogni centro urbano. Non credo che sia tra i più economici, di certo sono quelli più forniti e quest’estate sono entrato in tutti quelli che ho incontrato. In genere la qualità degli abiti è ottima e il rischio di lasciarci un rene è concreto. Nessuno, però, supererà i charity shop britannici ma adesso, con la Brexit, sembrano sempre più distanti.
  • le bancarelle e i negozi di dischi. C’è poco da aggiungere. Il boom del vinile sta mettendo i bastoni tra le ruote dei collezionisti come me. Solo dieci anni fa, tra le bancarelle del Mauerpark di Berlino, ho pagato una sciocchezza alcuni 33 giri che oggi valgono dieci volte tanto. Siamo in piena bolla, quindi fare veri affari è sempre più difficile. Scartabellare tra i contenitori di dischi richiede un livello di abnegazione superiore a qualunque altra passione, soprattutto quando non sono ordinati alfabeticamente. Ma io non demordo e qualcosina, ogni volta, riesco sempre ad aggiungere alla mia collezione.
  • le bancarelle di oggettistica varia dei mercati delle pulci. Non c’è sentimento di impotenza più doloroso rispetto a notare una sedia o un tavolino anni 60 che starebbe perfettamente a casa propria nella postazione di un rigattiere a migliaia di km di distanza, con l’impossibilità di caricarsi l’oggetto dei desideri in macchina (soprattutto se sei lì in aereo). Quindi se amate questo genere di cose mettevi nello stato d’animo giusto, prima di girellare tra i banchetti dei mercatini delle pulci, consapevoli del fatto che molti dei componenti di arredo che vedrete dovranno restare lì, pronti per essere acquistati da qualcuno del luogo.

Quando si pianificano le vacanze è fondamentale considerare nei preventivi la voce relativa alle proprie debolezze. Dovremmo finirla di fare finta di non conoscerci affatto e pensare di esserci trasformati in chissà chi. L’effetto delle ferie, purtroppo, svanisce con il primo estratto conto della carta di credito.

di che pasta sei fatto

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Cenare in un ristorante italiano all’estero è un comportamento che non sta né in cielo né in terra per due motivi. Quello meno nobile è che noi italiani professiamo l’enogastronomia italiana in una versione così radicale da subire ogni riduzione facilitata delle nostre ricette tradizionali per i palati stranieri come un vero e proprio vilipendio a una religione. In realtà è da provinciali non approfittare di un soggiorno fuori dai nostri confini per non immergere appieno il nostro apparato digerente nelle usanze locali.

Il problema è che siamo talmente di bocca buona che, in certi posti agli antipodi del nostro gusto, arriviamo a un punto in cui ci arrendiamo perché più di sei o sette giorni senza una pizza non riusciamo a resistere. Il fatto è che in molte grandi città europee l’assenza di una identità culinaria vera e propria è colmata dalla grande disponibilità di sapori etnici di altre culture, un aspetto che da noi – che guardiamo ancora con sospetto chi non è nato in Italia e anzi, nemmeno a tutti quelli che sono nati in Italia concediamo lo status di italiani – è ancora agli albori ed è visto con sospetto. Quindi perché non approfittarne per assaggiare della vera cucina orientale, o della vera cucina africana?

Nei confronti della Francia ci sono da fare però altre considerazioni, dal momento che la loro cultura enogastronomica è forte tanto quanto la nostra, se non di più. A causa della competizione che tradizionalmente ci contrappone ai nostri cugini transalpini ci risulta però difficile parlarne in modo lucido. Allora comincio io: trovo che il vino francese sia superiore al nostro soprattutto nella qualità media. Mettete a confronto una bottiglia da meno di dieci euro di entrambi e poi ditemi se non è vero.

Per il resto,  non credo che esistano ristoranti francesi in Italia, o almeno io non ne ho mai visti, mentre in Francia c’è pieno di ristoranti italiani. Questo genera più di un equivoco: se ci copiano è perché siamo un modello, giusto?

Ma se invece andate a fondo e trovate il coraggio di sedervi a un tavolino di un ristorante italiano in Francia quasi sicuramente non resisterete all’impulso di guardare con sospetto quello che vi verrà proposto, nel menu e nel piatto. Questo perché vi renderete conto presto che tutto ciò che prenderete sarà in realtà una rielaborazione secondo il gusto locale dei nostri piatti. Chi denota una forte personalità difficilmente riesce a impersonarne altre mettendo a tacere la propria.

