Per dare un contentino agli individui che soffrono di esuberanza di personalità e che stanno stretti nelle regole, nella tecnica, nelle linee guida e nell’esecuzione degli ordini, la società moderna si è inventata intanto quel tipo di solidarietà grazie al quale organizzazioni pubbliche e private non battono ciglio a sobbarcarsi sulle proprie spalle certi costi fissi – a cui magari uno rinuncerebbe pure – di gente che altrimenti (e questo avveniva in civiltà primitive, prendete ad esempio quegli illuminati di Sparta o anche alcuni regimi di matrice totalitaria) morirebbe di fame. In seconda battuta sono stati istituzionalizzati i cosiddetti lavori creativi, quelli in cui è ammesso che uno ci metta del suo nei processi e soprattutto nel modo di fare le cose. Siamo tutti d’accordo che nel compilare le fatture c’è ben poco da menare il torrone, come direbbe mia suocera. In altri contesti però il creativo porta in ufficio alcuni aspetti della sua vita privata, come la personalità, e la mette al servizio dell’imprenditoria. La creatività non si impara a scuola. Ci sono certi corsi di studi che ti insegnano la storia della creatività, le tecniche, le pratiche, le figure ispiratrici. Ma poi, conseguito un (inutile) diploma, il creativo è allo sbaraglio e se dentro di sé non ha davvero quello strumento che spruzza la cosa giusta al momento giusto in grado di fare la differenza, l’imprenditoria tornerà a investire nei ragionieri che sanno compilare le fatture e il creativo a godere dei benefici della solidarietà, un concetto esistente ai tempi dello stato sociale e oggi presente in certa letteratura fantasy o solo nel cinema italiano. Il creativo quindi mette se stesso nel lavoro che fa. Ciò significa – per farvi un esempio – che se il creativo è un appassionato di vinili, può proporre come gadget a conclusione di un’iniziativa di marketing un fac simile 33 giri a scopo pubblicitario. Se invece il creativo è un nazifascista che va ai raduni delle teste rasate può proporre una svastica in peltro con incisa in caratteri gotici una citazione da un libro di Michel Houellebecq come ricordo di un evento corporate. Ora, sta alle aziende scegliere quindi la matrice di personalità individuale della quale avvalersi, non so se mi seguite in questo ragionamento. Le riflessioni che vi propongo sono molteplici: quanto monetizzare poi cose come queste; se uno cambia organizzazione porta se stesso di là quindi la nuova organizzazione corre il rischio di esprimersi come la vecchia, un po’ come gli atleti che, lavorando con il proprio corpo, giocano nella nuova squadra come giocavano in quella precedente; infine, punto cruciale, se ha senso tutto ciò, se cioè la creatività invece debba essere come tutte le altre discipline una tecnica standard di trasformazione della materia prima e il creativo un manovale (con tutto il rispetto per i manovali) che si comporta come un saldatore qualunque.
comunicazzione
secondo me abbiamo perso il senso della misura a stare incollati qui sopra
StandardIeri mi sono imbattuto in un paio di articoli di un certo Giammaria Tammaro che non conosco, e questo è un mio limite anche se, voglio dire, mica si può conoscere tutto e tutti, fortemente critici sullo sketch di Crozza in cui ha messo alla berlina un altrettanto certo Frank Matano, e nemmeno lui so chi sia sempre per il teorema di cui sopra. Il paio di articoli a cui mi riferisco sono stati pubblicati sull’Espresso e su Wired Italia, che invece so che cosa sono. E già in questo incipit è facile cogliere il mio punto di vista e dove voglio andare a parare.
