più sardonico, quest’anno

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Lo spot della birra Ichnusa, come tutti gli spot, racconta un modello in sé eccessivo per consentire il più ampio spettro identificativo delle emozioni dei consumatori ma, a differenza di altri esempi (abbiamo già trattato tempo fa del caso Jägermeister), mi sembra molto ben riuscito. Se bazzicate la Sardegna, più che se siete sardi (se mi posso permettere, da non sardo, di insegnare ai sardi a essere sardi) le dicotomie noi contro resto del mondo che la pubblicità presenta sono tutto sommato attendibili ed è quello che noi milanesi e continentali chiediamo proprio alla Sardegna, una terra da cui molti isolani però fanno armi e bagagli perché quell’immaginario rude e romantico e di tradizione, purtroppo, non dà da mangiare a tutti. Un vero peccato, dico io, perché mai come l’isola dei quattro mori potrebbe chiudersi, a differenza di altre che giocano alla Brexit, in un vero splendido isolamento economico, con tutte le risorse che possiede.

C’è anche un altro aspetto: quest’anno il vostro affezionatissimo plus1gmt ha scelto proprio la perfida albione al posto della provincia di Cagliari come meta estiva, e alla vigilia della partenza per Londra posso confessarvi di essermene già pentito e non sapete quanto invidio gli amici che, invece, postano foto dalla Costa Rei.

Mi consolo guardando tutto questo ben di dio che passa nello spot dell’ottima birra Ichnusa e che, ogni volta che vi assisto, penso che è proprio così: sushi, loft, vernissage, halloween, hipster, il sound, i social, in Sardegna sono proprio quelli. Fate un bagno anche per me, cari vecchi amici del campeggio, in cambio vi porto una confezione di shortbread e una statuetta della regina.

dopo anni di Facebook alla fine rimpiangeremo gli italiani rincoglioniti da Mediaset

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Riassunto delle puntate precedenti: è il 2017 e ormai la grande truffa dei Social Media ha convinto un’intera economia globale che i giochi si fanno su Facebook. Le aziende sono accorse pensando di aumentare i profitti, fare brand awareness, avere il polso delle relazioni con il proprio ecosistema di clienti e partner. Ma si sa, le aziende sono fatte di persone e, fondamentalmente, nei social network generalisti come Facebook, questo è il problema. Mescolare affari e vita privata è un’arma a doppio taglio: puoi piacere di più a qualcuno che ti conosce anche per quello che fai dietro le mura domestiche dei tuoi profili personali a quindi incrementare il fatturato, ma anche il contrario. Alternare post dell’azienda di cui si fa parte ad altri personali comporta un’attenzione ai contenuti doppia: i contatti professionali, abituati a leggere di cose attinenti al lavoro, potrebbero rimanere, appunto, doppiamente spiazzati sia per l’incursione intima che per i contenuti in sé che si postano.

Questo preambolo perché, qualche giorno fa – Anno Domini 2017 – un mio contatto di Facebook ha condiviso la bufala della sorella della Boldrini/Jessica Jones da una pagina nazi-fascio-grillista. Non ci sarebbe nulla da stupirsi se non fosse che:
– è il 2017
– si tratta di una marketing manager di una multinazionale che fa dei social media e della trasformazione digitale un cavallo di battaglia
– usa Facebook quasi esclusivamente per usi professionali, pubblicando più che altro news corporate
– fa parte di un dipartimento interno alla sua azienda che promuove programmi per le pari opportunità delle donne nel mondo del lavoro.

La morale di questa storia la si trova su piani diversi: se ti assurgi a portavoce di un’azienda, quindi una pluralità di opinioni oppure, nei casi più tradizionali, una vision unitaria, non puoi pubblicare news così fortemente caratterizzanti, a meno che quello non sia il tuo profilo privato di Facebook e basta. Ma se il tuo esser portavoce è ufficializzato, in qualche modo, devi pagare per il danno d’immagine che hai recato alla tua azienda anche se, in quel post sulla Boldrini, l’azienda non era nominata.

