chiodo schiaccia chiodo

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In provincia di Torino solo una persona di sesso maschile su mille si chiama Donatello e trovarla porta fortuna. Io ce l’ho al telefono e non deve sorprendervi se di mestiere fa il ricettatore. Lui e il suo socio hanno una carrozzeria che in realtà è una copertura per traffici al limite della legalità. Va persino raccontando che spesso gli portano le auto da riparare ma, una volta terminato il lavoro, chi la ritira non è la stessa persona, come se da qualche parte là dentro ci fosse nascosta qualche polvere di valore oggetto di qualche compravendita. La sua fidanzata ha l’unico esempio di giacca di pelle nera foderata di tessuto leopardato che lo stilista che l’ha ideato è riuscito a vendere nella sua carriera. Ed è incredibile che, nonostante ciò, le riconosco il merito di avermi fatto venire voglia di avere un chiodo.

Cazzo, non ho mai avuto un chiodo. Avete presente quella voglia di soddisfare da grandi certi desideri mai appagati in tempi in cui tali desideri sono più normali? Oriano per esempio si è fatto i camperos che già lavorava in ferrovia. Lo stesso Donatello ha una Lancia Delta Integrale con una specie di faro posteriore abbagliante che accende quando qualcuno dietro gli si piazza troppo vicino e gli lampeggia per togliersi di mezzo. Così al telefono gli ho appena chiesto di procurarmi un chiodo, alla mia età (che non è quella che ho oggi come narratore, ma quella in cui questo episodio è ambientato) si può ancora mettere senza passare per uno sfigato. Per questi articoli prêt-à-porter Donatello e il suo socio, che poi si scopre essere il compagno di sua madre abbandonata dall’ex marito che, uscito di galera, si è tolto di mezzo, comprano per due lire roba rubata dai tossici. Pezzi di auto e persino medicinali fregati al bancone delle farmacie mentre aspettano monouso e acqua distillata.

Ne parlo con Federica e la cosa sembra strana perché siamo ai primi di settembre e fa ancora caldissimo. A noi però piace provare gli abiti invernali fuori stagione per ricordarci come fare gli abbinamenti quando sarà il momento di indossarli. Io a dire la verità mi sento anche la febbre. Devo aver preso un’insolazione ieri anche se era nuvoloso, non vedo altre spiegazioni. Federica mi rimprovera per il fatto di non aver imposto un tetto di budget, ma sono fiducioso sul fatto che Donatello, con un nome così, per il chiodo non mi chiederà una cifra esagerata.

l'auto e la radio, chi è meglio e chi è peggio?

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Voi che fate i pendolari quotidiani con i mezzi pubblici, anche quando non ci fate pure i blog a riguardo sapete bene la fortuna che avete. Provate a interrompere anche solo per un paio di giorni il vostro tran tran, anzi, il vostro tram tram, e fatevi un bel viaggetto da casa al lavoro e ritorno by car. Seguire le direttrici più battute da chi usa mezzi propri per andare in ufficio, per esempio da fuori Milano verso il centro di Milano, è una disgrazia che non auguro neppure al più efferato elettore di Casa Pound.

Sul fronte invece di quelli che usano l’auto anche quando hanno tutte le comodità come la metro a due passi da casa, c’è persino una corrente di pensiero, una vera e propria filosofia di chi si rifiuta di prendere i mezzi pubblici: la calca, i ritardi, quelli che mangiano l’aglio a colazione, i borseggiatori, gli zingari, la gente in genere. La cosa paradossale è che chi usa l’auto paga due volte il suo viaggio verso il posto di lavoro: la prima con le tasse che vengono fatte confluire nell’acquisto e ammodernamento di treni e bus, la seconda con i suoi soldi per un servizio privato. Volete dirmi che è per questo che le tasse non le pagate? Scherzo, eh. Comunque è lo stesso ragionamento che faccio con i libri: perché comprarli due volte quando li ho già pagati con le mie tasse e sono lì che mi aspettano in biblioteca? Ma il vero motivo per cui detesto usare la macchina la mattina per andare in agenzia, cosa che mi succede ogni tanto quando mi tocca usare l’auto aziendale per qualche trasferta di lavoro, non è tanto il traffico quanto essere costretto nel traffico e avere a disposizione come unico diversivo alla coda la radio.

