casalingo

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Non oso pensare a quale sia stata la perdita economica nel settore dell’abbigliamento dall’inizio della pandemia. Milioni di persone che, all’improvviso, non escono più di casa e per i quali rinnovare il guardaroba non è più una priorità. Non solo. Il rischio di contagio in spazi al chiuso presi d’assalto durante i saldi dai fanatici dello shopping fa apparire i negozi di vestiti e scarpe come luoghi tutt’altro che sicuri, in un momento di emergenza sanitaria. C’è da chiedersi che ne sarà dei miliardi di miliardi di indumenti e calzature messi in commercio nell’ultimo anno e rimasti invenduti. Mi riferisco soprattutto ai prodotti della fast fashion, settore in cui già il valore e la qualità erano considerati irrisori prima, a fronte di quantità esorbitanti di capi creati e distribuiti per una vendita al dettaglio capillare. Il punto è che in un mondo di gente che è costretta a stare in casa vestirsi bene è diventato secondario. Certo, persino certa psicologia da università della vita ha provato a convincerci che, sebbene in telelavoro, non dobbiamo abbruttirci e a non presentarci davanti al pc in camicia sopra e pigiama sotto lo facciamo per noi stessi. Io, fino a un certo punto, ho mantenuto un discreto decoro. Poi, complice l’estate, ho mollato un po’ i principi e ho ceduto alla comodità. Il fatto è che stare in casa con pantaloni e cintura non è proprio il massimo del confort. In definitiva, per quasi tutti noi la stagione invernale che stiamo vivendo l’abbiamo affrontata con lo stesso guardaroba di quella passata perché oramai è un anno esatto in cui le occasioni per sfoggiare la nostra eleganza sono pressoché nulle. Fanno bene le case di moda a pubblicizzare gli indumenti per stare in casa e a puntare su uno storytelling in cui, sdraiati sul divano a leggere o a guardare la tele, non si sta poi così male, e tutte le attività che prima svolgevamo fuori all’aperto in totale libertà ora siamo costretti a farle chiusi tra le mura domestiche. Chi non vorrebbe, infatti, tenersi in forma e rilassarsi in casa come (e con, perché no) la protagonista dello spot dei leggings Calzedonia?

venti minuti di musica senza interruzioni

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Virgin Radio è quella radio che trasmette la visione del rock che hanno i network commerciali e non c’è ogni coda di brano rock che non ci ricordi che siamo su Virgin Radio. Dopo ogni cazzo di canzone rock qualcuno ci ricorda che siamo su Virgin Radio. Il fatto è che su Virgin Radio trasmettono un programma che si chiama “Personal Giulia” che comprende un inserto dal titolo “Venti minuti di musica senza interruzioni”. Si tratta di una manciata di brani rock i cui titoli vengono presentati prima dell’inizio dell’inserto, uno dopo l’altro, con la consueta pronuncia iperinglese con cui passano il rock a Virgin Radio. Quindi mettono la prima canzone della lista. Alla fine della prima canzone ecco un’interruzione con un vocione da rock di Virgin Radio che dice “Personal Giulia, venti minuti di musica senza interruzioni” e poi mettono la seconda canzone della lista. Anche al termine della seconda canzone il flusso di venti minuti di musica senza interruzioni viene interrotto dalla voce rock di uno speaker di Virgin Radio che dice “Personal Giulia, venti minuti di musica senza interruzioni”. Poi c’è il terzo pezzo che però non sfuma nel quarto direttamente. La stessa voce di prima ci ricorda ancora che stiamo ascoltando “Personal Giulia, venti minuti di musica senza interruzioni”. Stessa cosa tra la quarta canzone e la quinta. Ora non so in venti minuti di musica senza interruzioni quanti brani musicali ci stanno. Resta il fatto che almeno una ventina di secondi sono occupati da tutte le volte in cui i venti minuti di musica senza interruzioni sono interrotti dalla voce che dice “Personal Giulia, venti minuti di musica senza interruzioni”. Insomma, non ho ancora capito se a Virgin Radio sono scemi o cosa.