L’esempio più eclatante è l’uso sacrilego della pasta come condimento per altri piatti, che per noi è grave quanto denigrare a male parole la propria madre. A me non piace l’accostamento, ma tutto sommato apprezzo l’uso creativo di un pilastro della nostra cucina. Alcuni invece lo vedono come un tentativo dei francesi per esercitare la propria superiorità annullando l’identità altrui, come un Napoleone qualsiasi che espropria la Cappella Sistina per farne un granaio.

A me è successo di vedere una carbonara in Francia servita come un piatto dell’Ikea tutto da assemblare a cura del cliente: hanno portato delle tagliatelle scotte immerse in una crema di un loro formaggio (non pecorino), con un uovo compreso di albume crudo e posizionato nel centro della pasta impiattata a nido, una spolverata di erba provenzale e dei dadini di prosciutto cotto in una scodella a parte, da aggiungere a piacimento. Questa è la prova che la volontà dei francesi è proprio quella di decostruire le nostre ricette come monito per ricordarci la loro grandeur. Non ci resta che adattarci.

le mani in tasca

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Per la seconda volta in vita mia oggi mi sono trovato le mani di un’altra persona nelle tasche dei pantaloni. A pensarci bene, le occasioni sono state più numerose ma occorre fare dei distinguo. Ci sono persone che ti mettono la mano nella tasca davanti dei jeans come preliminare, insomma ci siamo capiti. Altre che ti mettono la mano in tasca per rubarti il portafoglio, e qui la questione si fa un po’ più spinosa per diversi aspetti.

Anzi, a dirla tutta, la prima volta che mi è successo non si è trattato proprio di una mano nelle tasche dei pantaloni, bensì nella borsa. Avevo il vezzo di usare borse a tracolla da dj come se dovessi trasportare dei dischi ma vi confesso che non ci tenevo dentro quasi nulla perché il portafoglio l’ho sempre portato nella tasca davanti – o al massimo nei tasconi dei pantaloni con i tasconi, appunto. Passeggiavo per corso Buenos Aires e grazie alla mia andatura sbilenca provocata da una postura altamente asimmetrica ho percepito uno sbilanciamento anomalo dalla parte della borsa a tracolla da dj di cui sopra. Mi sono voltato e ho colto in flagrante un ragazzino con la mano dentro la mia borsa alla ricerca della (sua) felicità.

Da intellettuale di sinistra faccio molta fatica ad ammettere l’etnia errante di quel moccioso, sta di fatto che l’ho ammonito con qualche parola che, data la provenienza che inizia per erre e che ricorda i CD multimediali che si acquistavano in edicola e che gli preclude qualsiasi possibilità di salire almeno al seminterrato dell’ascensore sociale, non gli sarà nemmeno giunta all’anticamera del cervello. Ho minacciato di chiamare chissà chi ma poi mi ha fatto tenerezza e l’ho mollato lì, come un ciula qualsiasi. Un ciula io, sia ben chiaro, d’altronde faccio il maestro elementare, mica frequento le palestre di quelle arti marziali che ti insegnano a massacrare gli appartenenti a etnie poco inclini ad adattarsi alle regole della società e, anzi, fanno pugilato, diventano pure campioni nazionali e prendono a testate quelli che provano ad andare a fondo circa i loro standard di approvvigionamento. Ogni tanto penso a che sarebbe successo se avessi preso a calci quel ragazzino. Per fortuna non sono una bestia e so applicare il buon senso ai miei comportamenti.

In realtà, prima ho detto ciula perché è lo stesso termine che ha usato mia moglie poco fa, a proposito di quanto è accaduto oggi. Queste persone abituate a vivere ravanando nelle tasche degli altri per trovare qualcosa con cui approvvigionarsi, secondo mia moglie, sono in grado di riconoscere i ciula che, dopo che le hanno colte con le mani in pasta, anzi, con le mani in tasca, anziché corcarli di mazzate come meriterebbero, queste persone, dicevo, in quanto intellettuali di sinistra li lasciano defilarsi impuniti proprio per non dover ammettere che, questi che appartengono alle tribù che soggiornano in roulotte e a stento si adeguano alle regole sociali che impongono di contribuire al benessere comune – che poi riguarderebbe anche loro – attraverso lo svolgimento di un mestiere e il conseguente pagamento delle tasse, dicevo che queste persone sono in grado di riconoscere i ciula intellettuali di sinistra da quelli che li corcherebbero di mazzate trovandoli a ravanare nelle proprie tasche dei pantaloni.

Insomma, per farla breve, qualche ora fa ho sorpreso una ragazza palesemente riconducibile all’etnia che ricorda appunto quei CD multimediali da consultare con i computer, e l’ho sorpresa con la mano nella tasca anteriore dei miei jeans a sfilarmi il portafoglio su un tram di Lione.