Frank Matano non l’avevo mai sentito nominare fino a venerdì scorso ma so che è, o meglio era, uno degli Youtuber più seguiti come quell’altro sub-umano il cui nick è Daniele Doesn’t Matter. Se siete abbastanza informati sul fenomeno in questione, tralascio ogni commento o giudizio perché il vostro silenzio assenso parla da sé. Il problema in questo caso riguarda in parte Crozza. Voglio dire, Crozza ha un obiettivo davvero complesso che è quello di far ridere sempre con qualunque cosa faccia. Vorrei vedere voi a reggere per due ore un one man show di quel tipo, per di più per anni e anni. Non sempre ci riesce, la satira è soggettiva il che significa che come tutte le proposte in ambito spettacolo può piacere o no. Potete cambiare canale. Potete farvi l’abbonamento a Sky, sai quante alternative a Crozza ci sono al venerdì sera. Ma direste mai che Crozza non è capace a fare satira? Se lo asserite, vi prego di lasciarmi qui il vostro contatto perché sicuramente siete persone di un certo livello e ho davvero tanto da imparare da voi.
Il punto infatti è un passaggio dell’articolo di Wired, in cui questo Giammaria Tammaro dice “Io, come altri, ho suggerito a Crozza di informarsi prima di fare un pezzo su Youtube Italia. Perché è importante, anche nella comicità, mantenere un certo livello di attendibilità.” Avete capito? Questo Giammaria Tammaro, un signor nessuno, dà dei consigli di satira a Crozza. In quel passaggio c’è tutto. Il mondo è impazzito, ma forse, come ho scritto nel titolo, secondo me abbiamo perso il senso della misura a stare incollati qui sopra.
così per spot
StandardOvunque mi giri vedo Federica Pellegrini che fa la pubblicità a qualcosa, e se ci aggiungete il fatto che assomiglia di brutto alla mia coach di attività motoria globale da qui alla vera e propria ossessione il passo è breve. E pensare che io ero convinto che carosello e tutti i suoi derivati avessero leggi rigide a partire dall’esclusività di un volto o una voce a un brand. Ernesto Calindri si dedicava solo al Cynar, come Giampiero Albertini non si accontentava mai e, in tempi più recenti, Nino Manfredi beveva solo quel caffè lì. Più lo mandava giù e più lo tirava su.
La punta di diamante del nostro nuoto la vedo invece alla tv che ha problemi di sistemarsi i capelli tra la piscina e le sfilate, poi si mangia i Pavesini quando non fa allenamento, fa il tifo per la più antica compagnia italiana per la fornitura di energia e come se non bastasse ha prestato il suo volto e un look dimesso a Miia, un marchio tecnologico tutto italiano. A me tutta questa leggerezza in fatto di endorsement commerciali disorienta e non poco, scusate ma come sapete sono un uomo del novecento. Federica Pellegrini, da che parte stai? Per chi batte il tuo cuore? A chi vorresti legare la tua dizione così approssimativa e schiava di un accento così scostante?
Al di là del fatto che lei è una super-campionessa e io no, il che rende ogni mia velleità ben al di là di ogni possibile finalizzazione, tutta questa sovraesposizione di Federica Pellegrini in ambito advertising mi ha fatto venire voglia di lanciare una sfida. C’è un’azienda tra di voi che accetta la scommessa di legare il proprio brand o un prodotto anche in end of life (mi va bene qualsiasi cosa) alla mia identità pubblica? Chiudete gli occhi e immaginate plus1gmt a bordo di un Volkswagen California della nuova linea che sta per essere distribuita in Italia, oppure me che assaggio il nuovo tipo di pizza surgelata della Buitoni, o mentre cammino con un bel paio di sneaker della Camper o addirittura che corro con le Asics Gel Pulse 7.
Vedreste plus1gmt testimonial della Tre (che con il contratto per mia figlia mia ha rifilato una bella sòla) oppure del detersivo per i piatti concentrato perfetto per sgrassare pentole e piatti di plastica in campeggio. Per non parlare di giradischi, impianti hi-fi, sintetizzatori e software di audio editing. Se volete farmi felice, però, non datemi il ruolo da protagonista nello spot della Akuel, non ne sarei all’altezza, piuttosto potrei pubblicizzare birra, tanta birra, e poi materassi, non avete idea di come mi piacerebbe essere mandato in onda mentre dormo comodo per otto ore di fila. Potrei prestare il mio volto anche a luoghi turistici per invogliare la gente a fare le vacanze lì ma con dei limiti: no viaggio in aereo, no utilizzo di mezzi privati in luoghi con guida a sinistra, no rischi di malattie con dissenteria. Se poi la vostra azienda cerca di puntare tutto sulla simpatia allora capito a fagiolo. Di sicuro sono più gioviale di Federica Pellegrini ma che ve lo dico a fare, sono io quello che deve accontentarmi della sua sosia che, vi ricordo, è la mia coach di attività motoria globale, un corso che mi occupa un’ora per due volte la settimana insieme a un’altra decina di carampane della mia età.
