insert coin

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Mi chiamo Moneta di cognome ed è per questo che di storie sui soldi ne so a pacchi ma raccontare storie, si sa, non è una passione redditizia. Di soldi puoi scrivere quanto vuoi ma alla fine ne vedi ben pochi.

Mi chiamo Moneta di cognome e una volta sul lavoro per scherzare mi hanno soprannominato Soldino, come quel personaggio dei fumetti. Sono genovese e da noi il denaro è una tradizione, per alcuni un fine, per altri un’ossessione, di certo è un aspetto che fa parte della nostra cultura da secoli per questioni di commerci e di banchieri, più che di prestigio, e ancora oggi quando pensi alla mia città ti vengono in mente le barzellette e gli scozzesi. Io dico che si tratta di parsimonia ma non faccio testo, non ho voce in capitolo perché mia madre, che è molto anziana, e mio papà, che è mancato da poco, malgrado siano liguri come me, hanno sperperato i risparmi durante la loro vita per riempirsi di cose. Cose e beni di tutti i tipi: utili e inutili, resistenti e usa e getta, da esporre e da divorare, da conservare nel congelatore e da stipare in dispensa, di qualità e di pessimo gusto, alla moda e senza tempo, pagandole in contanti e sottoscrivendo rateizzazioni, su CD e in vinile, a fascicoli settimanali e rilegate in cofanetti, da collezione e da tanto al mucchio.

Mio papà, anche lui fa di cognome Moneta, quando è andato in pensione non aveva amici e così, per passare il tempo, ha iniziato a catalogare tutte le cose accumulate nel corso della vita perché aveva paura di sprecare soldi comprando dei doppioni. Quando è morto, mia mamma ha provato a continuare il suo lavoro ma ha dovuto ammettere che il metodo scelto era estremamente complicato e, malgrado ci tenga tutt’ora per questioni affettive, credo che abbia desistito anche se non vuole ammetterlo. Un aspetto che sottolineo spesso, parlando di loro, è che si sono comprati tutto tranne la casa, con il risultato che avrò in eredità tantissime cose, alcune anche di valore, ma senza un posto per contenerle, il che è buffo. Non so nemmeno se riuscirò a svenderle per tirare su qualcosa per comprarmelo, il posto per contenerle, ma a quel punto, se dovessi riuscire nell’impresa, non avrò più le cose che nel frattempo ho venduto e quindi una casa non servirà più. Un corto circuito. Un bel dilemma. Un bel casino.

Mia nonna, la mamma di mio papà, quando viaggiava teneva i soldi nel reggipetto e segnava le spese sulla carta per alimenti, mi basta chiudere gli occhi per vedere la sua calligrafia e i numeri scritti a matita nera su sfondo color carta per alimenti. Se esistesse un nome o un valore esadecimale o una sigla per il pantone corrispondente alla carta per alimenti la avrei già usata prima, quindi prendetevi il riferimento così com’è e sforzate un po’ l’immaginazione. Considero quindi nonna Moneta – per lei era il cognome da coniugata perché quello da signorina era Cambiale, e non sto scherzando, provate a googlarne la veridicità – la capostipite di una dinastia di spreconi. Mi spiace ma non ho informazioni sui bisnonni e chi li ha preceduti, quindi non conosco le radici di questo albero genealogico di sciagurati. Mia mamma, per dire, pur essendo una Moneta acquisita ha fatto suo sin da subito l’approccio naif alla gestione delle risorse famigliari. Ho interpretato questa attitudine come una diffusa conseguenza di aver vissuto tempi magri durante la guerra, che in fondo è il motivo con cui una volta si giustificavano gli eccessi e le stranezze della nostra gente.