Non solo. Se oltre a pubblicare una notizia fortemente caratterizzante la notizia è anche una volgare bufala smascherata da tempo, il tuo ruolo professionale prevede come minimo di essere aggiornata sui social trend – le fake news in primis – quindi la figura di merda è duplice. A questo si aggiunge l’aggravante di aver gettato fango su un ruolo istituzionale ricoperto da una donna, in un momento in cui il dibattito sulla parità di genere è al centro dell’opinione pubblica, da una posizione in cui si presume una sensibilità particolare su tematiche inerenti le donne e la loro percezione nella società, nella classe dirigente pubblica e ai vertici dell’economia.

Insomma, ovunque la giri la cosa è di indubbia gravità. Ho provato così tanto imbarazzo per lei che l’ho rimossa subito dalle amicizie. A voi non capita di vergognarvi per gli altri e dover distogliere lo sguardo? Ecco, la revoca dell’amicizia su Facebook è il distogliere lo sguardo per la vergogna, ai tempi del marketing digitale.

la moda tamarra e il cambio degli armadi

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Ad alcuni elementi, diciamo “di servizio”, integrati nell’arredo urbano oramai non ci facciamo più caso, tanto fanno parte del nostro campo visivo e del quotidiano. Pensate ai tombini: e chi li nota più? Facciamo caso alle cabine telefoniche perché oggigiorno sono delle rarità soprattutto in posti come Milano e, quando ci imbattiamo in un ferrovecchio superstite della rivoluzione della telefonia mobile, ce ne accorgiamo eccome. Oppure la cosa ci favorisce una riflessione: quanto da ragazzi erano un aspetto normale delle nostre città, tanto oggi ci fanno tenerezza per la loro obsolescenza, come qualunque sopravvissuto di un’epoca che non esiste più.

Ci sono poi gli armadi tecnici che, invece, nessuno si è mai filato di striscio. Intendo quei cabinotti grigi che servono alle società di distribuzione dell’energia o ai carrier della telefonia fissa e di Internet cablata come hub – passatemi il termine – da cui si dipanano le ultime miglia che distribuiscono capillarmente i servizi di cui non possiamo più fare a meno e la cui disponibilità diamo per scontato fin dentro le nostre case. Quei cabinotti grigi contengono centraline che, per forza di cose, devono stare lì dove stanno e che fortunatamente sono talmente mimetizzati che, davvero, passano inosservati, a meno che qualcuno non vi inserisca un qualcosa che introduca una variante che salti all’occhio a chi è dotato di maggior spirito di osservazione.

Vi faccio un esempio stupidissimo ma che rende l’idea. Sotto la casa in cui vivevo da ragazzo c’era uno di questi armadi dell’Enel e Luca, che a quanto vedrete era un copy a sua insaputa, con un pennarello aveva rivisitato il lettering del nome dell’allora compagnia detentrice del monopolio dell’elettricità con un pennarello. Da un giorno all’altro, sul suddetto armadio, il logo era diventato “Enel culo te lo metto”. Potete immaginare come la boutade avesse rotto la monotonia di quel grigio armadio di metallo e la nostra di ragazzini attirati dalle parolacce e dalle volgarità.

Il breve tragitto che percorro ogni giorno, uscito dall’ufficio, e che mi separa dalla stazione di Milano Dateo, ho scoperto che comprende almeno tre di questi cabinotti marchiati, se non ricordo male, Telecomitalia. Sono armadi di medie dimensioni e da pochi giorni ho capito come ho fatto a notarli, in mezzo a case molto belle, in un quartiere di Milano piuttosto elegante. Ho notato questi armadi perché ospitano visual di campagne pubblicitarie e, essendo tutti coperti da poster della stessa marca di abbigliamento, si deve trattare per forza di una locazione di spazi per advertising urbano, un modo comunque intelligente per tirare su qualche lira sfruttando dei costi fissi da parte della società proprietaria degli armadi.