facciamo tutti un passo indietro, se non vi fidate comincio io
StandardSembra che i corsi di public speaking siano sempre più gremiti di gente che vuole imparare a esprimersi e a convincere il prossimo. Si tratta di un dato che non fatico a mettere in relazione con la felice dichiarazione di Umberto Eco riportata su La Stampa di ieri. Il nostro intellettuale preferito, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media”, ha scatenato un putiferio tra gli influencer più in voga sostenendo che “i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. La “triplete” è completata dai corsi di scrittura creativa e il self publishing, con cui un’orda di miserabili (capitanata dal sottoscritto) persegue illusorie velleità nel mondo dell’editoria e della narrativa.
Il problema è che non abbiamo un cazzo da dire e da dirci e quel poco che diciamo lo hanno già detto gli altri e quello che non hanno detto gli altri in realtà non interessa a nessuno. Imparare a mantenere l’interesse del prossimo non serve se non ci sono contenuti da trasferire, malgrado le slide a supporto. Sui social è evidente a tutti la deriva a cui il genere umano sta tendendo. Il resto riguarda lo scrittore o il poeta che vive nascosto in tutti noi e che la democratizzazione dei media ha ringalluzzito. E c’è un altro punto. Quando c’erano i soldi si parlava di persona e in diretta, senza tanti fronzoli. Ora che i soldi sono finiti ci spartiamo le briciole con la comunicazione in differita e frutto di anni di elucubrazioni di persone parcheggiate in università a studiarla, con l’aggiunta del popolo che sente di dover dire la sua anche quando non sa cosa dire.
Proprio ieri viaggiavo su un Frecciarossa del mattino, una di quelle mostruosità (in senso buono) tecnologiche popolate da lavoratori dei servizi che portano il loro know how su e giù per la penisola a 300km all’ora. Professionisti dalla posizione sempre in bilico che sfruttano questa parziale ubiquità raggiungendo nuovi mercati alla ricerca di nuove opportunità. L’impressione è che la crescente povertà che ci fa riempire la rete di contenuti come se non ci fosse un domani ora ci spinge a ripetere l’errore sugli spazi fisici, spostando noi stessi e un non si sa bene cosa tramite mezzi ultrarapidi e occupare i pochi vuoti rimasti. Una riflessione che mi ha mandato nel panico. Poi ho pensato che sarebbe ora anche di smettere di lavorare di fantasia. Quella specie di cloud cerebrale comune in cui finiscono tutte le cose a cui pensiamo nei tempi morti – come un viaggio sul Frecciarossa – sarà ormai anch’esso saturo, ma mi piace pensare che il frutto di tutti questi sforzi intellettuali si disperda nell’aria, come sarebbe bene evaporasse anche tutto il resto.