Vi do un altro spunto, poi fate voi. Il mio sogno proibito è quello di trovare una busta bianca, anonima e senza nessuna indicazione, contenente una mazzetta di banconote da cinquecento euro. Ho previsto tutto, naturalmente: la criminalità organizzata dell’est, radicata nel tessuto economico della città, impone il pagamento del pizzo ai commercianti ed esige interessi da usura in caso di inadempienze. Il gestore di un esercizio molto frequentato e utilizzato per il lavaggio di denaro sporco si presta a soccorrere economicamente a domicilio un amico taglieggiato con un prestito, ma smarrisce per strada la busta con i ventiquattromila euro (quarantotto banconote da cinquecento) che gli occorrono, così è costretto a scappare via perché non potrà mai ripagare l’ammanco e in più il suo eroismo non è servito a un bel niente. Immagino possa aver tentato il percorso a ritroso per cercarlo ma, in evidente affanno e in confusione per la situazione, non è il primo a non saper mantenere il controllo nei momenti difficili, va in tilt fino a rinunciare. Io – senza sapere nulla – passo da lì poco dopo rientrando dall’ufficio e, con il mio solito sguardo verso terra, noto la busta e il gioco è fatto. Non essendoci nessun indizio sul proprietario posso esimermi dal sentirmi in colpa. Ho trovato i soldi, i soldi non si sa di chi sono, i soldi sono i miei.

Non si tratta nemmeno di una cifra per la quale uno debba cambiare vita o lasciarsi soverchiare dallo stress per i risvolti che una ricchezza improvvisa e spropositata può comportare. Vinci otto milioni di euro, per dire, e vai nel panico perché puoi essere vittima di rapimenti o peggio o, nel migliore dei casi, non sai a chi dirlo per paura che se ne approfittino, sei nel dubbio se smettere di lavorare o se dividere la somma con parenti e amici, cose così. La ricchezza può mettere nei guai, ci dev’essere un modo di dire a proposito ma, al momento, non mi viene in mente. 24mila euro, al contrario, sono una sciocchezza, un anno e mezzo di lavoro, li metti sul libretto postale di tua figlia o ristrutturi il bagno perché di quelle piastrelle verdi del capitolato popolare anni 70 scelte dal geometra dell’impresa non ne puoi veramente più. La realtà però è che mi chiamo Moneta di nome ma non di fatto, anche quando si tratta di banconote. Non ho mai trovato granché per terra, malgrado lo sguardo in basso. Diecimila lire sotto il portone di casa che sono corso subito a investire in riviste musicali, qualcosina in più uscito da un bar che si chiamava Stravinsky, ma quella volta sono rientrato e ho offerto da bere persino agli sconosciuti e si tratta dell’unico caso davvero significativo, prendetelo come la metafora della mia vita.

Ma si rischia grosso anche a girare senza soldi. In certi casi la scusa che non hai contanti perché tanto c’è la carta di credito non se la beve nessuno. Ci sono i poveri agli incroci che chiedono aiuto, tanto per iniziare. In macchina tengo sempre una moneta da un euro per il carrello della spesa, ma non è che si può dare un euro ogni volta che qualcuno ti chiede una mano. Se sono a piedi e ho solo qualche centesimo, invece, mi vergogno e preferisco tirare dritto. Vi ricordate quando era tutto uno slalom tra tossici che ti chiedevano cento lire? Un altro Roberto, non l’amico che sta scrivendo questo racconto tutto sgrammaticato su di me ma uno che poi è veramente morto nel modo in cui si moriva per l’eroina e, come lui, anche le sue due sorelle, quel Roberto lì ti fermava per strada e frugava nelle tasche dei ragazzini – io avevo dodici anni – quando gli dicevi che sul serio, eri al verde.

