tiriamo in ballo le madri

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Vi ricordate lo spot della mamma che trovava il modo di lavare alla perfezione senza guastare i colori la maglietta del festival rock di Brighton al figlio-bamboccione appena rientrato dalla vacanza-studio in UK? Pubblicizzava non so quale detersivo e il fatto che gli adulti collaborativi degli anni ottanta e novanta avrebbero dato la vita per la nostra emancipazione, purché accompagnata dal loro modello vincente.

Oggi le dinamiche genitori-ragazzi sono diverse perché i millennials hanno un mondo tutto per sé (che noi matusa abbiamo pagato a suon di soldoni in psicologi bravi) che è così distante da quello degli adulti che ogni punto di contatto generazionale li mette in imbarazzo, roba che, in confronto, l’idea che si erano fatti dei punk i professoroni che hanno fatto la Resistenza e costruito l’Italia in cui ci permettiamo l’esistenza di feccia come le fogne di Casapound è un formale stallo comunicativo.

Una dicotomia che si evince dal modo in cui si rappresentano a compartimenti stagni i target dei prodotti: tra grandi e piccini, categorie entrambe prese a pre e post-adolescentizzarsi, non ci dev’essere alcuna mescolanza, se non generando imbarazzo e conflitti.

Per farvi un esempio, mia figlia non perde occasione per rimarcare il disagio che le creano le madri co-protagoniste degli spot che tentano un contatto generazionale con i figli attraverso l’idea che gli adulti di oggi hanno del ballo contemporaneo. Il risultato è che, pur danzatrici provette, si appropriano di un modello culturale che non appartiene a loro. Gli spot in questione sono il Kinder Merendero

e quello della Fanta

Nell’ideale pubblicitario la presenza delle madri nella vita dei figli dovrebbe limitarsi ad insegnare cose buffe come il passo del pinguino alle fasce pre-scolarizzate, non trovate?

scopamica chips

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L’impiego di Rocco Siffredi negli spot mi ha sempre suscitato un po’ di fastidio. Non credo ci siano mestieri di serie A o di serie B e vi assicuro che nutro il massimo rispetto per il suo. Il problema semmai è che ai tempi del #metoo e dell’attenzione sulle molestie i doppi sensi hanno rotto il cazzo. Pensate che è solo di qualche giorno fa la notizia della rimozione da parte della Pixar del blooper presente in coda a Toy Story 2 in cui si vedeva Stinky Pete muovere avance a due Barbie aspiranti attrici nel segreto della sua scatola. Questo per dire che la percezione del connubio superdotato (peraltro piuttosto attempato) + patata oggi è qualcosa di già visto e stra-visto e che l’abbinamento sesso con cibo non convince granché: semmai prima si tromba, dopo si mangia. La variante, nello spot in rotazione in questi giorni, è la scena in cui l’attore spalanca platealmente la confezione di patatine come una vulva e ne gusta il contenuto, fino alla battuta finale “Sempre dritto… il pacchetto”, la prova del fatto che oggi vanno di moda i copy da caserma. Chissà, un giorno nella pubblicità potremo davvero parlare con i rutti.

il senso del freddo

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Lo spot della granita Sensofreddo Dolfin è un bell’esempio di finto plagio musicale fatto bene per scopi pubblicitari. Il jingle infatti ricalca fortissimamente “Ma che freddo fa” di Nada – anzi, di Migliacci e Mattone – soprattutto nel riff di chitarra con il tremolo che al momento opportuno, proprio per non cadere nel vero plagio, sguscia via in accordi agli antipodi di quelli del pezzo a cui si ispira in barba ai parametri della SIAE. Il risultato è perfetto? Potrebbe esserlo, se non fosse per la chiusura che è una testata in mezzo alla fronte della metrica. Il verso “Ma che freddo (pausa) fa” viene sostituito da “Voglio un senso (pausa) freddo” che riporta alla ribalta l’annoso problema delle parole tronche che avevamo già trattato con il “Passo del Pinguì”: perché sostituire la monosillabica “fa” con le due sillabe di “freddo”? Io avrei reso con il verso “che senso freddo dà”, nominando così il prodotto.