Poi ho capito che il dettaglio che mi ha fatto notare quegli armadi usati come spazi pubblicitari, in mezzo a tante altre affissioni di ogni tipo, è che le pubblicità che ospitano sono piuttosto disturbanti. Sono manifesti di uno stilista che si chiama Frank Morello (a me sconosciuto ma che inizialmente avevo confuso con Tom Morello dei RATM) e le immagini e i modelli ritratti sono agli antipodi miei canoni estetici. Tempo fa il soggetto era un ragazzo con un taglio di capelli discutibile e vestito da idiota tenuto al guinzaglio da una specie di anoressica e, prima di capire tutto il gioco delle parti, subito ho pensato si trattasse di un nuovo e maturo esercizio di stile di Luca che, magari, visto il successo di “Enel culo te lo metto”, si è dato davvero alla pubblicità.

se fossi ricco pagherei Mario Biondi per cantarla così

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I bambini di oggi probabilmente guardano meno tv dei bambini di ieri che eravamo noi, o comunque guardano la tv in modo diverso perché è cambiato radicalmente il concetto stesso di tv. Scusate se la prendo alla lontana ma vorrei solo fare il punto prima di dirvi quello che ho da dire: all’inizio c’erano le famiglie sedute sul divano che non avevano bisogno di cambiare canale con la pubblicità perché la pubblicità, ovvero Carosello, era un vero e proprio spettacolo e poi non la si vedeva altrove durante i programmi. Poi la pubblicità in tv ha iniziato a essere anche prima e dopo i programmi ma nessun membro della famiglia si sarebbe mai sognato di alzarsi a cambiare canale un po’ perché non c’erano ancora i telecomandi e poi perché di canali ce n’erano solo due. Poi è arrivato il telecomando e le tv commerciali e da lì è iniziato il concetto di zapping per ammazzare il tempo mentre il film che stavamo seguendo stravaccati sul divano era stato interrotto per la pubblicità. Questo fino alla tv a pagamento e poi a Netflix, in cui con la tv ci facciamo un po’ quel che ci pare, tanto è flessibile, e grazie a questa modalità ci possiamo rendere conto di quanto fosse fastidioso sopportare un film o un programma interrotto dalla pubblicità anche se vi ricordo che noi non millennials lo abbiamo fatto per gran parte della nostra esistenza.

Ecco, questo excursus mi serve per identificare il punto, anzi il momento esatto, in cui gli spot hanno bombardato la testa di noi bambini che guardavamo tanta tv, così tanta che le canzoncine degli spot oltre che fissarsi indissolubilmente nella nostra memoria diventavano anche oggetto di parodie, la maggior parte volgari. Vi ricordo brevemente le due più celebri.

La prima, quella dei tortellini Fioravanti, si perpetrava oralmente di bambino in bambino in una versione fin troppo elaborata che diceva cose tipo “con sei uova di ramarro / ed un chilo di catarro / carne marcia topolini / ecco i veri tortellini / sono buoni sono tanti / tortellini Fioravanti”. Un capolavoro di stupidera da scuola elementare, non trovate? Il secondo esempio è meno elaborato e, per questo, senza dubbio più efficace e gioca sull’assonanza dell’ultima rima: “le stelle sono tante, milioni di milioni” e poi, al posto della chiusura con la brand awareness, come si dice oggi, si cantava “non rompermi i coglioni” e lì ci si piegava in due dalle risate, e scusate se eravamo così semplici, una volta.

Ora, da qualche tempo, alla tv girano alcuni nuovi spot della Negroni in cui il celebre jingle è stato re-interpretato in chiave soul-acid-lounge-jazz o qualcosa del genere addirittura dalla cavernosa e alquanto sexy voce di Mario Biondi, non so se vi è capitato di vederne uno:

Io l’ho notato solo ieri sera per la prima volta, e ho pensato che forse per che una canzone così vittima di una delle parodie più note della storia dell’advertising di tutti i tempi, non so quanto sia valsa la pena farne un remix in salsa suadente per di più come colonna sonora di affettati e cubetti per la carbonara. Resta il fatto che, se avessi i soldi, ingaggerei Mario Biondi per farne una versione con il finale quello più noto, quello che ci canticchiamo ancora tutti quando vorremmo dire a qualcuno di non romperci i coglioni. E chissà se Mario Biondi, registrando il jingle, non ci abbia pensato sul serio e, questa variante, non esista per davvero.