Poi per essere poi uno che si chiama Moneta, e mi vergogno un po’ a scriverlo, io di economia non ci ho mai capito un tubo. Ma proprio niente. Non ho mai compreso perché, per esempio, per risolvere i problemi di debito e di povertà o una qualsiasi delle crisi di cui sento continuamente parlare da quando sono nato, non sia sufficiente stampare più banconote e distribuirle a chi ne ha bisogno. Lo so, è una sciocchezza grande come una casa, tanto che me ne guardo bene da scriverlo in un racconto a da chiederlo a qualcuno, anzi forse una volta l’ho fatto, ma ero a una cena, avevo bevuto, e della paziente spiegazione che ne è seguita non mi è rimasto nulla. Per scendere ancora più terra-terra, ammesso che più di così sia possibile, quando svolgevo la mia attività di libero professionista con partita IVA non ne comprendevo nemmeno gli aspetti più elementari, il giro dei soldi che entrano e quelli che escono e il fatto che, alla fine, di un pagamento ricevuto rimanesse sempre così poco. Se non esistessero i commercialisti sarei un uomo finito. In un impeto di orgoglio ho persino tentato un esame di Macroeconomia all’università, frequentavo tutte le lezioni, ma poi il docente aveva iniziato a canzonarmi per la mia capigliatura, aveva intuito il mio essere tabula rasa in materia e la difficoltà che, della materia, mi potesse rimanere qualcosa. Mi chiamava persino alla lavagna a dimostrare le teorie che c’erano scritte sui libri e negli appunti così dalla vergogna mi sono arreso e ci ho rinunciato. Devo avere ancora il libro di testo, però, da qualche parte.

I soldi, poi, non sono mai abbastanza. Questa è una banalità che mi diceva sempre Sandra, che era l’unica con cui malgrado la mancanza di argomenti potevo avere uno schietto confronto professionale. Parlo al passato perché non lavora più qui. Ho ancora vivo il ricordo di certe lunghe discussioni sulla bellezza delle parole che trovavamo nelle idee per le quali ci chiedevano di spremerci, in ufficio. Sandra poi faceva altro nel tempo libero perché aveva bisogno di arrotondare, e io le facevo notare quanto fosse delizioso il suono stesso di quel verbo. Arrotondare, come se smussare gli angoli consentisse guadagni extra e, se fosse così, ci dicevamo che tanto valeva farlo di mestiere. Te lo immagini?, mi chiedeva. Passare in rassegna le forme delle cose per levigare gli spigoli e, in senso lato, farlo anche con le persone, ma tutto questo fuori dall’orario lavorativo per ottenere profitti in più, magari in nero. Di qui il significato tetro e ambiguo dei contanti in tasca fuori controllo, quello dell’Agenzia delle Entrate, soldi che poi si purificano una volta spesi nemmeno fossimo noi un’associazione a delinquere che ha bisogno dei negozi per far circolare le banconote, o le banconote circolari senza angoli quindi arrotondate anch’esse, ancora un corto circuito o il gatto che si morde la coda finché a osservarlo non ti gira la testa e, se cadi, meglio che non ci siano angoli, quindi finivamo daccapo.

L’ultima cosa la voglio però tenere per me perché non saprei come spiegarla. Diciamo che se potessi riassumerla in un titolo la chiamerei “come fare i soldi scrivendo”. Qualche sera fa ero fuori a cena con il direttivo del Club degli Autori, i colleghi con i quali ci contendiamo le prime posizioni delle classifiche di vendita alternando sul mercato editoriale i nostri best seller in modo studiato ad hoc per non sottrarci il già ridotto pubblico degli appassionati. A turno ci siamo raccontati quando è stato il momento in cui abbiamo capito che stavamo dando alla luce un’opera “più duratura del bronzo”, per dirla come quell’autore che abbiamo al liceo. Un giochino delle verità che ho proposto perché è una gag che ripetiamo spesso a casa, mia moglie ed io. Lei non si capacita del fatto che ci siano compositori musicali che mentre mettono insieme accordi e testo di una canzone non si rendono conto di stare lavorando a un pezzo epocale. Mi dice quindi “ma i Cure mentre registravano Seventeen Seconds sapevano di stare per pubblicare uno dei dischi più influenti per la musica che è venuta dopo?” oppure “ma David Bowie scrivendo il testo di Life on Mars non si rendeva conto di aver per le mani una delle canzoni più di successo della storia di tutti i tempi?”.