la madre dei cantanti delle tribute band, per non rimanere sempre incinta, impone l’uso del preservativo

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Se come me avete letto che torna alla ribalta la storica marca italiana Hatù produttrice di preservativi sappiate che non ci sono conferme ufficiali. Non si sa neppure se sia vero o no che l’azienda bolognese stia lavorando a uno spot contenente una parodia di un successo di Raffaella Carrà reso per ovvi scopi pubblicitari con un efficace “A far l’amore cominciHATÙ”, canzone della quale avrebbero persino acquistato i diritti. In giro non si vede né si sente nulla, quindi drizziamo le antenne per captare qualche novità in merito. Sembra invece completamente priva di fondamento la notizia secondo cui Ligabue avrebbe vietato la costituzione di tribute band a suo nome, epidemia endemica contagiosissima che fiacca oramai da decenni non tanto l’industria musicale quanto l’estro compositivo e creativo dei giovani e meno giovani musicisti italiani. Proprio questa sera, giù al parco, si è tenuta un’esibizione di una band dal nome inequivocabile dedicata al rocker di Correggio, almeno fino alla provvidenziale grandinata che ha interrotto lo spettacolo e – nel dubbio – evitato l’azione legale da parte del cantautore, sempre la voce sia veritiera.

i frutti della democrazia diretta

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Non è detto che una comunicazione efficace o una pubblicità di successo siano nel lungo periodo producenti per un brand. Pensate a tutti quei prodotti che, ad anni di distanza, restano indissolubilmente legati agli slogan che ne hanno connotato il successo. Il problema è le cose cambiano e un linguaggio valido trent’anni fa oggi può risultare deleterio o anche solo distante da nuovi valori, visioni evolute, urgenze differenti. “L’uomo del monte ha detto sì” è stato un tormentone dei caroselli degli anni ottanta. Il messaggio trasmetteva l’azienda padronale, il business a conduzione familiare e un modello di capitalismo coloniale in cui il signor padrone dalle belle braghe bianche si recava puntualmente sul posto per dare l’ok a procedere. Niente deleghe, niente riporti, nessun organigramma. L’uomo del monte era l’unico comandante, la posizione apicale che non ammette consiglieri. Era il periodo in cui si perdonava a Craxi un certo individualismo decisionale e certe scelte impopolari ma solo a fin di bene, il bene di tutti. Non si poteva quindi non condividere uno storytelling verticale, dall’alto verso il basso, dal dirigente al sottoposto. Il bello e il cattivo tempo in barba al capitale umano.

Ma l’uomo del monte ha detto sì è piaciuto così tanto che poi ha permeato lo slang degli italiani, come succede quando gli spot sono fatti bene e i guru della comunicazione commerciale raggiungono il loro obiettivo. Oggi si direbbe che è diventato un meme. Tanto che, per chi si è nutrito di televisione negli anni ottanta, ancora oggi, se occorre trovare un modo per dare l’assenso a una qualsiasi cosa, si tira in ballo l’uomo del monte e la sua autorevolezza. Il problema è, come dicevo prima, che i tempi sono cambiati. Oggi va di moda la collaborazione. Per giustificare gli stipendi inadeguati si fa credere a chi lavora di essere un tassello imprescindibile per l’azienda. Ma, soprattutto, è la gente che crede di poter decidere – sui social e non – che cosa va e cosa è da cambiare. Qualche giorno fa, seguendo una finale di volley, mi è capitato di leggere, su uno di quei cartelloni posizionati a bordocampo e che cambiano ogni tot secondi la comunicazione pubblicitaria, la frase “tutti hanno detto sì”, e – ma potrei sbagliarmi – mi è sembrato proprio di vedere lo slogan affiancato al logo Del Monte. Ho pensato così che la Del Monte ha fatto centro una seconda volta, riuscendo a trasformare una visione radicata nella cultura popolare in un nuovo approccio verso i consumatori. I frutti della democrazia diretta sono anche questi. Non è più l’uomo del monte a scegliere, ora tocca a noi dire di sì. Non ne siete convinti? Allora inizio io: sì.