come ritardare l’orgasmo
StandardLa formula usata dai sedicenti “youtuber” è la stessa di noi che preferiamo perdere tempo a scrivere e correggere per poi pubblicare. Si dicono delle cose sperando che qualcuno abbia la pazienza di leggerle sino alla fine e si lasciano contenuti incustoditi alla mercé di un pubblico vasto quanto la popolazione mondiale. Come in ogni cosa ci sono gli autori interessanti e quelli no, ma la differenza tra un blog e un videoblog consiste nel mezzo che diventa il messaggio (chi l’ha detto?) e nel fatto che subentrano fattori di simpatia o il suo opposto tra chi parla e chi ascolta, come nella vita reale. Lo direste che io sono antipatico e repellente dalle cose che leggete qui? Non lo so ma spero di no, però se mi vedeste in faccia mentre dico queste cose qui ci sarebbe il linguaggio del corpo e quello del volto a influire sul vostro giudizio, insomma ci siamo capiti. Io che sono pieno di pregiudizi non ho un’opinione positiva di questi comunicati punto-multipunto perché, come per la televisione, si guasta l’intimità con l’utente finale. Ora lasciate perdere i contenuti, ma se leggete qualcosa è perché vi interessa e il dialogo silenzioso tra le parole scritte e la vostra comprensione costituisce una relazione senza confronti e qui, su Internet, il profumo della carta non c’entra. La tv, quindi il video on-line e di conseguenza i sedicenti “youtuber”, genera una forma di entertainment ormai consolidato con meccanismi e dinamiche difficili da scardinare anche se i nuovi linguaggi e le tecniche di post-produzione unite alla creatività dei video-maker continuano a innovare il settore. Tutto questo perché quando un padre e non necessariamente io ma diciamo un padre a caso sbircia involontariamente (e si sottolinea involontariamente) nella cronologia della figlia preadolescente e nota la visualizzazione di un video su youtube dal titolo “Come Ritardare L’Orgasmo” di un sedicente youtuber dal nome “Daniele doesn’t matter” è facile pensare che il padre finisca per temere il peggio e cioè che la figlia abbia visualizzato un video porno. Il problema è invece che poi, dopo un facile e veloce controllo (in teoria non dovrebbero esserci video porno su youtube) e constatato il livello di idiozia del video effettivamente visualizzato (peraltro insieme ad altre quattrocentomila persone e sì, avete letto bene), il padre verifica che, in effetti, un film porno sarebbe stato meno preoccupante.
educazione al pensiero positivo
StandardDare valore a quello che si è capaci di fare è una delle grandi sfide per accaparrarsi o spartirsi gli ultimi spiccioli rimasti nell’economia mondiale, ed è soprattutto aggiungendo lustro ai propri prodotti facendo credere che sono diversi dagli altri, che ci sono costati fatica e che sono nobilitati dal nostro estro, che talvolta riusciamo a ottenere molto di più di quello che ci spetta. Insomma, sembra che il marketing debba essere l’ultima cosa a esser spazzata via dalla crisi malgrado tutti si dicono pronti a stringere la cinghia partendo proprio da lì. Il marketing individuale non corre per nulla questo rischio perché è a costo zero e perché presunzione, boria, egocentrismo e esuberanza dell’ego, alla base del mettersi in evidenza a ogni costo, sono gratis e sempre disponibili in ampia abbondanza. Vediamo ogni giorno sul lavoro persone fare le stesse cose che facciamo noi, per esempio, ma comunicate meglio a colleghi e ai propri responsabili, ed è facile prevedere chi trarrà più vantaggi. D’altronde su questi aspetti per nulla superficiali e accessori c’è chi ha costruito un impero, e non venite a dirmi che se lavori nell’advertising come prima cosa devi essere in grado di promuovere te stesso. Io provo a farlo, per esempio, ma si vede lontano un miglio che non sono convinto di quello che faccio e ho appurato che gli altri sono molto più in gamba di me, e non solo in questo ambito, probabilmente lo sono su tutti i fronti e basta. D’altronde il mondo funziona così, il merito premia e fa volare in avanti le persone più brave di numerosissime caselle, in questo perpetuo gioco dell’oca che è la vita. Qualche giorno fa sono stati comparati due report sulle attività in corso tra me e una collega, si doveva individuare la risorsa più libera a cui affidare un lavoro rognoso, per non dire una rottura di coglioni incommensurabile. Io ho risposto dicendo che avevo dei testi da scrivere, la collega che aveva tonnellate di copy. Indovinate chi ha perso.