Allora per scherzare ogni volta che c’è qualcosa che vale la pena enfatizzare – di qualsiasi disciplina artistica o sportiva o anche culturale in genere – tiriamo fuori il dialogo della coscienza delle proprie capacità. Così con gli amici di penna (nel senso dei colleghi autori) ho voluto provare la consapevolezza reciproca dell’ammissione della responsabilità. D’altronde con i nostri libri generiamo esperienze di lettura, creiamo immaginarie vite parallele in cui perdere il filo di quelle vissute in prima persona, forgiamo opinioni, e di questi tempi di gif animate e democratizzazione della condivisione delle opinioni non è poco.

Qualcuno ha ricordato di essere entrato in trance compositiva e, uscitone, di aver ammesso di non aver mai letto qualcosa di simile a quanto aveva appena terminato. Altri hanno visto salire come il contatore dei distributori di benzina quando fai il pieno la lista dei follower e degli amici e in quattro e quattr’otto si sono trovati con decine di migliaia di visite, download, inviti a talk show. C’è persino quello che per dedicarsi alla narrativa si è licenziato e ha deciso di sfruttare l’istinto di sopravvivenza – che quando non hai un lavoro è assai complesso da gestire – per impegnarsi a fondo nel mestiere che voleva fare più di tutti gli altri e nel giro di qualche settimana era già uno scrittore di grido.

La mia storia, ve lo assicuro, ha però fatto sorridere più di tutte le altre. Era mezzanotte passata, dovevo ancora preparare un preventivo per lavoro e, sempre per lavoro anche se non sembrerebbe, pensare a un dialogo finto da inserire al posto di quello vero sulla scena di “Non ci resta che piangere” in cui Troisi e Benigni spiegano a Leonardo il termometro. La mia versione doveva avere come argomento la “trasformazione digitale” ma, come potete immaginare, non mi veniva in mente niente. Così mi sono inventato una storia come questa, in cui facevo finta di essere uno scrittore affermato che parlava di quella volta in cui, con altri autori amici, a turno ci siamo raccontati quando è stato il momento in cui abbiamo capito che stavamo per dare alla luce un bel libro. La storia poi l’ho messa in un racconto per un concorso e, mentre lo facevo, ho pensato che dev’essere un po’ come quando fai scivolare una moneta in uno di quei videogiochi da bar di una volta per rispondere all’invito scritto in inglese “Insert Coin”. La senti rotolare lungo un percorso tutto in discesa fino al tonfo metallico sulle altre monete dei giocatori che ti hanno preceduto. Dopo schiacci il pulsante per iniziare a giocare e il resto viene da sé.