non girare la pagina finché non ti sarà detto di farlo

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Immaginate di essere uno studente di quinta primaria, di quelli con un programma personalizzato. Vi portano in un’aula con tanti computer. Vi fanno sedere a una postazione. Vi fanno indossare un paio di cuffie isolanti. Vi mettono in mano il fascicolo delle prove INVALSI di inglese. Un insegnante vi dice di fare doppio click su un file dal nome strano che trovate sul desktop. Si apre il player di sistema, o per i più lungimiranti VLC, e nelle cuffie si diffonde una voce femminile e robotica con una dizione discutibile, le o tutte aperte, qualche inflessione dialettale, che riporta quanto trascritto fedelmente qui sotto.

Rilevazione degli apprendimenti. Anno scolastico 2018-2019. Prova di inglese. Scuola primaria. Classe quinta. Fascicolo cinque.

Gentile studente, desideriamo informarti che i dati relativi alla prova che stai per svolgere sono raccolti per le finalità stabilite da una legge nazionale, decreto legislativo numero sessantadue del tredici aprile duemila e diciassette. La finalità è quella di rilevare il livello di apprendimento conseguito nelle materie di italiano, matematica ed inglese da parte degli studenti a livello nazionale. Questo compito è stato affidato all’INVALSI, che tratterà i tuoi dati nel rispetto di quanto stabilito dalla normativa sulla protezione dei dati, regolamento UE numero duemila e sedici, seicento settantanove, detto anche GDPR. Puoi trovare tutte le informazioni sul trattamento dei tuoi dati sul sito dell’INVALSI, nella sezione privacy.

Istruzioni. La prova si compone di due parti. La prima parte è formata da cinque testi che dovrai leggere per poi rispondere alle domande che li seguono. Nella seconda parte dovrai ascoltare cinque brani in inglese e rispondere alle domande che troverai nel fascicolo. Le istruzioni, prima di ogni domanda, ti diranno come rispondere. Leggile dunque con molta attenzione. La prima domanda è sempre un esempio. Se ti accorgi di aver sbagliato puoi correggere. In alcuni casi puoi barrare con una riga la risposta sbagliata e riscrivere quella che ritieni corretta, come negli esempi seguenti. Esempio zero effe. Q uno d, q due b, q tre a, q quattro b, corretto con c, q5 e. Esempio zero. Where is Mary from? New York. Q uno. What does Mary have for breakfast? Milk and cereals. Q due. What is Mary’s favourite subject? Geography corretto con math. In caso di scelta tra quattro possibili risposte puoi scrivere no accanto alla risposta che ritieni sbagliata e mettere una crocetta su quella corretta, come negli esempi seguenti. Q uno. Frank is. A Judith’s son. B Judith’s father. C Judith’s brother. D Judith’s husband. Risposta d sbagliata. No. Risposta corretta a. A pencil case yes. B set square no. Sbagliata. No. Risposta corretta yes. C book yes. Per fare una prova, ora, rispondi a questa domanda. The first three months of the year are. (suonino) (suonino) March.

Per svolgere la prima parte della prova hai trenta minuti. Al termine della prima parte potrai riposarti e riprendere quando ti sarà detto di farlo. La seconda parte della prova durerà circa trenta minuti. Non girare la pagina finché non ti sarà detto di farlo.

piena di pallini

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La prima volta che la campagna pubblicitaria di “Acqua e sapone”, la catena di lavanderie Esselunga che nei megastore si affiancano ai supermercati, mi ha colpito è stata a causa del doppio senso nemmeno troppo sottile dell’headline “Fallo più spesso”. L’intenzione del copy di stimolare la componente femminile della coppia a godere con maggiore frequenza dei fine settimana di libertà facendo cose come organizzare scampagnate con i figli, darsi al jogging, acconsentire a cenette romantiche o a seguire i propri social facendo shopping affidando i propri panni zozzi alla lavanderia dell’Esselunga è stata superata dal primo livello di equivocità, intendendo il messaggio come un’esortazione a trombare di più perché trombare permette di apprezzare le cose belle della vita. La seconda volta, invece, ho inteso il triplo senso carpiato con avvitamento: dedicarsi alla ricerca di un membro maschile dal diametro superiore è alla base di tutte quelle attività di cui sopra. Un’accezione ancor meno sottile, sotto tutti i punti di vista.