lassatievi

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Se le più note composizioni per pianoforte di Satie risolvessero problemi di stitichezza a causa della loro inascoltabilità, il titolo di questo post sarebbe perfetto e spero abbiate colto il magistrale gioco di parole. Invece, da che mondo è mondo, le tre incantevoli “Gymnopédies”, rispettivamente n. 1 “Lent et douleureux” in Re maggiore, n. 2 “Lent et triste” in Do maggiore e n. 3 “Lent et grave” in La minore, sono usate in ambienti e contesti diversissimi tra di loro come musica da relax. La scuola italiana è piena di docenti che le mettono di sottofondo durante le ore di arte e immagine, mentre i bambini rovesciano bicchieri colmi d’acqua per pulire i pennelli sui banchi e in terra, nel bel mezzo di un disegno con le tempere o gli acquerelli. Oppure durante qualunque altra attività che necessiti di calma e concentrazione grazie a un approccio musicoterapico entry-level, da università della vita o, peggio, da gruppi Facebook di mamme scettiche sulla didattica tradizionale. Il fatto è che le tre incantevoli “Gymnopédies” – che adoro e che ogni volta che le ascolto mi viene da improvvisare un balletto da étoile del Balletto dell’Opera di Parigi – più che rilassare l’ascoltatore lo fanno addormentare. Anzi, faccio coming out: mi fanno crollare ovunque mi trovi. Sono la migliore ninna nanna sul mercato, altro che musica evocativa per artisti in erba. E finalmente ho trovato qualcuno che mi dà ragione: il nuovissimo spot di Sognid’oro Camomilla ha scelto proprio uno dei brani di Erik Satie come colonna sonora per il sonno a prima vista. Confermo. Mi bastano solo le prime note e improv

un’idea di futuro che mette ansia

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Il nuovo spot del Gruppo FS Italiane, firmato da Saatchi & Saatchi, mette insieme qualche scorcio di vita altrui alle prese con il viaggio di lavoro e di piacere in un’Italia che deve ancora venire ma che oggi non sembra così distante – coronavirus a parte – dal modo in cui è rappresentata. L’idea non è male ma il timbro vira eccessivamente sul cupo e ha quel sapore da Los Angeles distopica ai tempi della Tyrell e dei replicanti Nexus 6 che può liberare in avanti l’immaginario collettivo ma rischia anche di imbrigliarlo nell’ansia, in un momento non privo di incertezze come questo. Il punto è: se devi far sognare gli spettatori gettando il cuore oltre l’ostacolo, oltre l’ostacolo gli devi offrire sicurezza e stabilità attraverso attori che ti prendano per mano e ti introducano al domani, in un ambiente rasserenante. Nello storytelling del Gruppo FS Italiane ci sono solo smart city, boschi verticali e lavoratori del terziario, come se i mestieri manuali e la gente che opera sul campo fosse davvero un’esclusiva dei balli di gruppo con il casco anti-infortunistico giallo, negli spot-musical cantati da Mina. Per le FS invece ci sono solo:
1. informatici che in ufficio non vedono mai la luce del giorno

2. ragazzini che si svegliano alle cinque del mattino per andare al lavoro

3. astronavi nello spazio (scuro) messe a cazzo nella sceneggiatura

4. la solita clip di I-Stock con un ingegnere che usa l’obiettivo della telecamera come se fosse un tablet sprigionando dati inesistenti in natura, anche questa al buio

5. una donna che parte per una trasferta di lavoro prima che faccia luce e che, dall’espressione, si vede che vorrebbe essere ancora sotto le coperte

6. il transito ad alta velocità in galleria

7. il transito ad alta velocità in esterno, rigorosamente in città e di notte

8. una giovane donna in un ambiente chiuso e senza finestre che dall’espressione del viso non sembra molto contenta del lavoro che fa

9. uno studente in una scuola che ha le pareti dei corridoi ricoperte da schermi che raffigurano dati a cazzo, al posto delle finestre, e che non sembra molto contento di trovarsi lì

10. una giovane donna con un sorriso di circostanza chiusa nella sala d’aspetto della stazione e circondata da una realtà aumentata di dati a cazzo e informazioni su arrivi e partenze senza nemmeno un minuto di ritardo

11. e finalmente una famigliola che guarda meravigliata, dalla vetrata di una stazione sopraelevata inesistente di Milano, una Milano altrettanto di fantasia, ma che – malgrado ci sia uno scorcio esterno – risulta in perfetta linea con il mood claustrofobico del resto dello spot. Il padre sembra dire ai figli: “Guardate Milano, non ci arriveremo mai”.

Il bello di viaggiare in treno, a parte leggere, è godersi il paesaggio fuori dal finestrino quando c’è il sole. Attraversando l’Italia con il Frecciarossa da nord a sud, poi, il panorama non è male ed è quasi tutta campagna. Ma probabilmente chi ha deciso questo spot pensa che invece i viaggiatori trascorrano il tempo in treno a seguire, sullo smartphone, spot che prevedono un triste futuro alla Blade Runner. Non male, come idea, in un momento di pandemia globale.

ha fatto anche cose buone

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La pasta, per esempio.