La radio è una merda, le stazioni radiofoniche trasmettono musica di merda e, in particolare, la mattina le radio italiane mettono in palinsesto programmi che così di merda non si può. Mi ci vedete, fermo in circonvallazione, mentre alterno le dita nel naso alle dita (le stesse che prima erano nel naso) sui pulsanti dell’autoradio a fare zapping nella remota speranza di trovare una, dico una canzone decente da lasciare dall’inizio alla fine? La sequenza standard è hit commerciale, speaker idiota che racconta cose che non interessano a nessuno, speaker idiota che ride con un secondo speaker idiota, canzone italiana di merda, preghiera su Radio Maria, speaker idiota, Ligabue, preghiera su Radio Maria (ha millemila sequenze), coda di un pezzo dei Queen, jingle di Virgin Radio, speaker idiota che ride su uno scherzo telefonico andato a buon fine, preghiera su Radio Maria, canzone italiana di merda. Poi c’è l’oasi di Radio Tre che mi fa lo stesso effetto della biblioteca e di quello che dicevo prima sui tram e i treni: gli italiani le risorse pubbliche non se le meritano, a volte non sanno nemmeno che ci sono, e io li vedo camminare ai lati della strada mentre sono ancora bloccato dal traffico al punto di prima. Hanno facce che si vede che hanno appena parcheggiato, beati loro, si divertono con gli zoo di centocinque e gli fanno schifo le pagine dei libri con gli angoli leccati dagli utenti della biblioteca. Li osservo in faccia e ancora una volta mi hanno deluso e mi hanno stufato, di rimando mi metto le dita nel naso e poi cambio ancora una volta stazione e, d’improvviso, Mina che canta ZUM ZUM ZUM ZUM ZUM, sicuramente c’è Lelio Luttazzi dietro che dirige l’orchestra di un programma in bianco e nero del sabato sera di una volta. Abbasso il finestrino, metto l’autoradio a palla, ZUM ZUM ZUM ZUM ZUM e mi godo lo spettacolo dell’Italia, a Milano, che come me va in ufficio.

con le nostre card siamo stati fedeli, ora tocca a voi fare altrettanto

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La cosa più piacevole che abbiamo condiviso è stata chinarci a raccogliere insieme una manciata di spiccioli che sono caduti dal mio portafoglio, attività di cui avrei potuto occuparmi da solo ma tu, correttamente, hai agito mossa dal senso di colpa. Se non mi avessi chiesto la fidelity card per usufruire degli sconti del supermercato non avrei estratto il portafoglio dalla tasca al contrario e le monete sarebbero rimaste al sicuro. C’era la fila e così ho fatto prima, certo. Ci sono però motivi di riflessione sul fatto che in mano avevi solo un deodorante spray e che lo sconto a cui non volevi rinunciare era inferiore al valore complessivo di quello che ti sei offerta di aiutarmi a raccogliere. Così vicini e così intimi, piegati sulle nostre rispettive ginocchia, mi è tornato in mente il momento in cui il tuo fidanzato ti aveva lasciato dopo quattro anni perché non volevi avere figli e poi mi avevi confessato che il motivo per cui ti spiaceva di più era il fatto che eri già troppo avanti con l’età e non ti sarebbe più stato possibile diventare madre. Dolcemente complicata? Non è un dovere moltiplicarsi, non è nemmeno un diritto. Resta lo strazio di aver rinunciato a quelle belle sfide che si fanno con i bambini piccoli, quando ogni minima conquista ci mette in odore di programmi speciali, scuole per prodigi della genetica e sistemi per il calcolo del quoziente di intelligenza. Ma quando mi sono rimesso in piedi senza nemmeno contare se la somma era invariata rispetto a prima che le monete mi cadessero, ho visto tutto nero e ho percepito molto più del caldo che faceva in realtà. Hai cercato di giustificare così la scelta del deodorante, forse perché la fronte mi si stava imperlando di sudore e pensavi ne avessi bisogno, ma il tuo pessimo italiano mi ha sorpreso più di ogni altra cosa. D’altronde io sono di quelli che spiegano per filo e per segno e odio osservare gli interlocutori davanti che scalpitano perché arrivi al punto in fretta, tutti abituati alla laconicità delle conversazioni elettroniche. Sta di fatto che le spiegazioni sommarie non funzionano granché, non siamo ancora pronti a recepire oralmente ciò che siamo abituati a vedere su un display perché tutto rimane lì e possiamo rileggerlo fino allo sfinimento o osservarlo nell’insieme, come si vedono in Internet le jpeg umoristiche con il testo in Impact scritto sopra. Se oggi fossi madre, mi chiedo che cosa potresti pretendere da un figlio, se tu sei la prima ad approssimare il linguaggio e a non disporre di una fidelity card tutta tua.