Ma non dovete fraintendere. Con “Acqua e sapone” non c’è nulla di irrisolto. Non mi sono mica offeso quella volta in cui ho portato a lavare il mio (unico) giaccone invernale della Roy Rogers e la commessa, durante la fase di accettazione dell’indumento, ha fatto una specie di smorfia di disgusto per la mia condizione di povertà mista a sciatteria sottolineando quando il mio (unico) giaccone invernale fosse pieno di pallini. Non mi sono mica offeso e, uscendo, ho subito chiamato mia moglie per confrontarmi sul fatto che la commessa di una lavanderia, probabilmente abituata a ben altro valore degli indumenti dei quali è chiamata a prendersi cura, aveva dato un ulteriore scossone alla mia autostima facendomi precipitare verso uno stadio più profondo di depressione.

Comunque ieri, al momento del ritiro del mio (unico) giaccone invernale pieno di pallini ma, questa volta, pulito, mi sono preso una piccola rivincita personale. Un cliente grande e grosso e all’apparenza con vestiti molto più costosi e alla moda dei miei ha subito un trattamento simile riguardo a una trapunta sulla quale, la stessa commessa, ha trovato numerosi fili di lana tirati. Oltre alla coperta, l’uomo ha consegnato quattro pantaloni di una taglia spropositata, a giudicare dalla vita, e poi, al momento di registrare il tutto, ha dato alla commessa il suo cognome. Un cognome piuttosto semplice e comune che però, pur in assenza di rumori o musica di sottofondo, la commessa non ha afferrato. “Bonomini”, ha ripetuto spazientito il cliente.

La commessa, recidiva, ha chiesto lo spelling nel quale si è persa in diversi passaggi e, una volta completato, ha letto “Bonomini” con un’espressione sorpresa, quasi a sottolineare la facilità di quel cognome e con l’intento di trasferire al cliente l’intera responsabilità del fallimento della comunicazione precedente. La cosa si è ripetuta al contrario immediatamente dopo: la commessa ha messo al corrente l’uomo del totale di sedici euro e il signor Bonomini, forse per ripicca, si è fatto ripetere la cifra una seconda volta.

Ho riflettuto un po’ su quello che stava accadendo e poi ho pensato che sì, anch’io proverò a farlo più spesso. C’è sempre qualcosa da imparare quando si ritirano i propri indumenti puliti dalla lavanderia.

lo scemo del villaggio

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La campagna pubblicitaria “I villaggi nel mondo più italiani del mondo”, con il relativo spot televisivo di Veratour, comporta due chiavi di lettura. La seconda, che forse è la meno controproducente, punta sulla teoria secondo la quale gli italiani lo fanno meglio, qui riferito a quasi tutto: le mamme, la cucina, l’accoglienza, il calcio, uno storytelling in cui in Italia fortunatamente non ci casca più nessuno ma, nonostante ciò, si trova declinato nella maggior parte della comunicazione istituzionale e politica. Non a caso va a votare una percentuale ridicola degli aventi diritto e, se l’astensionismo è alle (cinque) stelle, quelli che insistono su registri come questi dovrebbero farsi qualche domanda. La grande bellezza, il made in Italy e il mascalzone latino sono finiti da un pezzo.