mai dire Miles

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Se un giorno mai farò l’insegnante di qualcosa la prima cosa che dirò appena entrato in classe, il primo giorno di scuola, posati libri e quaderni sulla cattedra e sinceratomi che tutti sono in silenzio e attenti, qualunque sarà l’età, l’ordine o il grado dei miei discepoli – detta alla latina – la prima cosa che dirò appena entrato in classe sarà Miles Davis. D’altronde pensate a quante volte al giorno pronunciamo parole senza significato come Facebook, moccaccino, influencer, accattivante, buona vita, design thinking, taggare. Il primo minuto di scuola guarderò tutti negli occhi e dirò Miles Davis e cercherò di captare i pensieri di ritorno che saranno So what?, jazz modale, Bitches Brew, Bill Evans o Ron Carter, che per suonare il basso era uno piuttosto alto. Forte di questa energia di ritorno, il secondo giorno senza nemmeno sondare la reazione del mio uditorio circa l’iconografia che deve campeggiare in un tempio dell’istruzione pubblica appenderò sul muro alle mie spalle, a fianco di Mattarella, quella foto di Miles Davis vestito di blu elettrico che suona jazz rock in un festival presentato da una voce che parla tedesco, curvo sulla tromba già con quella faccia con gli occhialoni scuri da mosca e quella pettinatura improbabile con cui ce lo ricordiamo verso la fine dei suoi giorni. Ascoltavamo Tutu proprio Rossella ed io quella volta in cui ho scoperto il suo difetto di pronuncia che prendeva il sopravvento quando si esigevano spiegazioni da lei. Io a Rossella non volevo cedere anche se i suoi modi erano difficilmente equivocabili e così le avevo parlato proprio di quello che legava me a Marcus Miller e a una ragazza che mi stavo inventando per non offendere Rossella con il mio rifiutarmi, confermandole che mi ero innamorato e non avrei potuto stare con nessun’altra e non era solo una questione di jazz elettrico o di fusion, a seconda di come vedi le cose. Gianluca invece era già stato con Rossella alle superiori e lui, a differenza di me, non si era fatto molti problemi. Viveva alla casa dello studente e aveva uno dei primi lettori CD portatili usciti in commercio, anche se certi dischi non erano ancora stati ristampati nel nuovo formato e tutto il periodo con Coltrane circolava ancora su cassetta. Per lui la pronuncia di Rossella non faceva la differenza, diceva che tanto in certi momenti si sta in silenzio o la bocca è impegnata a fare altro. Rossella e Gianluca sono stati insieme un po’ e la cosa non mi ha stupito, visto il carattere disinibito di entrambi. Sono rimasto più sospeso del fatto che oggi Gianluca dirige una casa editrice. Miles Davis poi è morto, se non ricordate come è successo cercate informazioni in giro perché a lui dovrebbe essere dedicata l’ultima pagina di ogni libro di storia. Al massimo ci penserò io a sistemare le cose, se un giorno mai farò l’insegnante di qualcosa.

quando si scarica la batteria della macchina ricomincia tutto da capo

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Almeno il pieno controllo sui calendari dei nostri gingilli elettronici ci è stato lasciato, questo ci dà l’illusione di impostare i valori di misurazione del tempo come ci pare e piace, che poi questo non abbia nessuna conseguenza sul divenire delle cose è un altro discorso. Sono rimasto con la batteria della macchina a terra, qualche tempo fa. Quando l’ho sostituita e il cruscotto si è riacceso segnava il giorno in cui probabilmente il suo sistema di bordo è stato programmato, una data remota di dieci anni fa quando mia figlia si apprestava a lasciare l’asilo nido. Un po’ come se tutti noi avessimo segnato nel nostro codice a barre questo valore di fabbricazione, anzi possiamo dire che è proprio così.

Ma con certe agende elettroniche possiamo muoverci tra futuro e passato molto meglio del buon vecchio Marty McFly. Proprio mia figlia ha sfidato Google Calendar per verificare fino a quanto riuscisse a spingersi in avanti e ha impostato un appuntamento per il 15 agosto 3008. Anzi, ha deciso che quella potrebbe essere la vera data ufficiale della fine del mondo. Amici posteri, se in qualche modo tra un paio di millenni riuscirete ad avere sottomano la fuffa dei socialcosi o, meglio, la mia fama imperitura sarà sopravvissuta allo stesso modo in cui oggi ci dilettiamo con gente del calibro di Eschilo e compagnia bella, sappiate che mia figlia non aveva nessun intento di portarvi sfiga e prendete questa cosa come noi, qualche anno fa, abbiamo inteso la profezia dei Maya. Sempre che, nel frattempo, l’avvento di una data super-palindroma come il 21-12-2112 non abbia fatto piazza pulita di tutto.