i titoli li scrivo alla fine

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La ragazza con i capelli rossi che fa l’architetto a Milano e trascorre i fine settimana a camminare scalza sul bagnasciuga della Riviera di Levante, almeno ora che l’inverno è passato, si stacca dopo un lungo bacio dalla bocca del suo futuro marito e vedo che gli chiede se non è preoccupato per il futuro. Lui l’aiuta con il trolley da weekend e gli risponde che no, non ci riesce, è troppo ossessionato dalla morte. Sale sull’Intercity e si siede sul posto prenotato ancora sconcertata dalla sua risposta ma gli manda lo stesso un saluto con quel modo delle dita sulla labbra che sembrerebbe la gag di un mimo se stessimo attenti a non riprodurre il rumore delle labbra, perché in questo caso, per un mimo, non ha più valore. Il viaggio sarà lungo, così cerco di finire il mio pezzo sul bisogno di condividere dal vivo storie come fanno gli americani. Parlarne fa bene? Ciao, mi chiamo Roberto e non faccio nulla di male da dieci giorni, a parte identificarmi in qualche canzone di successo o dimenticarmi gli auricolari quando ce n’era veramente bisogno e così non mi è stato possibile farlo. E a pensarci bene il periodo è stato ancora più lungo, d’altronde chi ci capisce è bravo in questo modo di intendere i giorni della settimana ammassati come bastoncini di shanghai, da prendere uno a uno con cautela senza farne muovere nessuno altrimenti passi il turno. Ognuno a raccontare la propria esperienza filtrata però dalla propria personalità. Se mi servisse una metafora potrei utilizzare quella – sempre efficace – degli effetti per la chitarra, ma il mio agente mi consiglia di piantarla con i riferimenti alla musica che siamo nel duemila e rotti e ormai non li capisce più nessuno. Allora vi faccio questo e poi basta. Avete mai notato come si comporta la gente quando discute? Ci sono quelli che sembrano collegati a un distorsore, che manco a dirlo sono i più violenti e pesanti con tutti vari gradi di saturazione del suono. Quelli più finti diresti che hanno un flanger o un chorus in azione. I più pignoli un delay perfettamente calcolato con un’operazione matematica per il ritardo dei tempi di ripetizione. I più fighi hanno il wah wah a pedale e mentre li ascolti ti prendono e ti viene voglia di muoverti a ritmo. Ecco, giuro che questo era l’ultimo.

palestre di vita

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Il primo vero giro di boa è quando Alfio si convince che è arrivato il momento di tenersi in forma ma entrambi sappiamo che si tratta di un condizionamento sociale perché è il mondo stesso che ha cambiato completamente direzione. Ma anche se ci dotiamo dell’abbigliamento tecnico più a buon prezzo che troviamo è evidente che il fitness è anche una questione di testa e noi, la testa, ce l’abbiamo occupata da ben altri crucci. Uno dei finanzieri che frequenta la palestra nel nostro stesso orario è convinto che quando nella mente c’è troppo casino e che quando camminando ci si rende conto che le gambe stanno portando il peso della stessa persona da troppo tempo, quello è il momento per aprire un libro e mettersi a leggere. In un solo colpo sfata una molteplicità di miti: che la filosofia non è ostile alle forze armate, che la sensibilità non è una prerogativa delle persone intellettuali, che non è detto che tra uomini non ci sia spazio per riflessioni profonde. Resta però integro quello dei militari e para-tali che vogliono diventare grossi. Alfio vuole andare a fondo e aggiunge che c’è una dose a volte insormontabile di fatica insita nei tentativi di miglioramento del sé e, soprattutto, ci si migliora per cosa? Io non gli do retta perché alla radio della palestra stanno trasmettendo un reggae in dialetto veneto e questo è il segnale che siamo usciti fuori dal rigore estetico del decennio precedente. Le cose sono cambiate a ogni livello, come quando ci si getta tra le braccia dell’opposto della persona con cui ci siamo sentiti soffocare per secoli. Ora si fa tutto il contrario di prima, bisogna essere trasandati e attenti alle tradizioni locali da mescolare alla modernità, i vecchi e le radici possono tornarci utili in un momento storico in cui si inizia a percepire l’odore di sconfitta di un sistema spavaldo che fa acqua da tutte le parti.

