il burro di cacao, malgrado il nome, non lo puoi spalmare sul pane al posto della crema al cioccolato

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Il lato negativo della diffusione dei servizi di e-commerce non è tanto il proliferare degli spedizionieri con i loro furgoni in città abbandonati a se stessi con le quattro frecce in seconda fila o dinanzi ai passi carrabili, quanto il reggaeton che tracima impetuoso dai bassi dei loro sistemi hi-fi, imprescindibili per qualunque sudamericano alle prese con le consegne. Ho accompagnato mia figlia al solito posto in cui ci raduniamo per partire poi tutti insieme nei casi in cui si gioca in trasferta. Il furgone è fermo proprio in mezzo al parcheggio e quando si allontana portandosi via tutta il suo fervore caraibico lascia vulnerabile sull’altro lato il nucleo famigliare della ragazza più piccola della squadra alla sua prima convocazione. Tra le veterane che non si accorgono della new entry solo Giulia che mette sempre in campo e fuori tutto di sé la chiama per nome e le ordina amichevolmente di unirsi a loro. Tiriamo un sospiro di sollievo, quando eravamo ragazzini le dinamiche di gruppo ce le risolvevamo da soli e oggi, con tutta l’ingerenza che si respira in giro, quando lo fanno gli adulti restano sempre delle cose che prima o poi nella vita spuntano fuori inaspettatamente da qualche cassetto. Il freddo torna a essere secco e pungente, questa indecisione delle condizioni meteo è una vera rottura, come direbbero i Clash. Il tempo di decidere il percorso migliore anche se poi tanto accenderemo Maps sullo smartphone per essere sicuri e le labbra si screpolano e più si screpolano e più viene la voglia di inumidirle. Mi viene in mente Claudio che non usciva di casa senza il burro di cacao perché diceva che a baciarsi all’aperto il rischio aumenta. In un San Valentino più crudele di qualunque massacro della storia americana Claudio aveva convinto Lucia ad avvisare un comune amico, pazzo di lei, che si stava mettendo con quello alto e bello come un attore che tutti chiamavano come il nome di un popolare drink e che quindi per il comune amico era meglio farsi passare la cotta. Lucia e l’uomo-drink si sono pure sposati, hanno sfornato un paio di marmocchi ma ora Lucia nelle foto su Facebook sta abbracciata con un altro. E oggi sui siti di cura del corpo fai-da-te sembra addirittura che il burro di cacao peggiori le cose ed è incredibile quanto certe convinzioni possano cambiare con il passare degli anni.

la differenza tra slalom gigante e slalom speciale

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La madre di Lele ha quel difetto di pronuncia per cui non riesce ad articolare le consonanti e sembra che la sua voce esca da dietro la nuca, come quel modo di emettere suoni dalla faringe che resta sempre tale indipendentemente se apri o chiudi la bocca. Ce lo ha insegnato al corso di musicoterapia uno che studia i cantori buddisti ma anni dopo rispetto al periodo in cui io e Lele abbiamo fatto l’università. Sua madre faccio fatica a capirla. Mi ha chiamato la mattina presto perché la sera prima Lele è svenuto dopo che ci eravamo lasciati. Mi ha chiesto se avevamo fumato, nella mia ingenuità dell’alba ho pensato che intendesse sigarette, abitudine che praticavano sconsideratamente e le ho detto di si con una tale sincerità che è rimasta sbalordita. Chiaro che lei intendeva le canne, che poi le fumavamo ogni tanto ma davvero non si trattava di quella volta.

Fatto sta che Lele si è giocato il proseguimento all’università proprio con quell’equivoco, o comunque è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Suo padre invece mi è simpatico perché qualche sera prima della maturità che io e Lele preparavamo insieme ci ha messo in tavola un bottiglione di cannonau artigianale che non ci abbiamo pensato due volte a finire. Era un segnale dell’attaccamento alle radici, non a caso Lele e la sua famiglia qualche mese dopo quella telefonata hanno fatto armi e bagagli e sono tornati a vivere in Sardegna.