Scherzo, eh. Sono tesserato ANPI da tempo immemorabile. Comunque, fasci a parte, non mi pare di averle mai viste al supermercato, e se si tratta di una trovata per far parlare di sé possiamo tirare in ballo il solito magna magna. Se si chiamano conchiglie, perché non chiamarle conchiglie? Possibile che a quelli della Molisana non gli sia venuto in mente? Vabbè, mentre la questione si sgonfia – tanto quanto quella su Grease – vado a farmi una partita a calcio balilla.

se fossi ricco pagherei un bambino stonato per cantarla così

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Una lettrice mi scrive “potete cambiare il modo in cui canta il bambino, non si può sentire!”, riferendosi al nuovo spot della Negroni. Il celebre jingle delle stelle che sono tante milioni di milioni è stato prima interpretato in chiave soul-acid-lounge-jazz o qualcosa del genere addirittura dalla cavernosa e alquanto sexy voce di Mario Biondi (ne ho scritto qui), quindi dalla raucedine senza speranza di Noemi (ne ho scritto invece qui).

Mi ero perso, perdonatemi, la versione “Descrizione di un attimo” con il timbro di Zampaglione, che potete vedere qui


perché mi sono purtroppo concentrato sull’ultimo spot, quello del bambino stonato, che fa tanta tenerezza ma anche accapponare la pelle, sentite qui:

Malgrado questo incidente di percorso, spero che la Negroni continui così e mi aspetto non certo Mina, tutta presa da ben altri budget e da storytelling di tutt’altro genere, ma Vasco Rossi, i Me contro te e – perché no – i Cure. Ve lo immaginate Robert Smith vestito di nero con il rossetto sbavato che estrae il culatello dalla vaschetta di plastica?

E infine, cara lettrice che mi scrivi se posso “cambiare il modo in cui canta il bambino, non si può sentire”, ti ringrazio per aver pensato che questo blog sia la stanza dei bottoni della pubblicità nazionale. Sappi che hai preso un granchio. Io conto meno che il due di coppe quando è briscola bastoni, anche se non so cosa voglia dire perché non gioco a carte e ho trovato il motto googlando sull’Internet.

il bene trionfa sempre sul male

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Poco fa mi sono accorto che la Kinder ha finalmente liberato lo spot del suo Pinguì dalla poco convincente cover in italiano di “Walk Like an Egyptian” delle Bangles, campagna pubblicitaria di cui avevamo parlato qui. Forse i creativi e l’azienda stessa pensavano che l’idea diventasse un tormentone, un po’ come il jingle di si con riso senza lattosio. In realtà non ha mai convinto molto i ragazzi degli anni 80, che sono consumatori forti di oggi, altrimenti non si spiegherebbe un capovolgimento di fronte così clamoroso. O, forse, è scaduto l’acquisto dei diritti della canzone. Ora si vede la mamma e i bambini alle prese ancora la danza propiziatoria della merendina confezionata ma, della canzone, non c’è più traccia. Il lockdown non sarà la stessa cosa, senza quella metrica così spregiudicata e quella proposta così ossessiva.

tre volantini a Ebbing, Missouri

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L’efficacia dei volantini posizionati sotto i tergicristalli a forma di multa, che vorrebbero essere simpatici ma non lo sono, è superata solo dal volantino che ho trovato oggi sulla mia auto e che pubblicizza un servizio di distribuzione volantini. Non ho idea dei costi di una campagna del genere, tra stampa e distribuzione, ma se fossi nell’ideatore non punterei molto sulla percentuale di proprietari di mezzi non commerciali che ha bisogno di pubblicizzare un servizio o un prodotto attraverso la distribuzione di volantini. Immaginate uno spot alla tv in cui uno studio di produzione video o un’agenzia di comunicazione fa la réclame agli spot come leva per aumentare i profitti di un’azienda. “Qui oggi vedi noi”, ci immaginiamo il direttore creativo seduto sulla scrivania di un open-space con dietro qualche decina di precari tra grafici e copy che smanettano sui loro Mac, “ma domani potrebbe esserci il tuo video fatto dalla nostra agenzia. Chiamaci senza impegno”. D’altronde le nostre strade sono piene di cartelli su cui qualcuno ha stampato slogan del tipo “questo spazio potrebbe essere tuo”. A me viene in mente Frances McDormand, che è una delle mie attrici preferite in un film che ho amato moltissimo, mentre noleggia i tre manifesti di Ebbing per sollecitare le indagini sull’assassinio della figlia, un uso personale di uno spazio pubblico che raggiunge l’obiettivo di fare incazzare uno sceriffo nel giro di una mezza giornata. Così ho pensato di stampare un solo volantino che pubblicizzi la vendita della mia macchina e di imbucarlo nella cassetta della posta di quelli che stanno cercando nuovi clienti per il loro marketing da strada distribuendo volantini che pubblicizzano la distribuzione volantini. Ecco, ora mi gira la testa. Un target più profilato di così non mi capiterà una seconda volta, nella vita.