morsi e rimorsi storici

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L’ultima volta che è finito un amore c’erano state delle avvisaglie nei giorni precedenti. In un paese vicino, una delle due persone coinvolte, anzi tre ma alcuni studiosi sostengono addirittura quattro, era stato morso da un cane. Aveva fatto il pieno di autostima in uno dei numerosi distributori che aprono in primavera e pensava che una tale percezione del sé valesse anche nei confronti degli animali. “Ogni cane buffo che vedo a spasso mi viene da accarezzarlo come se fosse il tuo”, aveva detto alla sua partner convinto si trattasse di complimento che, in un rapporto agli sgoccioli, qualunque parte lesa non saprebbe che farsene. Così una specie di bassotto incrociato con non so cosa gli aveva azzannato la mano facendolo persino sanguinare. Lui si era quasi messo carponi per coccolarlo e la cosa aveva funzionato fino a quando aveva alzato lo sguardo verso l’avvenente padrona per qualche informazione di circostanza. Come si chiama (il cane). Quanti anni ha (il cane). E il cane dal fiuto sviluppato aveva percepito quell’odore di affetto tutt’altro che disinteressato che hanno certi dopobarba quando si mischiano alle intenzioni. Un po’ la figura di merda, un po’ il dolore fisico lo avevano convinto così a desistere sfuggendo persino a un paio di approcci riparatori dell’essere vivente all’altro capo del guinzaglio. Si tratta di una scena che non ho visto in prima persona, naturalmente, ma sono testimone di altri segnali più che eloquenti di ciò che è avvenuto in seguito. Ho assistito a una conversazione telefonica di lei, sapete quanto siano fastidiosi questi monologhi nei luoghi circoscritti. Alla gente che chiacchiera in carne ed ossa non ci facciamo caso. I dialoghi in cui uno degli interlocutori è chissà dove dall’altra parte dello smartphone ci impongono la loro priorità su tutto il resto degli eventi. Ecco quindi alcuni estratti tra la parte lesa e la sua (credo) migliore amica. “Io lo capisco, è stato anche coraggioso, non è più sicuro del rapporto”. “Alla fine mi è venuto da dargli un bacio, non so più come comportarmi. “Non è cosi forte come pensavo, mi ha detto che è stufo di litigare ma per me litigare significa stare due giorni senza parlarsi, mica voltare pagina”. “Ha paura che io ricada in crisi, non lo so”. “Non posso fare niente”. Di fronte a queste manifestazioni di intimità in pubblico, a caldo la mia preferenza va a lui perché io con una che sbandiera i suoi drammi sentimentali in barba alla privacy non condividerei nemmeno una confezione di fazzoletti di carta. Poi però rifletto sull’ultima volta che è finito un amore come esperienza umana astratta, non so se riuscite a seguirmi. Viviamo tutti al sicuro nei nostri rapporti rodatissimi e certe reazioni a perdite di questo tipo ci sembrano sempre sovradimensionate. O forse è la vita stessa che ci porta a vedere le cose con distacco. Le grandi tragedie come le piccole, si arriva a una certa età e ci si ritira in una manciata di dinamiche sulle quali, oramai, non ci batte più nessuno.

la vera storia del patto di Varsavia

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Tra le reliquie dell’ex Unione Sovietica che noi occidentali comunisti e post-tali abbiamo fatto a gara per accaparrarci prima e dopo l’89, oltre agli obiettivi e le lenti per macchine fotografiche leggendarie, telescopi, cianfrusaglie varie, prodotti di un dubbio artigianato locale, matrioske e orologi con il quadrante a ventiquattr’ore o recanti l’effigie dei padri della rivoluzione russa, il tutto acquistato a cifre già da mercatino dell’antiquariato alle bancarelle abusive nelle piazzole delle strade provinciali, spiccano certi sintetizzatori autoctoni con tanto di scritte in cirillico che nulla hanno da invidiare ai più blasonati Moog o ai vari strumenti analogici dell’industria musicale oltre-cortina. Almeno questa è l’idea che mi sono fatto io leggendo qua e là nei forum dedicati ai tastieristi e dopo aver seguito alcuni tutorial di pessima qualità video ma dai contenuti convincenti su Youtube. So solo che quello che Salvatore ha nel suo studio di registrazione casalingo se lo è procurato molto prima che Internet cominciasse a dettare l’agenda dei gusti della gente e diventasse un vero e proprio trendsetter.