che faremo quando finiranno i nomi
StandardIl limite dell’informatica è l’univocità, nel senso che non ci possono essere due cose uguali a meno che una si chiami “fotodelmiogatto.jpg” e la sua copia “fotodelmiogatto copia.jpg”, appunto. Ora la questione non ve la sto a spiegare ma avete capito che cosa intendo. Lo stesso criterio va applicato all’Internet con la questione dei domini. Adesso non so come sia la normativa a proposito e quindi se uno occupasse il dominio www.fiat.it – Sergio sto facendo un esempio, senza rancore eh – perché è più sveglio e lesto dell’incaricato della Fiat, poi non è che la Fiat può avere un altro dominio www.fiat.it. Che, se proprio proprio vogliamo vedere, mi sembra un peccato. Basta mettere un accrocchio che quando uno digita www.fiat.it gli compaiono in una pagina tutti i risultati (“intendevi la nota fabbrica di automobili? Intendevi il sito di plus1gmt dedicato al congiuntivo del verbo latino fio?”), certo questo rallenta un po’ la ricerca ma del resto, diciamocelo, siamo sempre sull’Internet a cazzeggiare, che cosa saranno mai venti secondi in più per aggiungere un passaggio? Scompagina un po’ anche tutto quello che abbiamo inventato sugli algoritmi usati dai motori di ricerca, ma quelli di Google hanno abbastanza soldi per mettere a punto qualche modifica. E ancora, analogamente, la cosa vale per le caselle di posta. Esiste solo un indirizzo plus1gmt at gmail punto com, per dire, e chi arriva tardi male alloggia. Pensate che qualcuno si è accaparrato tutte le caselle di posta con titolocanzonedeiCure@gmail.com, dove con titolocanzonedeiCure intendo ovviamente un qualsiasi brano della band di Robert Smith. C’è qualche folle che nella smania di fare incetta di opportunità ci ha dato dentro togliendo spazio a chi magari poi di un indirizzo come 1015saturdaynight@gmail.com ne ha davvero bisogno, e c’è qualche altro folle come il sottoscritto che è andato a controllare.
Ora che avete afferrato il quadro, converrete con me che giorno dopo giorno è sempre più difficile trovare nomi, pensare titoli, costruire frasi ad effetto, cercare ragioni sociali appropriate per iniziative che siano ancora patrimonio intellettuale di qualcuno o qualcosa. Se fate quindi un lavoro come il mio e magari vi viene chiesto di trovare un bel nome per una campagna o un prodotto, ogni volta in cui viene in mente qualcosa è bene andare su Google e cercare se effettivamente è originale, se il dominio è libero e così via. Vi assicuro che è un bel casino, perché se in Internet ci sono svariati miliardi di utenti vuol dire che ci sono anche svariate centinaia di milioni di persone che caricano contenuti di ogni tipo, ed è pur vero che se magari trovate una cosa simile a quella a cui avete pensato voi pubblicata nel 2003 su un sito peruviano, potete permettervi di ricicciarla tanto difficilmente sarete sottoposti alla resa dei conti, ma malgrado ciò si tratta di un’impresa sempre più difficile. Questo per dire che per arrivare alla scelta di un nome un po’ meh come verybello probabilmente i creativi di Franceschini davvero avranno passato in rassegna tonnellate di idee tutte purtroppo già esistenti. So già che mi direte che una cosa come una vetrina culturale per l’Italia in occasione di Expo dovrebbe certo avere più dignità di qualunque altro progetto. Ma provateci voi a essere più fighi, o provate a convincere – per farvi un esempio – quelli che hanno occupato il dominio thegreatbeauty.it e lagrandebellezza.it (per sfruttare magari il film di Sorrentino a fini pubblicitari) per una roba che non c’entra un cazzo, o meglio centra ma si parla di prodotti di bellezza, ecco provate a convincerli a mettere a disposizione il loro spazio – sto facendo sempre un esempio, provate a farlo con qualsiasi altro nome occupato – per un’iniziativa più utile per la comunità e per il paese.