Così a partire dal secondo anno, anche se devo dare ancora tutti gli esami del primo, passo il tempo in facoltà con altre persone. A pranzo frequentiamo un bar gestito da un tipo che ha un nome di quelli che sembrano inventati e che scopriamo solo perché sta scritto sullo scontrino: Generoso Popolo, che letto al contrario ci fa piegare dal ridere in quel modo in cui ridono gli universitari delle facoltà umanistiche.

Il bar però è di una noia mortale perché c’è la tv costantemente sintonizzata sulle gesta sportive di Alberto Tomba. Non puoi alzarti che tutti ti gridano di sederti perché gli nascondi la vista sulla tv mentre è il turno di Alberto Tomba. Non puoi fare il casino che giovani come noi ci meritiamo di fare con i soldi dei nostri genitori nei luoghi pubblici perché Tomba sta per battere di un decimo di secondo Zurbriggen o Girardelli. Il posto non è grandissimo, e se conti il fatto che è ancora ammesso fumare dentro in certi momenti è la nebbia a impedire di seguire le discese e gli slalom, altro che.

Io mi siedo sempre con il solito gruppetto di ragazze capitanato da quella piccolina che mette i dolcevita stretti che le mettono in risalto il seno. Dev’essere l’88 o l’89 e la moda è ancora vergognosamente anni ottanta. Vado fiero di alcuni capi che indosso con orgoglio per disintossicarmi da un decennio di abiti rigorosamente neri. Ora sono passato a varie tonalità di grigio. Ho trovato persino un trench grigio chiaro e una linea di felpe girocollo con delle scritte in cirillico che non so cosa significhino.

Mi sto anche prendendo una pausa dalla musica più dark anche perché la maggior parte degli eroi del decennio o si sono sciolti ho fanno cose discutibili. I REM di “Green” mi sembrano un buon materiale di passaggio tra passato e futuro, ma in giro c’è davvero della robaccia e certe cose che mi manderanno in visibilio successivamente sono ancora lontane.

Frequento uno studente di filosofia che si chiama Valter, siamo sempre insieme tanto che per far colpo sulle ragazze diciamo che lui è il mio Valter ego. Prepariamo insieme Storia medievale. Ho un libro di Le Goff che è pieno di termini che non conosco, così me li segno in seconda di copertina per impararne il significato, come “chirofania” e “ebdomadario”. Un sistema efficace, ve lo assicuro. Ancora oggi so cosa vogliono dire. E rammento anche che all’esame la Balbi mi ha chiesto perché avessi riportato a matita quelle parole proprio lì, dietro la copertina del libro. Non ho perso l’occasione di dire la verità, come faccio spesso, e lei in cambio ha esercitato il suo diritto di chiederne la definizione.

il dopoguerra e il patto Atlantic

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È la prima volta in cui la guerra assume tratti più definiti rispetto a quelli ludici dei soldatini Atlantic, divisi per nazionalità e ciascuna con il suo colore, le sue pose, i suoi elementi distintivi. La trasmissione si chiama “Trent’anni dopo” e racconta in bianco e nero la disfatta italiana della guerra finita trent’anni prima, appunto. Non solo sono ancora vivi e vegeti i testimoni di quell’esperienza, ma alcuni protagonisti li vediamo quasi ogni giorno a “Tribuna politica”, sui giornali o nei servizi del Tg della sera. Tutti sembrano ancora freschi di quegli eventi terrificanti, con i loro paltò, i cappelli a falda stretta, la sigaretta nella stessa mano con cui indicano i punti in cui si è manifestata la morte, la fuga, un rastrellamento, una prigionia, una tortura.

Raccontano la storia con le parole prese dal vivo in ambienti che rimbombano e nel loro accento piemontese, romagnolo, ligure, toscano, e si alternano alla voce narrante che dev’essere quella di un attore, solenne, chiara e severa nel modo di ammonirci su responsabilità che sono anche nostre, dei nostri padri e dei nostri nonni che sono lì con noi dopo cena a vedere quel documentario, seduti al nostro fianco sul divano.