Salvatore era in pianta stabile all’ARCI, e attraverso canali di contatto ovest-est nati prima che cadesse il muro, si era organizzato un mini-tour su misura per il suo quartetto fusion in Polonia. Una manciata di date in posti sconosciuti della capitale in forma di prestazione gratuita, se non qualche contatto per dormire la notte e scroccare i pasti in una terra di conquista nuova e pullulante di affamati di scambi culturali con l’Europa del Patto Atlantico. Il synth si chiama Polivoks e l’aveva pagato due lire da un tizio che con la roba sovietica, invece, non voleva più avere a che fare e chissà come rosica del fatto di aver praticamente regalato a un italiano una rarità che oggi, su e-bay, non la trovi a meno di mille euro.

Ma Salvatore era tornato da Varsavia con ben altri cimeli di quel passato comunista che stava andando in pezzi. Con Felicia o Felizia come credo si pronunci, che si era lasciata abbordare dopo il concerto d’esordio e che aveva poi seguito il gruppo per il resto di quella specie di vacanza polacca facendo a Salvatore e ai suoi compari anche un po’ da guida, non aveva pensato di rimanere in contatto ma comunque, in cambio della cortesia e di quanto consumato tra le lenzuola, si era sentito in dovere di lasciarle il suo recapito. Così, qualche mese dopo, Felicia o Felizia come credo si pronunci gli si era presentata in casa (Salvatore viveva ancora con mamma e papà) e per fortuna non era nulla di grave come si potrebbe pensare. Non c’era alcun danno a cui riparare o promesse da mantenere, se non la voglia di vedere l’Italia anche se in uno dei posti più sfigati della penisola.

In realtà poi Felicia, o Felizia come credo si pronunci, in quella settimana della riviera ligure non ha visto nulla. A nemmeno ventiquattr’ore dall’arrivo e dopo aver disfatto la valigia nella camera degli ospiti di Salvatore si era beccata un’influenza di quelle con febbre a quaranta che ha imposto un cambio di programma per entrambi. Niente stemperamento della sua presenza grazie alla compagnia, che poi magari sarebbe riuscito anche a smollare Felicia o Felizia come si pronuncia a qualcun altro. Niente visite guidate alla zona in modo da aver qualcosa da fare e di cui parlare (in inglese, of course). Niente di niente se non stare in casa con una malata, guardare la tv in italiano, ascoltare musica e dedicarsi alla conversazione forzata. Niente sesso. Questo il primo giorno. Il secondo. Il terzo. Poi Salvatore ha iniziato a lasciarla sola in casa con i suoi genitori, la febbre ci ha messo un po’ a scendere ma la barriera linguistica aveva accelerato la fine degli argomenti di conversazione già dopo qualche ora.

Di tutta questa storia resta solo la mia invidia per il Polivoks, anche se so che quando si guasta poi trovare ricambi o farlo aggiustare è quasi impossibile. I miei cimeli dell’URSS si riducono a un paio di spillette di Lenin e vario materiale di propaganda raccolto durante la visita a un mercantile sovietico ai tempi delle elementari, con i marinai che guardavano a noi bambini con quell’appetito che è diventato proverbiale e con lo stesso con cui Felicia o Felizia come si pronuncia aveva osservato quel poco di Italia prima di ammalarsi. Allo stesso modo sono convinto che l’odore dell’Unione Sovietica fosse lo stesso che ho sentito lungo gli stretti corridoi di quella nave, mentre in un linguaggio di una difficoltà che non ha confronti qualcuno che non ricordo bene mi stringeva la mano e mi appuntava una stella rossa sul bavero della giacca blu.