la realtà è più amara di quella che si vede negli spot

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Ma voi avete capito che cosa vogliono venderci quelli della Jagermeister – oltre a qualche bottiglia di Jagermeister – con quello spot completamente fuori target? E se vi siete mai ubriacati di Jagermeister sapete cosa intendo. Il gap culturale tra chi lavora nelle agenzie di comunicazione con chi si occupa di marketing dentro le aziende è sempre più ampio, il tutto a vantaggio delle agenzie di comunicazione che riescono a vendere alle aziende non tanto delle bocce di Jagermeister quanto cose che, quando a occuparsi di comunicazione nelle aziende c’era veramente gente che se ne capiva, nessuno avrebbe mai comprato.

Ora spiegatemi perché quelli della Jagermeister si sono fatti convincere che i giovani che amano l’elettronica vanno a ballare e – con quello che costano le consumazioni – si bevono uno shottino di Jagermeister per raggiungere l’estasi e diventare tutt’uno con il tutt’unz tunz. Chi è che ha fatto credere a quelli della Jagermeister che il target di un liquore a base di erba – ai tempi della maria depotenziata e legale – è la gente che si vede nel loro spot? Sicuramente un’agenzia di gente in gamba e, credetemi, io sto dalla parte dei pubblicitari. Intanto perché lo sono anch’io, poi perché in questa fase in cui siamo sull’orlo del baratro è bene tentare il tutto per tutto in un colpo solo, vendere l’invendibile ai clienti perché tanto chi se ne importa se la campagna piazzata non porterà a un fico secco e i clienti non ci chiameranno più (vi ricordate la Enel e i suoi #guerrieri?).

Il mondo potrebbe finire dopodomani e la notte più scura che tutti i ravers che si vedono nello spot Jagermeister chiedono a gran voce per continuare a dissetarsi ad libitum con lo Jagermeister (vi prego mandatemi le ricette che ci provo anch’io) e a sballarsi con lo Jagermeister (come dicevo sopra, se vi siete mai ubriacati di Jagermeister sapete cosa intendo) potrebbe davvero anche non lasciare mai più il posto all’aurora. Poi però capisci la grande illusione: libi un calice di Jagermeister, ripiombi nel buio ma, al massimo, digerisci la cena. Amici della Jagermeister, ma a chi volete darla a bere?

sentitevi liberi di respirare

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Le strade provinciali che, a raggiera, attraversano tutta la periferia e quei paesini satelliti di Milano per portarti dritto in centro sono costellate da elementi peculiari che è impossibile trovare altrove e che inducono a numerose riflessioni. Su tutte, qualche considerazione di carattere ecologico. Le celebri fermate della tramvia – quando c’è – e degli autobus sono frequentate quasi esclusivamente da stranieri, il che induce a pensare che chi non ha i soldi per permettersi un mezzo di trasporto privato alla fine rientra di diritto nella categoria delle persone più attente all’ambiente, anche se scommetto che trascorrere porzioni di ore sotto pensiline in pessimo stato quando piove metta alla prova chiunque, indipendentemente dalla nazionalità di origine e dal dibattito sullo ius soli.

Risulta difficile, comunque, associare queste arterie a tematiche ambientali per diversi motivi. Fatta eccezione per qualche rara finestra temporale, per il resto del giorno muoversi in auto lungo strade come queste è un’impresa logorante. Alla faccia della statistica che studia i flussi e i movimenti, in un senso e nell’altro c’è il rischio costante di rimanere imbottigliati e, a dirla tutta, malgrado transitino veicoli Euro-diecimila, l’atmosfera non è delle più adatte all’uomo. Ne ho una dietro casa dove passo ogni tanto quando vado a correre, per fortuna in orari in cui tutti sono ancora nel mondo dei sogni, e vi assicuro che è un piacere calpestare l’asfalto che per tutto il resto della settimana è alla mercé dei gas di scarico. Sarebbe bello mettere una telecamera sopra e fare un timelapse della fiumana incessante di traffico locale e di gente che va e torna per lavoro dalla metropoli per rendersi conto dell’effettivo danno che questa smania di evitare la calca sui mezzi pubblici di tutta questa gente sta recando al genere umano.