Verybello fa davvero verycagare, ma davvero i nomi sono quasi finiti tutti. Se vi serve plus1gmt per un’iniziativa per il bene comune, fatevi sotto. Ma so già che è un nome talmente brutto che non se lo prenderebbe nessuno.
seguirà: confronti PD da incubo
StandardNon so voi, ma io non mi sono ancora abituato a queste formule discutibili di politica spettacolo, che già ho il presentimento che anni di talk fatti in questo modo abbiano generato un effetto stalk sui cittadini. Ovvero che il sensazionalismo e la querelle (per non dire gli insulti) come agenda politica e relative sovraesposizioni catodiche e digitali non abbiano tenuto affatto l’elettore incollato all’urna elettorale. Anzi. Il mio quindi è in primis un pregiudizio estetico. Il fatto che un partito come il PD si presti a un’americanata come il confronto nello stesso luogo e con la stessa scenografia con cui ogni settimana si consuma X-Factor la dice lunga. Voglio dire, uno come Renzi fa i paginoni con foto alla Dolce&Gabbana su Vanity Fair e cerca voti tra i discepoli di Maria de Filippi – oltre che di Maria tout court – e allora dobbiamo ringraziare la direzione nazionale per non averlo organizzato su Canale 5 negli studi di Amici? Non so, e poi chiudo qui questa digressione introduttiva sul metodo, ma in un format così io mi aspetto di vedere Zeman, Trapattoni e Sacchi sul palco con sotto il giornalista di Sky Sport che fa domande sulla domenica appena conclusasi.
Metti anche il fatto che sembri normale che un momento importante come una tribuna politica sia trasmesso da una tv a pagamento, che è vero che lo spettacolo (ed è già indicativo anche che lo si possa annoverare tra gli spettacoli) lo si poteva seguire su Cielo ma io ad esempio Cielo non la prendo. Però, anche lì, ogni tanto dovremmo ricordarci di avere ben tre canali di stato.
Ma anche lasciando anche da parte tutti questi preamboli e facendo finta di nulla su quest’argomento un po’ bacchettone e trombone, mentre seguivo questa sorta di Rischiatutto del Partito Democratico, con quel Mike Bongiorno che leggeva domande sul futuro del nostro paese con lo stesso tono con cui si intimano ingredienti da utilizzare per il piatto della sfida culinaria finale o per motivare il perché uno come Morgan abbia scelto i Frankie goes to Hollywood piuttosto che un gruppo grunge, c’era quel testo in sovrimpressione che mi ricordava che di lì a poco sarebbe iniziato un “Cucine da incubo”, come se uno fosse lì a vedere Renzi, Cuperlo e Civati intenti nella promozione della loro candidatura come una qualsiasi parentesi da palinsesto, del tutto finalizzata alla fidelizzazione dello spettatore (privato) e non alla soddisfazione dell’elettore (pubblico).
Detto ciò, posso anche concludere con un giudizio sulla resa dei tre sfidanti che, come sapete, incarnano tre componenti diverse del partito che anche a questa tornata, e indipendentemente da chi vincerà le primarie, tornerò a votare. Conoscete bene la continuità col passato di Cuperlo, ed è un peccato perché potrebbe essere perfetto se non portasse con sé tutte le zavorre di cui il PD si deve liberare per tornare a essere appealing e proporre un nuovo modello di partito. Ciò, attenzione, è una prospettiva che mi fa rabbrividire, ma il mercato della politica impone i suoi trend, e se questo è il momento in cui per forza occorre cambiare stato e adattarsi alla società liquida per evitare di sparire dal parlamento, non ci sono alternative. Cuperlo stesso non se l’è cavata granché in un contenitore televisivo così orientato al punto della questione, i tempi dettati da una sceneggiatura votata alla rapidità, presto arriva al nocciolo che devo mandare la pubblicità altrimenti chiudiamo i battenti. Ma questo è ciò a cui siamo abituati. La sintesi che già ci insegnano a scuola con i test a risposta multipla, nella musica con brani editati della misura giusta per non essere tagliati dalla cialtronaggine degli speaker, su Internet con i cento e rotti caratteri. Per quanto riguarda i contenuti, invece, Cuperlo ha sfoggiato uno stile perfetto per sfondare ulteriormente su quei pochi che lo voterebbero comunque.