Ho chiesto così a mia figlia di invitarmi tramite Google Calendar a quell’evento decisivo che aveva appena programmato e, negli istanti che hanno preceduto la condivisione dell’appuntamento, sono successe due cose importanti. Stavo rientrando a casa attraversando una di quelle vie che nessuno mai percorrerebbe a piedi (oddio, io ogni tanto ci passo quando vado a correre ma la mattina prestissimo, e la cosa non dà nell’occhio a nessuno) e ho superato una ragazza che camminava da sola. C’era un forte vento che le scompigliava dei capelli lunghissimi e le faceva volare un sacchetto di nylon di una nota marca di abbigliamento cheap che teneva in mano. Inutile dire che era domenica pomeriggio e c’era pure il sole i cui raggi sembravano perpendicolari al mio parabrezza e facevo fatica a riconoscere gli ostacoli. A parte noi e quella ragazza non c’era nessun altro in giro, per fortuna. Ho pensato così che il giorno di ferragosto del 3008 potrà essere una giornata come quella, con il polline spinto dal vento che ricorda la neve e la superficie della terra, nel suo ultimo giorno, gremita di persone che la percorrono in completa solitudine senza riconoscersi a causa del sole negli occhi.

le dieci cose più belle da fare la domenica sera

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Si è fatto tardi e, se leggerete questo articolo domani, mettetevi l’URL tra i preferiti e conservatelo per domenica prossima. Nel frattempo dategli un’occhiata e scegliete il modo che vi ispira di più per trascorrere la domenica sera; il mio consiglio infatti è di provare le seguenti procedure una per volta, tanto avete tutto il tempo che volete per passare sai quante domeniche sere tra ora e l’eternità, quindi tanto vale andare per gradi e poi, terminato l’elenco, ripartire da capo.

Intanto però inizio da una cosa che sicuramente non dovreste fare, che è starvene davanti alla TV, inteso come passare in rassegna i canali senza una meta ben precisa. Tempo qualche minuto e vi ritroverete sconfitti alle undici circa con le palpebre che si chiudono e vi addormenterete con il senso di colpa di aver sprecato una sera preziosa come la domenica sera. La domenica sera è importante e allo stesso tempo ricca di insidie psicologiche, per così dire. Per questo occorre affrontarla con dei programmi ben precisi e lo zapping, al 90% occupato da trasmissioni sportive, proprio non fa per noi.

Non caso al primo posto si conferma di diritto la visione di un film, è ammesso questa volta l’uso della TV anche se la morte sua, converrete con me, che è al cinema. Magari una di quelle sale un po’ alternative in cui non ci sono i bassi pompati e i bulacchi di popcorn ma solo pochi interessati all’ultimo di Kaurismaki, avete presente il tipo?

Se avete amici invitateli a cena a casa (siamo passati al secondo punto), preparate qualcosa di raffinato e tirate tardi per finire le bottiglie di vino con cui avete innaffiato le diverse portate. Le chiacchiere in compagnia sono al secondo posto solo perché è un po’ più complessa l’organizzazione. Dovete aver fatto la spesa, avere la sala da pranzo tirata a lucido e dedicare minimo un paio d’ore a preparare qualcosa di accettabile, ma il risultato è assicurato e le grane del lavoro non si presenteranno se non dopo aver caricato la lavastoviglie.

Se vivete in una bella città, non c’è niente di meglio che farsi quattro passi nei luoghi più suggestivi, respirare l’aria di primavera – se è primavera, contemplare la città che si appresta ad abbandonarsi al riposo prima di risvegliarsi la mattina dopo più operosa che mai. Ma la notte, al buio, vi darà la stessa sensazione di un posto mansueto ed accogliente. Cercate solo di non fare troppo tardi.

Se invece vivete in una bella città ma è tutt’altro che primavera non è male passare la domenica sera in macchina in un punto panoramico o in una bella piazza ad ascoltare musica con qualcuno, magari con un mignon di Cognac da spartirsi come si faceva ai tempi del servizio militare, tutti infreddoliti e costretti alle guardie notturne.