La prima, molto più vistosa e raccapricciante, fa riflettere sotto un altro aspetto e conferma un luogo comune a cui nessuno ha mai confessato di credere ma che, a quanto pare, vive e lotta insieme a noi e riguarda l’utenza dei villaggi turistici. Perché mai, pagando profumatamente per una vacanza fuori dai confini nazionali, dovrei cercare l’Italia anche all’estero, che già ne abbiamo i coglioni pieni qui? Immaginate che tristezza: parlare italiano dove tutti parlano almeno l’inglese, impiegare il tempo in vacanza giocando a calcetto come se fosse un sabato mattina qualunque con gli amici a Milano, in uno dei tanti club sportivi di periferia, trovare gli stessi accenti settentrionali o meridionali nel personale di servizio che ti fa l’occhietto come a dire “solo da noi si mangia così” presentandoti una cacio e pepe o la pizza (premesso che sono i miei piatti preferiti) mentre tutto intorno è un tripudio di chissà quali specialità del posto. L’approccio all’esportazione di questo sovranismo culturale e turistico, unito alla scarsa curiosità (sinonimo di carenza di desiderio di apprendere) verso le cose diverse dal quotidiano, con quel pizzico di presunzione di aver capito tutto della vita e l’idea che, a furia di programmi sul cibo, nel mondo abbia più valore un impiattamento piuttosto che il rispetto del prossimo, è un chiaro specchio della miseria sociale in cui ci siamo ridotti.

C’è bisogno di portarsi dietro anche il contesto, oltreché noi stessi, per visitare altri posti? Pensate invece come stona l’Italia sulle coste africane, ma anche nell’urbanistica delle città del nord Europa, in Patagonia, persino a Cuba, con il profumo della lavanda in Provenza, per non parlare dei colori che si trovano nei paesi arabi. La descrizione del video dice “Sarebbe bello trovare tutto il meglio dell’Italia anche in vacanza. Nei nostri villaggi Veraclub puoi: è come sentirsi a casa!”. Ecco: allora, piuttosto, me ne sto davvero a casa e continuo a guardare il mondo su Google Earth, per lo meno è gratis.

un completo sconosciuto proprio come rolling stone

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L’editoria alla frutta cerca giustamente sensazionalismi per raschiare il fondo del barile e cercare di non dissolversi nel nulla lasciando a casa tutti i lavoratori (che peraltro lavorano già da casa). Ogni occasione è buona per far scatenare l’Internet a favore o contro e raggranellare qualche manciata di click nella speranza che le concessionarie di pubblicità reali o virtuali possano giustificarne la proposta per gli spazi altrui. Non linkerò quindi l’inqualificabile articolo sull’8 marzo che la versione digitale di Rolling Stone Italia (quella cartacea è già morta e sepolta) ha pubblicato ieri. Dico solo che quello che separa il genere umano dalla bestia è intanto scrivere su Rolling Stone Italia e, secondariamente, anteporre la volontà e il buon senso all’istinto.

ti tenta tre volte tanto

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Se mi occupassi di marketing di prodotto e mi trovassi in un caso in cui in natura o in letteratura o in geografia o nella storia o in arte o in musica ci fossero cose, persone, luoghi, opere o altro che si chiamano allo stesso modo del prodotto che devo a vendere farei carte false per approfittarne. Pensate ai vantaggi involontari che ne deriverebbero. Per questo motivo è da sempre che mi chiedo perché, per esempio, con tutte le canzoni che parlano di festa o, meglio, di fiesta, alla spagnola, la Ford per la macchina o la Ferrero per l’immortale merendina al cioccolato non si siano mai dati da fare per unire le forze. Anzi, ci starebbe che la Ford Fiesta uscisse con un modello che richiama alla Fiesta Ferrero, ma qui già siamo nell’area di competenza della fanta-pubblicità.

Da un po’ di tempo, però, gira in tv lo spot della Fiesta – la merendina – accompagnato dalla celebre canzoncina “Fiesta” interpretata da Raffaella Carrà, che è una cosa che io spero che avvenga almeno dal 1977, anno di pubblicazione dell’album omonimo che contiene la canzone in questione. E mi sono sempre chiesto che bisogno ci fosse di comporre un jingle ad hoc, peraltro molto pervasivo (mi riferisco al motivetto di “Fiesta ti tenta tre volte tanto”) quando con i ritmi latini della più famosa soubrette nazionale la Ferrero avrebbe sicuramente raddoppiato i profitti.

Oggi finalmente il mio sogno si è avverato anche se, a dirla tutta, il massimo sarebbe uno spot in cui qualcuno mangia una Fiesta su una Ford Fiesta ascoltando “Fiesta” di Raffaella Carrà.