Uno stormo di aerei sgancia bombe a ripetizione e subito dopo si vedono le macerie di Montecassino, e non è importante se c’era davvero qualcuno a filmare l’azione o se le immagini sono solo rappresentative di quello che è successo. La magia del cinema e, in questo caso, della tv. Nessuno si pone il problema perché è troppo occupato a tenere a freno l’emozione. La musica di accompagnamento è una riuscita versione in modo minore e rallentata di “In the mood”, il boogie-woogie per eccellenza che si ascolta ogni volta in cui soldati americani fanno ballare le donne italiane nelle scene della liberazione sempre ricostruite a scopo didascalico. Il video e il sonoro, presi insieme, hanno una qualità completamente differente e necessitano di apparecchiature che negli anni quaranta non erano ancora appannaggio degli operatori fai da te.

Così è anche la prima volta in cui capisco che la musica la puoi fare e disfare come vuoi, nessuno te lo impedisce e accortezze come quella, una canzonetta rielaborata in versione funerea, può fare la differenza e arrivare al cuore più di qualunque effetto speciale. È il settantacinque, trent’anni dopo appunto, e finalmente mi è chiaro che tenere i tedeschi al gioco dei soldatini, anche se hanno le pose plastiche più eleganti, gli elmetti a punta, la mitraglietta imbracciata in modo ergonomico e gli ufficiali con la rivoltella, non è un fattore di prestigio.

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l'amore a volte ha domicili diversi

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L’amore a volte ha domicili diversi. Ci si spreme di passione in campi neutri e poi si torna alla rispettive abitazioni, portando con sé le farfalle nella pancia, la spossatezza dell’amore incompiuto, la mandibola sforzata come dal dentista e l’arsura sulle labbra. Il profumo di un’altra pelle che non è la propria, un biglietto del cinema o di un concerto o del teatro o anche solo del bus, un capello lungo e rossiccio sulla spalla della giacca blu.

Ci si allontana così a qualunque ora del giorno o della notte. Anche la mattina appena svegli, subito dopo colazione, alcuni prendono la macchina e tornano a casa e si lasciano l’amore dietro, tanto presto riprenderà daccapo come un corso della natura. Le stagioni o le maree. Ripercorrono l’autostrada in senso opposto rispetto a quello che ha consentito loro di trovarlo, l’amore la notte prima. La città dormiva e ne hanno approfittato per sbagliare strada tutte le volte senza nessun rischio di non poter tornare indietro.

I ragazzini lasciano l’amore addirittura prima di cena. Rientrano nelle case in cui sono ospiti dei propri genitori e si sentono forzatamente reclusi nei rispettivi campi di sofferenza. Non passa un quarto d’ora che già verrebbe voglia di chiamarsi al telefono, toccare reliquie come testimonianza che è tutto vero, che là fuori c’è l’amore che ci aspetta ma che non c’è altro da fare che attendere il giorno successivo.

Ma l’amore conduce vite separate anche quando potrebbe permettersi il contrario. Una famiglia. Un letto a due piazze. Un divano a tre posti. Un bicchiere con almeno due spazzolini. Perseverare in un domicilio diverso da quello in cui potrebbe abitare l’amore può essere una questione di abitudine a condurre un’esistenza separata da tutto anche se si ha molto da dare. Si radicano pratiche che poi sono difficili da estirpare. Comportamenti che mai più potremo rendere complementari a quelli di qualcun altro. Così si fa prima a mettere tutto come parte del corredo, tanto con due domicili diversi l’amore ha a disposizione tutto lo spazio necessario.

Fino a quando poi l’amore fa il doppione delle chiavi, mette insieme dischi, libri, vhs anche se i videoregistratori non se ne vedono più in giro da un pezzo. Capita anche che ci siano di mezzo pesci rossi in una boccia di vetro, gatti (meglio se non simultaneamente), cani. Nel migliore dei casi bambini nella pancia di uno dei due o già grandi, già svezzati, scolarizzati, viziati, cresciuti o addirittura a loro volta già sistemati. O, dall’altra parte della barricata, anziani non più indipendenti. In certi casi persino avvocati per storiacce non consensuali, creditori o gente di qualunque tipo da cui nascondersi.