Renzi, lo sapete, mi sta sui coglioni come credo nessun altro esponente politico sulla scena del centrosinistra di tutti i tempi. Quasi più di Veltroni e Rutelli, per dire. Ho già scritto da qualche parte che la mia è una deformazione professionale, ché con gente come Renzi ho a che fare quotidianamente sul lavoro, individui che prendono tempo in ogni risposta gonfiando come prima reazione i loro sé con frasi di circostanza intanto per dire qualcosa, vedere come butta e poi decidere come agire. Quel modo di riempire gli spazi comunicativi sempre e comunque, la paura del silenzio, della riflessione, del vuoto interrelazionale che può essere occupato dall’interlocutore e, quindi, meglio comunque marcare il territorio con la propria personalità, che non si sa mai. E poi con la sua boria, davvero, Renzi ha rotto il cazzo da tempo, lui e il suo entourage di quel centro sinistra post-moderno che si è sviluppato nei rimasugli di tutto quello che, negli ultimi venti anni, ci ha lasciato il monopolio di Berlusconi. Renzi come novità a tutti i costi mi sembra davvero una scelta scellerata. A chi mi dice di votare Renzi perché vuole vincere, gli dico che con Renzi il PD è finito, quindi magari si vince stavolta ma poi non resterà più nulla.
Sono invece fan di Civati, sono fiero di sostenere il suo valore da tempo non sospetto, mi sembra davvero il candidato più adatto e colui che rispecchia al meglio l’anima che dovrebbe avere il Partito Democratico. Di intelligenza superiore e sopraffina, diretto nelle risposte e con le idee ben chiare su con chi e dove stare. L’unico che ha messo nel Pantheon il nuovo sindaco di New York, una figura che qui in Italia ce la possiamo dimenticare, non ha sparato programmi a cazzo come gli altri assogettandosi ai ritmi imposti dal format, non ha lasciato spazio a un comportamento da piazzista come il suo collega toscano, non ha ribadito ulteriormente il primato della politica che non esiste più, come Cuperlo. Pratico e arguto. E di sinistra. Perfetto, e c’è poco altro da aggiungere.
In tutto questo, ovviamente, uno spera che oltre ad aver messo il luce il proprio beniamino, lo spettacolo pre-elettorale che si è consumato ieri era sia riuscito a far vincere principalmente il Partito Democratico. Ecco, su questo nutro qualche dubbio. Le crepe già evidenti potrebbero portare a una spaccatura definitiva dopo le elezioni interne. Le candidature, questa volta, sono più divisive che mai. Forse proprio Civati, l’outsider che sta conquistando terreno rispetto alla partenza, è l’unico che potrebbe unire due anime così distanti come quella dell’ex margherita e quella dei vecchi e nuovi DS. Per il resto non so. Peccato che al voto delle primarie, questa volta, andrà così poca gente.
basta mezz’ora a farsi un nuovo amico
StandardC’è sempre qualcosa di peggio e questo è uno dei paradigmi che ci consentono di sopravvivere. C’è sempre qualcosa o qualcuno che segue a ruota qualcos’altro in un più o meno oggettivo metro di giudizio, e siamo sempre i primi a dire che è riduttivo ricaricarsi l’autostima guardando sotto ma poi lo facciamo tutti e allora forse non è poi così sbagliato. Mi sono trovato a criticare Fabio Fazio per il suo modo troppo remissivo di condurre le interviste che va bene con chi ti trovi a tuo agio, ma con mezze calzette maxi-squali del mini-calibro di Brunetta poi ti accorgi che della buona educazione in tv di Fazio ce n’è davvero bisogno. Non solo: a me viene spesso da prendermela con Renzi per il tipo di PD che incarna che non è certo il PD che intendo io e che vorrei. Poi però basta un’intervista di Lucia Annunziata a farmi prendere le sue parti – le sue di Matteo Fonzie Renzie, avete letto bene – contro quel tipo di giornalismo ignorante e superato la cui rottamazione sono pronto a sostenere.
i guerrieri, gente in bolletta
StandardSe traducete alla lettera il termine storytelling di cui oggi tutti ci riempiamo la bocca per giocarci gli ultimi stralci di credibilità e valore aggiunto del lavoro di chi, come me, opera nel campo della comunicazione, ne risulta un “raccontare storie” che in italiano, e ve ne sarete accorti pure voi, ha una venatura ambivalente e beffarda. Raccontare storie significa anche “dire balle”, il che in parte è vero. Raschiando il barile della comunicazione aziendale oggi i brand cercano sempre più di immedesimarsi nelle persone con quel tono che suona come un non lo faccio mica per venderti qualcosa, ma solo per confermarti che siamo fatti anche noi di persone in carne e ossa che ogni giorno ti preparano il dado o il risotto liofilizzato come te lo prepareremmo a casa, a proposito di carne e ossa.