due cuori un account Prime

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Sapete come funziona nella pubblicità alla tv. C’è una campagna iniziale con la massima copertura in cui uno spot viene diffuso nella sua interezza e poi, quando risulta assimilato dal pubblico, se ne pubblica una versione ridotta perché la sua messa in onda costa meno ma tanto, una volta che il messaggio è stato colto, è sufficiente un richiamo proprio come se si trattasse di un vaccino. Il fatto è che dello spot della Wind dei genitori separati che si contendono il figlio a colpi di serie preferite su Amazon Prime io ho visto solo la versione già tagliata e non capivo se, appunto, si trattasse di una sorta di Cramer contro Cramer versione on demand oppure, semplicemente, il padre fosse in trasferta lavorativa da qualche parte e per ridurre la lontananza con il figlio accettasse una sessione a distanza di binge watching per mantenere vivo il rapporto. Avevo qualche dubbio perché la madre dietro che si fa i fatti suoi ma con un sorriso compiacente non me la raccontava giusta. Così ho cercato su Youtube e quando ho scoperto che invece la storia era ambientata in una famiglia spaccata a metà ci sono rimasto un po’ male. D’altronde anche coppie separate e genitori divorziati fanno target e vanno accontentati, basta con la narrazione della famiglia del mulino bianco. Io però non riesco a nascondere la delusione e per farmi perdonare metto lo spot anche qui, così la prossima volta imparo a comportarmi da tradizionalista.

molto sicuro

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Da quando sono stati acquisiti dalla Procter&Gamble, gli assorbenti Lines probabilmente nei paesi anglofoni si pronunciano “laɪns”. Se qualcuno in UK ha un supermercato sotto casa, gli spiace controllare per cortesia? Noi non ci facciamo problemi a dire Colgate così com’è scritto, ma immagino che il corretto modo per riferirsi alla multinazionale statunitense, omonima del noto dentifricio, sia “colgeɪt”. POi si scopre che in Spagna colgar significa impiccare e il gioco è fatto. Questo è il rovescio della medaglia della globalizzazione. L’esperanto come lingua universale è un esperimento a dir poco fallito e la mia idea di parlare tutti in tutto il mondo fluentemente inglese non è ancora stata approvata anche se ci sarebbero vantaggi sotto molti aspetti, a partire da un abbattimento della produzione di letteratura italiana di serie b come questo blog. Ma converrete con me che trovare un nome di un prodotto o di brand in grado di mantenere lo stesso significato ovunque è una sfida non da poco. Al momento, però, dovete ammettere che la conoscenza dell’inglese è quello che a grandi linee ci accomuna tutti. Per questo i sistemi di allarme Verisure io li avrei direttamente chiamati VerySure, inutile che vi dica la traduzione. Comunque quelli della Verisure hanno uno spot che lascia un po’ di amarezza. Un uomo subisce un furto in casa e così chiama la Verisure per farsi installare un sistema di allarme. Il messaggio è chiaro: l’avesse installato prima non sarebbe lì a rimediare al danno. Questa è l’espressione quando chiami sapendo che non si può tornare indietro nel tempo, senza contare che non è che i ladri tornano il giorno dopo a svaligiare l’appartamento in cui già sono stati la sera prima:

e questa invece è l’espressione che fai quando ti dicono che arrivano subito a installare l’antifurto.

Il cliente è soddisfatto. Molto soddisfatto. Troppo soddisfatto. Nemmeno se gli avessero detto che, anziché l’allarme, gli riportano in casa la refurtiva. Forse invece è proprio così. Chiami un call center dove ti risponde una donna angelica che ti assicura che si può tornare indietro nel tempo, cambiare il destino e correggere gli errori fatali. Io, nel dubbio, ho messo serramenti rinforzati. Se avessi un antifurto e si attivasse nel cuore della notte, probabilmente mi verrebbe un infarto.