Ed è incredibile perché, qualunque esso sia, quando l’amore trova un domicilio comune tira le tende, chiude le veneziane, abbassa le tapparelle, spegne le luci, e al buio poi non parla d’altro che di amore e di quello che si può fare lì insieme, in due.

posso fare un'osservazione?

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Quando si inizia a litigare o anche solo a non provare più granché del sentimento che ha unito due persone in uno dei svariati modi in cui due persone si uniscono, che va da quell’amore totale che ti toglie il fiato fino alla semplice comunione di intenti passando per flirt o anche una tiepida frequentazione estemporanea oppure sesso sfrenato e reiterato ad libitum senza implicazioni sentimentali ma anche amici e basta. In quel momento in cui scorgiamo nei lineamenti di cui siamo esausti a furia di quella sovraesposizione che poi è un po’ la causa di tutto nella società dell’immagine (non a caso si sono inventati le gif animate), dei quindici minuti di fama (non a caso c’è snapchat), dei video in fullHD (non a caso vediamo i film sul telefono), dovremmo impegnarci a ravanare nella memoria e trovare la prima volta in cui abbiamo visto quella faccia lì che oggi prenderemmo a schiaffi tanto siamo stufi di averla a pochi centimetri da noi, per ricordarci l’impressione che avevamo avuto osservandola senza averla mai notata prima e ritrovare gli elementi che avevano attirato la nostra attenzione.

Lo so, è una specie di gioco della settimana enigmistica difficile da fare così a posteriori e so anche che non vale se state per fare un paragone con qualcosa di più attuale, se comunque la novità è sempre più sexy della solita minestra. Allora facciamo la stessa cosa al contrario. Iniziamo a imprimerci bene in mente ogni persona come se un giorno, a seguito di un lungo e profondo rapporto di amore o calessi o chissà cosa, ci dovessimo ritrovare a cercare l’archetipo di quel sentimento in un unico istante che è quello in cui come dei pazzi vi state mettendo a fissare le persone sui mezzi, per strada, all’Esselunga o in fila al cinema. Oggi possiamo stare ore a sbirciare i profili altrui su Internet e persino a salvare quello che ci piace con il tasto destro del mouse. Eppure la sensazione che una persona dopo anni in cui ce l’hai a disposizione sia la stessa che uno, cinque, dieci anni prima ha occupato il tuo campo visivo senza averlo mai fatto prima e ti colpisce (in senso figurato, eh) ha qualcosa che se non è un fattore soprannaturale ci va vicino. Quindi guardatevi bene dal non guardare il prossimo, magari state perdendo un’occasione che vi tornerà utile prima o poi.