Non solo. La gente comune oggi in Italia che ha delle storie da raccontare è quella con cui ci provano tutti, la scontata banalità del quotidiano, scontato da un punto di vista marketing, dell’arrivare a fine mese. Esempi ce ne sono a iosa di questi tempi. Ci sono anche le aziende che raccontano se stesse perché puntano sulle storie nel senso inglese del termine, cioè realtà dal volto umano che possano interessare i giornalisti, l’uditorio, il pubblico, i clienti, gli investitori eccetera. Poi ci sono le storie nel senso italiano, cioè le cose un po’ inventate o non del tutto vere, per non dire le bugie, che magari vengono confezionate e imbellettate con tutte le buone intenzioni o anche “solo” tra virgolette per aumentare i profitti, qui ci spingiamo nell’etica che fa a cazzotti con l’economia ma, come sapete, è un argomento antico quanto i sales manager.
Comunque, per farla breve, c’è questa campagna dei guerrieri dell’Enel che circola da un po’, ci sono gli spot alla tv che avrete visto tutti e c’è anche un sito Internet dove si possono inviare le proprie esperienze di guerrieri della modernità, un po’ come cantava Caparezza nella storia di “Luigi delle Bicocche“, non so se fa parte del vostro background culturale. Persone che, malgrado tutto, stringono i denti e vanno sempre avanti anche se sono alla frutta. Eroi, più che guerrieri. Si tratta di un’iniziativa pensata da una nota agenzia di pubblicità a cui è collegato un concorso per vincere una bici elettrica in cambio del racconto dell’esperienza di vita. Non so, è che a me che lavoro in pubblicità, le aziende che prendono le parti dei loro clienti risultano poco credibili, è come quando fai una domanda a una persona e non ascolti la risposta perché aspetti solo il momento di dire la tua, e in questo caso l’opinione dell’azienda è “bella storia, davvero, a proposito ho qui un contratto per una fornitura di energia che, visto che siamo entrati in sintonia, potresti firmare”.
Pensavo a tutto questo poco fa, mentre passavo di fronte a un negozietto che vedo ogni mattina venendo al lavoro, una specie di cartoleria ubicata fuori dai percorsi che portano alle scuole. Quindi, malgrado l’apertura in orari antelucani, c’è il padrone fuori dall’ingresso che spende il suo sorriso affinché mamme o ragazzini abbiano bisogno di una matita, una risma di fogli protocollo, una cartellina. Un guerriero a suo modo, perché già provato dalla concorrenza impari dei centri commerciali si deve scontrare anche con la difficoltà di intercettare clienti occasionali che possono aspettare la prossima spesa al centro commerciale per trovare matite, risme di protocolli e cartelline a meno.
Ma la storia nel senso inglese del termine legata a questa cartoleria è un’altra. In vetrina si vede un cartellone scritto a mano in cui sono comunicati numerosi servizi aggiuntivi, oltre alla vendita di articoli scolastici, giochi e oggettistica per regali dell’ultimo momento come in occasione delle festicciole di compleanno a cui tuo figlio è invitato. Il negozio fornisce servizi di invio fax, fotocopie, persino ricerche in Internet e posta elettronica. Nel senso che se non hai un’e-mail, puoi andare lì e utilizzare la casella di posta della cartoleria. Cose d’altri tempi e che mi fanno tenerezza, chissà gli introiti che portano servizi come questi. Ma verrà il giorno in cui passerò di lì e troverò il negozio vuoto, un guerriero in più incazzato nero e una storia in meno da raccontare.