E proprio lungo una di queste arterie, quella che ho dietro casa – che poi dietro casa per modo dire eh, in mezzo c’è un bel parco che fa da polmone tra i miei, di polmoni, e quel popò di monossido di carbonio – c’è un’azienda che ha messo la sede lì da poco, a ridosso dei binari della tramvia che scorre a margine della strada e che i milanesi usano ben poco. Si tratta di un’azienda che fa prodotti medicali per agevolare la respirazione e già questo, di per sé, è un paradosso curioso. Io mi immagino queste aziende sulle Dolomiti, o anche ai margini di una pineta che dà sul mare, e non con vista sulle code dell’ora di punta. Ma c’è di più. Il motto di quest’azienda è un bel slogan in inglese che dice “feel free to breathe”, sentiti libero di respirare, nel senso probabilmente che se puoi scegliere puoi anche non farlo e, in certe ore del giorno, in effetti è proprio meglio di no.

l’elettronica che è il bene trionfa sempre sull’acustica che è il male

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Cresce in modo irreversibile il gap tra gli spot televisivi di chi ha il grano vs le pubblicità di chi non può che investire in agenzie di comunicazione low budget. Una volta le case farmaceutiche erano tra le più ricche, probabilmente la diffusione delle tecniche di cura fai da te a causa di Internet, il ritorno dei rimedi della nonna, la medicina alternativa e l’anti-vaccinismo stanno mettendo in ginocchio big pharma e i primi rami secchi a essere tagliati sono quelli del marketing.

Ma veniamo al nocciolo della questione. Tradizionalmente gli spot dei prodotti per farti stare meglio dovrebbero concludersi con la convinzione, da parte di chi guarda e soffre, che la cosa che gli presenti è in grado di risolvere il problema, per questo bisogna andarci piano. I malati cronici o passeggeri sono vulnerabili e distratti, quindi è bene andare al punto nel modo più diretto possibile. Ieri sera, per dire, mi è capitato di vedere in tv per la prima volta questo spot:

che a una visione superficiale può passare inosservato se non simpatico, ma sul quale invece vorrei, insieme a voi, dedicare qualche considerazione. Non capisco il nesso tra il batterista e il Tetris, innanzitutto. Poi il messaggio che mi arriva è che un batterista rockettaro lo associo al mal di testa mentre invece l’esposizione ai videogiochi – che è benzina sul fuoco per l’emicrania – no? O forse la dicotomia è tra gli strumenti acustici e quelli digitali, tra chi suda in sala prove sui tamburi e chi compone musica elettronica?

Per non parlare del finale: prendo il principio attivo che schiaccia la creatività e l’arte mentre il cervello mi si riempie di pixel scoloriti, peraltro, digitalizzando la mia testa quindi rendendola replicabile all’infinito e omologata. Il target dello spot vuol essere giovane, ma cari amici delle multinazionali ricordatevi che sul rock non si scherza e che musica e giochi arcade sono agli antipodi negli schieramenti in base ai gusti di noi giovani.

Vi lascio a una veloce considerazione anche sullo spot Apple Pay Unicredit:

Andate a 0:18. Questo spot non funzionerà mai con i potenziali clienti liguri. Si è mai visto infatti un ligure che si accinge a pagare qualcosa con il sorriso sulle labbra?

mille parole valgono di più di un’immagine

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La comunicazione si divide in due tipi: quella efficace e quella che invece no. Un fattore chiave che ha portato a questa dicotomia così manichea, passatemi il termine, è il budget o, meglio, quello che si dice da quasi dieci anni e cioè che i soldi sono finiti. In tempi in cui si tira la cinghia i primi rami secchi che si fanno fuori sono proprio quelli in cui la linfa del marketing non passa più. Allo stesso tempo i passaggi degli spot alla TV tradizionale, ai tempi dell’Internet e di Netflix, fatta eccezione per i mondiali o per Sanremo probabilmente te li tirano dietro, questo significa che con due lire ti fai il tuo carosello e lo piazzi in prima o seconda serata.