come i calendari che già a febbraio li trovi a metà prezzo

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Benché quella di ripartire da zero, anzi, da uno con gennaio sia solo una convenzione, trovarsi tra le mani un inizio di qualcosa con tutte quelle pagine bianche davanti da sempre è fonte di stimolo per l’umanità per progetti da suddividere in trecentosessantacinquesimi o giù di lì, in anni come questo che, manco a voler far la rima apposta, è bisesto. Sembra ieri che prendevamo accorgimenti per non innaffiare la tovaglia stappando il Berlucchi volgendo al termine di un conto alla rovescia e oggi siamo già qui a risvegliarci che invece è già ieri l’altro. Ma questo, si sa, è un procedimento irreversibile. Così ci siamo inventati modi per vedere l’anno nuovo dalla parte della copertina o, per usare la metafora del tempo come un’arma a nostro vantaggio e a farlo ricordatevi che siamo solo noi, i Rolling Stones e Matteo Renzi, dalla parte del manico pronti a sferrare fendenti al futuro dall’alto di visioni di insieme. Chiamateli buoni propositi, chiamatelo giro di boa, chiamatela vita nuova. Ieri mattina sono uscito all’alba per portare a termine i primi dieci km di corsa dell’anno nuovo ma, guardando bene in giro, non era cambiato nulla ma poi ho capito. Il cambiamento era avvenuto per una piccola parte, il nuovo si era svelato solo per quelle poche ore già trascorse del duemilasedici. Vedremo quindi se davvero abbiamo dato un nuovo corso alla nostra vita solo tra dodici mesi, al termine di una sorta di abbonamento annuale incrementale a qualcosa che non sappiamo nemmeno noi bene cosa. Mi sono venute così in mente tutte quelle persone che mettono in rete foto di sé ma in piccoli dettagli, volta per volta, in un processo di auto-rivelazione frutto di un diffuso contrasto interiore tra la smania di mostrarsi e il pudore di non ritenersi così aventi diritto. Un po’ perché magari non si piacciono, o per non svelare i propri connotati, o magari perché si sa, una volta on line tutto diventa di dominio pubblico e la propria identità di un istante che finisce non appena incominciato e codificata irreversibilmente in una manciata di bit a disposizione dell’eternità è un concetto il cui valore etico ci fa ancora riflettere. Meglio dare in pasto al voyeurismo collettivo un polpaccio, una spalla, l’occhio con arcata sopraccigliare annessa, le labbra voluttuose, il nuovo taglio di capelli con il viso coperto dal dispositivo con cui ci si fa la foto, la scarpa fetish o il maglione da prima elementare. Tutti particolari perfetti di noi che conferiscono l’illusione che tutto il resto che rimane nascosto di quell’istante sia all’altezza di ciò che facciamo vedere. Sarebbe quindi un ottimo proposito quello di unire le due cose e mettere a disposizione dell’umanità che usa i social network ogni giorno una tessera del puzzle di noi tale da permettere al pubblico, a ridosso del veglione del prossimo capodanno e in una delle innumerevoli operazioni di bilancio in cui si ripercorrono in una sintesi gli ultimi dodici mesi, una visione completa esaustiva dell’insieme di ciò che siamo stati, un fotomontaggio del meglio del nostro corpo anima inclusa in ogni giorno che abbiamo trascorso, in un’inusitata visione di noi stessi come insieme di particolari scelti lunga un anno. Ecco, questo per me oggi è il dettaglio 2/366, ora tocca a voi.

paesi che iniziano con la lettera c

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I genitori di Mara hanno una sala giochi nei pressi della stazione ferroviaria, una formula che oggi significherebbe profughi, video-poker e ludopatie ma che, fino ad allora, attira solo ragazzini spendaccioni e qualche spacciatore di droghe leggere, aspetti che in alcuni casi coincidono nella stessa persona. A parte questo, il paese non offre granché. Ci sono due fabbriche che viste da fuori mettono soggezione anche senza tirare in ballo l’inquinamento. Ma se vogliamo fare gli ecologisti, la più grande delle due, che si chiama come il protagonista di un best-seller italiano per ragazzi d’inizio secolo (scorso, se leggete dopo il duemila), sovrasta un campo di calcio in cui si allena persino un squadra di football americano ed è facile immaginare i miasmi che si respirano lì sotto quando i giocatori gioiscono dopo un touchdown. L’altra ha il cancello con le iniziali del padrone in ferro battuto e occupa tutta l’area tra i binari e la strada costiera.

Il paese è anche famoso per la presenza di quello che rimane di un vecchio manicomio, tanto che è diventato proverbiale l’accostamento tra gli abitanti e gli ospiti forzati alle cure psichiatriche. Dopo l’applicazione della legge Basaglia sono rimasti gli ultimi pazienti che non potevano essere trasferiti da nessun’altra parte. Passano il tempo nella struttura e poi si godono le loro ore di libertà vagando per le vie del paese con quell’espressione di chi non sa se avere meno restrizioni sia una fortuna oppure una fregatura. A me è successo di trovarmene tre o quattro intorno quella volta in cui mi sono addormentato sulla panchina aspettando l’ultimo treno della notte per rientrare a casa. Era estate e probabilmente mi sono sentito osservato nel sonno. Ho spalancato gli occhi e ho visto i loro sguardi di curiosità, magari mi avevano preso per uno di loro o semplicemente sono rimasti sorpresi dall’eccentricità di un essere umano sdraiato su una panchina pubblica.