non c'è nulla che mi sorprenda e quando capita sono pronto a scattare una foto

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Gli orari sono uno dei paradigmi della nostra società e fanno parte di quella manciata di regole intorno alle quali ruota tutto, insieme al buon senso, l’educazione, l’igiene, l’amore e Internet e sono le prime che mi vengono in mente. Gli orari sono fatti per essere osservati perché favoriscono incontri quando si rispettano e scontri quando invece no. Il ritardo è una delle principali piaghe della nostra economia perché basta un minuto in più in Nuova Zelanda che con un effetto domino che non possiamo nemmeno capire qui in Italia ci scappa il Frecciarossa sotto gli occhi, anzi è più facile il contrario, ovvero che basta un’ora di ritardo di un treno qui in Italia (e non faccio commenti) che in Nuova Zelanda milioni di occasioni per salvare le sorti di persone animali e cose vengono sprecate.

Questo per banalizzare la questione degli orari condivisi, quelli che ci legano agli altri, che uniscono persone in anticipo desiderose di incontrarsi e dividono altre in attesa da un pezzo. A me interessano gli orari individuali, quelli che quando uno li infrange al massimo ci rimette lui e nessun altro. Gli impiegatucoli come il sottoscritto sono fermamente vincolati agli orari individuali e lasciate perdere tutto il pippotto sul telelavoro perché lo so che certi mestieri uno potrebbe anche farli alle tre di notte e in pigiama a casa, ma sarebbe bello se poi il resto del mondo riconoscesse questi diritti e invece sapete bene che non è così.

A me l’assenza di un orario fa un paura perché di troppa libertà non sappiamo che farcene e credo anche a voi, a meno che non apparteniate alla categoria degli “Into the wild” che poi ci tocca venire a soccorrervi su un autobus abbandonato alla mercé dei ghiacci. Nella mia normalità dalle nove alle diciotto pausa pranzo compresa per quasi vent’anni so a memoria tutte le stagioni e quello che ogni giorno mi lascio alle spalle quando varco l’ingresso dell’agenzia e quello che ritrovo sulla strada del ritorno. Tutte le gradazioni di luce in base alla stagione e i colori delle foglie in Piazza Grandi e quelli del parco che attraverso per rientrare a casa, con il campo da basket blu e giallo.

Non c’è nulla che mi sorprenda e quando capita sono pronto a scattare una foto, filtrarla con la prima app che mi capita sotto tiro sullo smartphone e mostrare agli altri che qualcosa di diverso esiste sul serio per infondere speranza che basta aspettare e una variante capita a tutti. Nulla però che possa essere paragonato a quando gli orari li infrango di ore. Sgarrare un paio d’ore sulla tabella di marcia vuol dire essere pronti a cambiare tutto, anche solo per una volta. Gente, arredo urbano illuminato dai lampioni, il languore dell’appetito perché anche lo stomaco ha un orario, assenza di rumori e quei pochi che percepiamo diversi e nitidi, l’adattamento del corpo alla straordinarietà, attese più sopportabili, pensieri dilatati, occhi più rossi e affaticati, respiri rarefatti. E in famiglia ci si scopre più temerari. “Sai cara, oggi ho compiuto un’impresa. Ho provato una trasgressione, sono tornato a casa due ore dopo”.

la vita è quel fenomeno che nei primi vent'anni ci butta contro le cose alla rinfusa e nei rimanenti sessanta ce le spiega per filo e per segno