Dove un tempo c’erano cucine e caffettiere emblematiche del design italiano, laddove poi auto di lusso e telefonia hanno fatto terra bruciata per poi spostarsi su canali pubblicitari più redditizi, sono rimasti brand e relative pubblicità che in confronto quelle della Lidl sembrano le réclame d’autore dei tempi d’oro del boom economico.

D’altronde ai creativi si chiede di fare presto e di costare poco, conseguentemente i creativi rispondono picche perché sono tutti presi dal grano che si può fare sui socialcosi e ancora conseguentemente a fare la pubblicità in tv ci vanno le seconde o le terze linee. Non ci sono più i copy di una volta, anche se comunicare certe cose e certi prodotti non è sempre semplice. Per dire, ieri sera nell’ordine mi sono segnato due messaggi che definire imbarazzanti è poco. Nel primo spot si sente dire nella stessa frase, giuro: “Aperifresco, il nuovo modo di camosciare”, e oltre alle parole se osservate la qualità della recitazione degli attori vi renderete conto di quanto valore circoli nei pressi della televisione italiana:


Ma non è tutto. Poco dopo poi sono rimasto letteralmente scioccato da questo, in cui l’autore è stato pagato probabilmente con voucher stampato con l’inchiostro simpatico per aver in cambio un capolavoro di marketing come “non ne potevo più di fare la pipì così tante volte al giorno”. Ecco qui, giudicate un po’ voi:

In questo caso, oltre a copy e recitazione, vi prego di notare l’effetto chroma-key dello sfondo digitale incollato a cazzo dietro alle persone intervistate e “ritagliate” in questo modo elementare. D’altronde con un budget così nemmeno io ci avrei lavorato in post-produzione più di un paio d’ore.

demenzialità a costo zero

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Il digitale ha messo in discussione molte delle certezze su cui il mercato – in ogni ambito – si è sviluppato dalla rivoluzione industriale in poi. Senza tirare in ballo il luddismo applicato all’informatica, pensate a quante cose oggi diamo in pasto ai microchip anziché usare l’olio di gomito, con risultati in velocità e abbattimento del rischio dell’errore umano imparagonabili. Molti prodotti e servizi fisici o intellettuali che siano costano una sciocchezza o addirittura pretendiamo siano gratuiti perché la loro virtualizzazione li ha resi alla portata di tutti, di immediata realizzazione, riproducibili all’infinito, privi di consistenza materiale e, giustamente, svuotati del loro valore perché legati a un elemento di alimentazione energetica privati del quale puff, tornano a essere invisibili. Oggi il malessere che trovate in voi e nella gente con cui vi accompagnate deriva dalla inconsistenza di certi generi di prima necessità. Abituati al loro scarso valore, di conseguenza le cose materiali si sono dovute necessariamente adeguare a quelle immateriali per consentire margini di sopravvivenza di chi le fa, e l’impressione generale è che questa corsa al ribasso riguardi tutto, anche noi stessi, quello che pensiamo, il modo in cui ci esprimiamo, i sentimenti stessi che proviamo e di cui parliamo in Internet, i nostri corpi e la nostra salute, l’intelligenza, la politica poi non ne parliamo, persino pratiche come il sesso o lo sport. Tutto dura sempre di meno, è sempre più sottile ed è sempre meno coinvolgente perché le cose, per stupirci o anche solo interessarci o durare nel tempo devono volare altissimo ma solo a certi livelli, certi prezzi, un certo tenore di vita e un certo reddito è possibile emanciparsi dai bassifondi generali. I nuovi ricchi e i nuovi poveri sono sotto gli occhi di tutti, tutti i giorni. In questo quadro roseo e ottimista è facile immaginare le condizioni di tutto ciò che già prima dell’era digitale fermentava depositandosi nel fondo e nel sottobosco del nostro regno animale. Pensate alla stupidità, alla grossolanità, alla cialtronaggine, alla demenzialità, al qualunquismo e all’ignoranza di un tempo. Sarò di parte per questioni generazionali, ma mi sembra che comunque anche la bassa manovalanza del pensiero umano, prima di Internet e di Facebook, avesse una sua dignità. Non so. Oggi mi sembra che così pessimi, davvero, non lo siamo mai stati, questo da una parte e dall’altra, compreso il mezzo televisivo che trasmette il peggio in diretta e l’Internet che, appunto, lo fa arrivare persino nei più remoti interstizi della nostra società.