Un tentativo architettato perfettamente. Il display alla fermata avvisava in francese la presenza di borseggiatori proprio su quella linea. Salito sul tram, ho notato un’intera famiglia di quelle lì i cui maschi danno testate ai giornalisti e mettono a ferro e fuoco le capitali come la nostra, insomma ci siamo capiti. Mia moglie, mia figlia ed io eravamo senza biglietto – il distributore automatico alla fermata da cui siamo saliti era guasto – così siamo scesi alla fermata successiva per acquistarli.

Due ragazze con un ragazzo di quel gruppetto hanno fatto altrettanto. Una delle due si è messa in fila al distributore davanti a me ma poi, improvvisamente, si è defilata fingendo di ricevere una telefonata. Prima di acquistare i biglietti le ho fatto cenno se volesse fare prima lei ma mi risposto di servirmi pure. Nel frattempo è sopraggiunto il tram su cui siamo saliti in mezzo a loro. Il ragazzo si è fermato davanti a me per ostruirmi il passaggio ed è lì che ho compreso che c’era qualcosa di strano.

Ho abbassato lo sguardo è ho colto la ragazza che era in coda con me con la mano nella mia tasca anteriore dei jeans, intenta a sottrarmi il portafoglio. Sono riuscito a sventare il piano con un freddezza che, davvero, stento a riconoscermi. Ho gridato, ho rimesso a posto il portafoglio e la banda di borseggiatori è corsa subito fuori dal mezzo.

Mia moglie sostiene che, se non fossi stato io, un altro sarebbe immediatamente sceso a corcarli di mazzate. Io mi sono limitato a guardare negli occhi la ladra – entrambi indossavamo la mascherina – cercando di strapparle se non una spiegazione almeno un cenno di pentimento che, ovviamente, non ho trovato. La morale è che, di fronte alle ingiustizie, è difficile mantenere la calma, non lasciarsi prendere dal razzismo – anche quando una generalizzazione ci starebbe – e non corcare di mazzate il prossimo. Ho ancora i contanti che tenevo nel portafoglio e le carte di credito e salvato il resto della vacanza. Tutto sommato continuo a mantenere la mia posizione di intellettuale di sinistra. La prossima volta prometto di stare più attento.

lettori di agosto

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Conosco diverse persone a cui non piace viaggiare e, credetemi, non è il caso di biasimarle. Il viaggio comporta una serie di difficoltà da affrontare, di responsabilità di cui farsi carico e di scelte da prendere, per noi stessi ma molto spesso per chi ci accompagna perché difficilmente viaggiamo da soli, anche se viaggiare da soli è una figata che non ha paragoni. Il fatto è che noi italiani siamo ancora legati al calendario dettato dalla Fiat e da tutto il suo ecosistema e indotto che imponeva di prendere le ferie in agosto. Oggi la Fiat non esiste più, l’ecosistema probabilmente è soggetto al calendario cinese, nonostante ciò continuiamo a fare vacanze in agosto. Occorre quindi manifestare tutta la nostra solidarietà a coloro ai quali non piace viaggiare e, di conseguenza, sono costretti a fare cose alternative durante le settimane di ferie imposte in agosto. Tenendo conto che ovunque è tutto chiuso, ci sono quaranta gradi, c’è il Covid, la tv è una merda, ci sono i gatti degli amici – che invece partono – da curare e cose così. Perché se a chi non piace viaggiare fosse consentito di prendere ferie in altri periodi dell’anno sono certo se la passerebbe meglio e, a dirla tutta, la formula potrebbe interessare anche a gente come me. Voglio dire, non vi piacerebbe staccare due o tre settimane a marzo? O a giugno? Parliamone. In altri periodi, con tutto aperto, uno a cui non piace viaggiare potrebbe godersi davvero il posto in cui vive. Vederlo sotto una luce diversa dalla canicola di ferragosto, l’asfalto che brucia e nemmeno una pizzeria aperta in giro. Per farvi capire quanto sono disperati quelli a cui non piace viaggiare vi dico solo che il numero di lettori di blog come questo, nelle settimane centrali di agosto, cresce a dismisura. E non credo che leggere articoli inutili o deprimenti sia un passatempo adatto a chi ozia sulla sdraio in una spiaggia della Sardegna del sud. Secondo me è gente che sta a casa, che le ha provate tutte e che sta raschiando il fondo del barile per trovare qualcosa da fare. Amici lettori a cui non piace viaggiare, mettetevi comodi: questo post è tutto per voi.