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La vita è quel fenomeno che nei primi vent’anni ci butta contro le cose alla rinfusa e nei rimanenti sessanta ce le spiega per filo e per segno. In altre parole, c’è un primo periodo che dura maledettamente poco in cui ci capita di tutto e siamo protagonisti attivi delle nostre esistenze e passivi di quelle altrui ma è talmente tanto quello a cui siamo sottoposti che altro non possiamo fare che vivere e basta. Ma non dovete preoccuparvi perché poi avete almeno altri sessanta o settant’anni per cercare di capire quello che vi è successo perché tutte quelle cose lì ve le ritroverete dappertutto. La vita adulta, terza età e vecchiaia compresa, è un unico lunghissimo master di specializzazione in cui appunto hai la possibilità di capirci qualcosa soprattutto perché ogni due per tre ti viene fatto notare che agli albori della personalità qualcuno e qualcosa hanno contribuito a farti dei danni, con tanto di nomi e cognomi. Non che da grandi non ci siano contenuti originali di cui fruire, anzi. Però nel periodo dei nostri esordi nelle cose del mondo è come se scrivessimo il codice di un programma che poi deve tirare avanti per un bel po’, e maturando o almeno provandoci si trova il sistema per fare il debug perché comunque lo abbiamo compilato un po’ alla carlona, d’altronde avevamo ben altro da fare a partire da spaccare tutto, fare sesso, procacciarci un titolo di studio, provare tutte le droghe e gli intrugli possibili e immaginabili, seguire ideali poco proficui, fare ancora sesso, andare ai concerti, fare e disfare band, ballare, passare notti insonni, correre pericoli, correre e basta, fermarsi per fare sesso ancora una volta, riprendere a ballare. Così se ci riuscite provate a fare una sintesi. Oggi faccio cosà perché a tredici anni ho deciso così, oggi reagisco in questo modo perché quando ne avevo diciassette ho subito in quell’altro modo. Quindi mi raccomando applichiamoci con impegno perché non è detto che questo corso intensivo su noi stessi non ci sia utile nella nostra attività di genitori, sempre che i nostri figli abbiamo tempo da dedicarci visto che sono sotto i vent’anni e la vita a loro, come a noi anni fa, gli sta buttando addosso le cose alla rinfusa e se cerchi di spiegarglielo mica ti danno retta.

affrontare la settimana for dummies

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Andate a letto presto la domenica sera, intanto, questo è il punto. Il lunedì si rivela quasi sempre al di sotto del grado di minacciosità con cui lo avevate paventato la domenica sera prima di coricarvi presto. Siete talmente carichi di disperazione per il lunedì che alla fine non c’è mai nulla di insormontabile. La mattina vola via tra una lamentela sul fatto che è lunedì mattina e le varie occasioni per trarre un bilancio del fine-settimana appena trascorso, il pomeriggio invece si inizia a fare sul serio ma sono solo quattro ore e passano che non te ne accorgi nemmeno. Alla sera ti chiederesti anche come mai è tutto qui, ma la sera del lunedì è quasi sempre di dominio della palestra, dello sport, della costrizione all’attività fisica. Il lunedì così la spuntiamo sempre e ciò è utile perché il martedì pensiamo che avendo tenuto testa al lunedì figuriamoci quel surrogato di lunedì che è il martedì. Se il lunedì ha piovuto – di lunedì piove sempre – il martedì invece c’è nuvolo, ti porti l’ombrello che poi lasci sul treno ma tanto non ti serve. Il martedì si comincia a pianificare la settimana perché il lunedì l’impatto emotivo non fa rimanere lucidi. Il martedì probabilmente è il primo vero giorno di lavoro ma tanto chi se ne importa, considerando che è già il secondo. Di martedì sera c’è sempre qualcosa di interessante in TV e così ecco il mercoledì che rappresenta la simmetria della settimana. Il mercoledì c’è il cielo sereno e la mattina è l’ultima fatica prima dello scollinamento, ovvero il passaggio alle 13 nella vetta del centro della settimana lavorativa. Superato il passo inizia la discesa, prima ardita dopo sempre più accomodante, verso il venerdì sera. Il giovedì, poi, come dice anche una canzone dei Cure, potrebbe anche non iniziare nemmeno. Giovedì è la vigilia della vigilia del giorno di festa, quindi iniziano i preparativi. L’unica menata è che il giovedì spesso fa il paio con il lunedì per lo sport, ma usciti dalla doccia e rivestiti dopo l’ultima vera fatica della settimana possiamo stare tranquilli che fino al lunedì dopo – e quindi il fine settimana è libero – non è prevista nessun’altra attività motoria, a parte l’Ikea della domenica e scusate lo spoiler. Venerdì c’è un sole che spacca le pietre ed è incredibilmente sempre primavera anche in inverno o nelle altre stagioni. Al venerdì ci è concesso tutto, anche bere la birra a pranzo con i colleghi tanto è venerdì e poi, diciamocelo, chi è che inizia un progetto nuovo di venerdì tanto poi c’è la pausa in mezzo e si salta a lunedì quando ci si sarà dimenticati di tutto? Ecco, a vederla così la settimana non fa mica tanta paura. Sono solo cinque giorni che voleranno prima che voi finiate questo post. L’importante è filare a letto presto la domenica sera. Questo è il punto.