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non sono mai stato così sicuro

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Molta della fuffa che vi arriva nelle caselle di posta elettronica, se siete di manica larga nel lasciare in giro il vostro indirizzo oppure non vi fate troppi problemi a dare il vostro consenso per ricevere materiale promozionale, ha dietro sistemi sistemi automatici che vomitano spazzatura virtuale a pioggia nell’Internet che hanno, a loro volta, alle spalle persone come me e voi che comunque impartiscono ordini di questo tipo alle macchine e che hanno a loro volta dietro aziende che li pagano per farlo. Si tratta di un lavoro che ha ennemila diciture ma tutte riconducibili alla peste del duemila che è il Digital Marketing, settore di cui orgogliosamente faccio parte.

Da qualche tempo, però, visto che si sta diffondendo finalmente la consapevolezza che dall’Internet non si ricava il becco di un quattrino – essendo l’Internet la morte sua degli sfaccendati e gente al verde – il Digital Marketing che nasce (cosa che dicevo prima) come sistema automatizzato cerca di darsi un volto umano in modo da 1. evitare di essere indirizzato automaticamente nella posta indesiderata 2. attirare gli ultimi allocchi che ancora credono che sull’Internet ci sia gente disinteressata alle nostre carte di credito. Ecco perché oggi è tutta una gara a mettersi in mostra azzimati e tirati a lucido con lo storytelling, consigli apparentemente utili e contenuti in generale che prendono molto alla larga il vero scopo del Digital Marketing, ovvero convincerti a digitare il tuo numero di carta di credito nello spazio predisposto. Un intero sistema che ha sicuramente un aspetto nobile, quello di dare lavoro a gente come me, e che induce il mercato a pubblicare articoli sulla rana e la fava per risultare più credibili. Nice try, come si dice, ma, si sa, è facile sgamarli.

Il modo per evitare tutto questo è disiscriversi dalle newsletter, ma boh, io sono così pigro che non lo faccio mai ma poi sono contento di non farlo mai perché talvolta capitano delle chicche. Ieri, per esempio, ho ricevuto una comunicazione dal sito 6sicuro.it, a cui mi sono iscritto credo per stipulare un’assicurazione per la mia auto, tempo fa. La newsletter contiene un articolo il cui titolo è piuttosto esplicito: “Niente multa se non ricordi chi guidava” (lo trovate qui). Ora la colpa non è certo del socialmediacoso se, probabilmente, in Italia è tutto un proliferare di stratagemmi per fare il cazzo che ci pare. Ma, leggendo l’articolo in questione, mi sono chiesto se questa smania di fottere qualsiasi regola sia solo un’eccellenza tutta nostra oppure un’attitudine ovunque condivisa. E pensate anche a quante risorse, energie, estro e creatività impieghiamo quotidianamente per tirarci fuori dai guai quando sarebbe così semplice non cacciarcisi dentro. Capita a tutti, per carità, di essere vittima di un’ingiustizia o di trovarsi al centro di un complotto. Credo però che il modo più efficace per non prendere una multa sia quello di rispettare il codice della strada. Rallentare quando ci sono i limiti, parcheggiare dove è consentito, fermarsi se c’è rosso, e così via. E se scrivessi su un blog che tratta di questi temi, dovendo postare un articolo in merito, un rimando a questa legge non scritta lo includerei, anche solo per guadagnarmi un po’ di credibilità.