Ci sono quindi un altro paio di elementi di folclore locale che forniscono il quadro completo. Intanto il livello di penetrazione delle sostanze stupefacenti tra i giovani è ampiamente sopra alla media, con la scusa che non c’è niente da fare si salta direttamente ai divertimenti artificiali. Giusto qualche mese prima del momento in cui vi sto raccontando queste cose (siamo quasi a metà degli anni ottanta) tre ragazzi sono morti in un brutto incidente stradale. Dicono che erano belli cotti, quella sera, tutti vestiti di nero e con la ferrea volontà di cercare un qualche diversivo lontano da lì, magari in città. I genitori del più grande hanno fatto comporre la salma nella divisa tutta bianca da sottufficiale di marina con cui si era congedato, come segno di disprezzo per quel lugubre atteggiamento di ribellione eccessivo per un posto come quello. Da allora gli altri ragazzi ci vanno piano con i comportamenti trasgressivi. A sancire la fine di un’epoca sarà però la nascita di un pub dal nome fortemente altisonante per quel buco di provincia, qualche anno dopo. Chi viene da fuori e decide di farsi una birra al “Quinto elemento” sviluppa al primo sorso una sensazione di forte perplessità e scetticismo, come a trovarsi fuori luogo in un film di fantascienza venuto male.

la nevicata dell’85

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Alle ragazze dell’artistico piace far le strane ma mica si lasciano puntare come tutte le altre. Stanno sedute al tavolo più esclusivo della Sala da The e ordinano un punch al rum dopo l’altro alle nove del mattino. Noi proviamo a fissarle dritte negli occhi impiastrati di eyeliner con quell’approccio che è tipico del gioco delle parti alla nostra età, ma loro non si lasciano intimorire e tengono botta. Al massimo, se una si scoccia, non ci mette niente a sedersi dandoti la schiena, che è il solito modo umiliante di dire che no, grazie, non mi interessi. Le studentesse dell’artistico sono abituate a un genere di ragazzi così trasgressivi che noi ce lo possiamo scordare. Io li conosco perché ne frequento un paio, darkettoni come me, che comunque non sono così trasgressivi come quelli che hanno già fatto anche qualche esperienza con l’eroina. Ma nella Sala da The i ragazzi dell’artistico nemmeno ci mettono piede, tanto è un posto ordinario dove passare le mattine in cui si salta o c’è sciopero e non si va a scuola.

Stamattina è tutto chiuso perché è nevicato e siccome qui non è le dolomiti gli autobus slittano, sbandano e si mettono pericolosamente di traverso. Nessuno è provvisto di pale per pulire i marciapiedi né di sale, per questo l’assessore ha deciso che è meglio lasciar stare tutti a casa. Noi però non vogliamo perdere nemmeno un’occasione per darci da fare. Con tutto quel bianco in giro, poi, noi vestiti tutti di nero siamo l’esatto contrario di come sono le cose. C’è così bianco in giro che persino noi siamo attoniti, stringiamo gli occhi a fessura per non farci abbagliare. E conciati così come i Bauhaus è facile notarci, con tutta quella neve in giro, cosi per farci una canna in santa pace dobbiamo trovare un luogo più appartato del solito.

La pratica dell’appetito chimico la sbrighiamo con cappuccio e brioches in quel bar di provincia dal nome sorprendentemente raffinato, puntando le ragazze dell’artistico che sicuramente hanno fumato anche loro. Parlano delle loro discipline derivate dalla pratica della riproduzione della realtà e noi, che al massimo riusciamo a malapena a citare filosofi e autori latini, non sappiamo trovare una scusa per intrometterci nella conversazione. Sono truccate pesantemente e anche se si vede lontano un miglio che ascoltano la nostra stessa musica sembra che a loro non interessi socializzare con noi.

Per quello dopo un po’ ci scocciamo e ce ne andiamo. Quella stessa sera ci sarà uno spettacolo comico di Gino Bramieri, al teatro comunale. Siamo ancora belli cotti quando Gino Bramieri si mette al nostro fianco a osservare dei capi di abbigliamento da gente di un certo livello in una vetrina davanti alla quale ci fermiamo dopo, rientrando a casa, ma solo per vedere nel riflesso se la pettinatura cotonata ha tenuto bene. Vorrei dirlo a tutti che Gino Bramieri ha sfiorato il mio cappottone nero con il suo montone da milanese, ma mi scappa da ridere, sapete tutti vero come ci si sente quando si fuma un po’ di erba la mattina.

lo sapete cosa succede in questi giorni?

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Nel posto in cui sono nato a Santa Lucia la città si riempie di bancarelle che, quando frequentavo le feste di paese, vendevano articoli per il Natale e le feste a partire dalle statuine del presepe agli addobbi e agli immancabili botti per capodanno, ma sopratutto una marea di dolciumi e torroni. Si tratta di una di quelle occasioni in cui, almeno allora, vi parlo degli anni 70 e inizio anni 80, prima che la mia boria adolescenziale mi imponesse di disertare qualunque occasione figlia della tradizione, gli abitanti si riversavano in massa nelle vie del centro dimezzate in dimensioni proprio dalla presenza dei venditori ambulanti – se bazzicate Milano a Sant’Ambrogio o Immacolata sapete a cosa mi riferisco – senza contare che arrivvaano a migliaia anche da fuori. Una seconda caratteristica di questa Santa Lucia che conosco io è la pratica di darsi le botte in testa con manganelli di plastica che non so davvero che origine abbia. Da noi è (o era) molto diffusa e costituiva sempre un espediente per regolare i conti tra ragazzini e bande rivali (competizioni le cui cause sono semplicissime da individuare). Ora non so se vi partecipa ancora tutta questa folla e se al posto dei dolciumi e delle palline per l’albero ci sono i venditori di fuffa cinese, molto spesso intesa come dolciumi e palline per l’albero.

In altre città più a est è Santa Lucia a portare i doni ai bimbi, mica Babbo Natale o Gesù Bambino come siamo abituati noi di queste longitudini. Ma a me quello che mi piace veramente di questo periodo è che le giornate, come sapete, iniziano ad allungarsi. Non so se sia vero o se si tratti della solita credenza popolare, sta di fatto che ieri contemplavo la vista su Corso XX marzo dal mio ufficio a Milano e, alle cinque passate, c’era già un non so che di primavera. Sono corso subito a condividere questa emozioni con i miei sodali dei socialcosi. “Ma quindi le giornate si stanno già allungando”, ho scritto, quasi a chiedere una conferma retorica di un fenomeno che non so nemmeno se sia attendibile ma solo frutto di una percezione della natura e del tempo del tutto arbitraria e condizionata dal fatto che, come ogni anno, non siamo nemmeno a Natale e già ho campeggio e nave per la Sardegna prenotati per l’agosto della prossima estate. In queste condizioni si reagisce male alle dicerie su presunte tempeste di neve pari a quella dell’85 che stanno per mettere a ferro e fuoco, anzi, a gelo l’Italia settentrionale. C’è qualche grado in più, a dire il vero, e forse è anche per questo che le giornate si stanno allungando.

Il problema è però quando le giornate invece iniziano ad allargarsi, quando si riempiono di cose e di appuntamenti e di cibo e facciamo fatica ad attraversarle indenni fino al prossimo gennaio. Insomma, diamo una dimensione standard a queste giornate. Che siano sempre equilibrate il più possibile, in barba all’inverno che nemmeno è iniziato e che anche se le giornate si stanno allungando e c’è più luce che importa, se vivi in un posto in cui tutto ha lo stesso colore sempre.

tutti insieme appassionatamente

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Mia mamma non si ricorda l’ultima volta in cui è stata al cinema. Cioè non è che proprio non si ricorda, dice così come quando si vuole sottolineare il fatto che è trascorsa un’infinità di tempo dall’ultima volta in cui si è fatto qualcosa. Ci tengo a rimarcarlo proprio perché quando si parla di anziani e memoria è sempre bene andare a fondo delle cose. Mi racconta del concerto di Peppino Di Capri a cui ha assistito con mio papà all’Astor – che era un cinema-teatro che non esiste più – quando erano ancora fidanzati e delle serate trascorse da giovane a vedere film nelle sale sature del fumo delle sigarette accese e della puzza dei mozziconi spenti, a questo proposito pensate a come è migliorata la qualità della vita degli esseri umani da quando è stato imposto il divieto di fumo nei luoghi pubblici. Non ci si crede: qualche giorno fa in treno un tizio un po’ spostato si è acceso una sigaretta seduto sui gradini e il flashback è stato devastante: come abbiamo potuto convivere per secoli con tali esalazioni rimane un mistero. E anche i miei genitori fumavano al cinema, ma questo appunto talmente tanti anni fa che mia mamma non si ricorda di avere visto un film sul grande schermo.

Non credo volesse farmi sapere che le piacerebbe essere accompagnata al cinema, perché me l’avrebbe chiesto direttamente e poi da quando mio papà non c’è più è ancora più restia di prima nel mettere il naso fuori di casa. Ma il punto è che mi ha fatto riflettere su quante volte mia moglie ed io abbiamo accompagnato al cinema nostra figlia. Magari mi sbaglio, ma credo che per un bambino vedere un film con i genitori sia un’esperienza divertente. Anche in questo caso, oramai del passato. Mia figlia si spara tutti quei film per adolescenti che vanno di moda ora tipo Hunger Games o Maze Runner e di certo non vuole adulti tra le palle durante la proiezione ma solo amiche fanatiche come lei. Ma prima che i feromoni prendessero il sopravvento ricordo bei momenti passati insieme a vedere cartoni o film intelligenti.

E dato che probabilmente ci comportiamo con i nostri figli come avremmo voluto che i nostri genitori si fossero comportati con noi, o magari invece facciamo così perché loro l’hanno fatto con noi e la cosa ha funzionato, il passaggio successivo della mia riflessione è stato che anch’io non ricordavo l’ultima volta in cui ero stato al cinema con mia mamma e mio papà. Anzi, se proprio devo dirla tutta, secondo me tutti insieme non ci siamo mai andati. Ho ancora vivi nella memoria certi film visti solo con mio papà nel vecchio cinema Verdi del paesino in cui soggiornavamo in estate. Titoli del calibro di “Dove osano le aquile” o “Il corsaro nero” con Tony Renis, giuro, in cui c’è una scena in cui ci sono degli uomini su una scialuppa e uno chiede al personaggio interpretato da Tony Renis “Tu chi sei?” e quello risponde con il suo nome che non ricordo, e mio papà ha gridato “Ma va, tu sei Tony Renis”. Al cinema in città invece abbiamo visto insieme “Lo squalo”, roba che poi ho avuto paura per il resto della mia vita.

Ma la questione aperta è perché non siamo mai andati tutti insieme, loro, io e le mie due sorelle. Forse perché in cinque al cinema era un investimento mica da dopo. Lo facevamo anche noi: a meno di occasioni speciali o proiezioni al cinema parrocchiale, il cartone animato nel multisala a dieci-dodici euro a zucca lo si vedeva in due, non in tre. Fino a quando poi è subentrato l’espediente del film con le amichette, in cui entrano solo i bambini – quindi si paga un biglietto – e i genitori stanno fuori ad aspettare o vanno ad assistere a uno spettacolo più interessante. Forse la formula dei miei era la stessa, forse non era così comune fare le cose tutti insieme, forse andare al cinema era un’occasione speciale e lo si faceva una volta l’anno magari il pomeriggio di Natale e basta.