In posizione stazionaria anche il classico dei classici, cioè mettersi in poltrona con il plaid addosso e il gatto in braccio a leggere, qualsiasi cosa non necessariamente dei classici, non lasciatevi trarre in inganno da cosa ho detto prima. Il rischio è crollare dopo qualche pagina: non c’entra se la storia ti prende o no, la domenica sera è comunque la fine di un ciclo, inevitabile che restino ore e minuti di arretrato di riposo da recuperare.

Non l’ho messo prima per non far la figura di chi pensa solo a quello, ma infilarsi a letto con il proprio partner e darci dentro come si deve è un bel passatempo epicureo utile a scacciare tutti i crucci del giorno dopo. Provate ad addormentarvi poi sfiniti, magari lasciando una candela accesa che vi sveglierà in piena notte e, spegnendola con un soffio, vi tornerà in mente il perché la fiamma era rimasta viva.

I musicisti non amano suonare con il proprio gruppo la domenica sera e non li biasimo certo per questo, lo sapete che sono un ex non pentito. Le prove disperdono sforzi ed emozioni e, svanita l’ultima nota dell’ultima canzone, ci si sente svuotati e vulnerabili a quello che ci aspetta dopo. Da evitare soprattutto se siete soli nella vita, meglio un film o un libro, fidatevi.

Non so invece se gli sportivi organizzino partitelle tra di loro, vadano a correre (io mai la domenica sera) oppure si allenino per gli incontri programmati in settimana. Se fossi un sportivo però eviterei, le endorfine prima di coricarsi non collaborano con il desiderio di chiudere gli occhi e non pensarci più.

Vi lascio con l’ultimo punto anche se è il nono perché è il mio preferito. Adoro ascoltare i dischi la domenica sera. Spegnere TV e Internet e ascoltare musica sullo stereo di casa, scegliere l’ellepi più adatto e lasciarlo suonare dal primo all’ultimo pezzo. Più di tutti mi piacciono gli ascolti importanti, quelli che hanno fatto la storia e, se è così, è perché c’è un motivo. Poi finito il disco si passa a quello successivo. La domenica sera è bene che sia all’insegna della musica preferita, e vedrete che tutto quello che angoscia passa e va via.

La decima, però, fatemi una cortesia: aggiungetela voi.

alcune cose a cui attaccarsi, e no, quella a cui state pensando non c’è

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Mi piacciono le esperienze itineranti solo a patto che poi si torni a casa. Questa è una costante della mia vita e non mi stancherò mai di dirlo e se mi stancherò tornerò comunque a casa mia per riposarmi. Per esperienze itineranti intendo cose come i tour che fanno i musicisti. Vai in un posto più o meno lontano, allestisci il tuo set di strumenti sul palco, fai la prova suoni, poi se sei in una bella città mangi e bevi qualcosa da qualche parte e ti dai un’occhiata intorno, magari qualcuna di quelle persone mai viste che incontri verrà a sentirti, molto più probabilmente no. Poi torni nel locale e fai il tuo show davanti al fonico e una dozzina di gente che è lì per caso, quindi finisce tutto, smonti e malgrado l’aspettativa come al solito delusa l’esperienza in sé è bella e sei già pronto a ripeterla perché c’è la passione, che raramente si consuma. Basta però che prima si possa rientrare a casa propria, anche tardissimo, a me piace così. Resta comunque qualcosa delle esperienze itineranti, soprattutto del tipo che vi ho appena descritto. Un modello riproposto in luoghi differenti ogni volta che si irradia da un centro che poi inevitabilmente ti attira verso di sé. Oggi faccio un diverso tipo di esperienza itinerante, e se vi dico cos’è scommetto che vi metterete a ridere.

Ogni sabato o domenica mi reco in una struttura sportiva diversa per accompagnare mia figlia agli incontri del campionato di pallavolo a cui partecipa la sua squadra. Anche in questo caso si tratta di uno standard che si ripete senza problemi all’interno di contesti che cambiano ogni volta. Si va, loro giocano, noi adulti aspettiamo, si vince o si perde, ci si diverte o ci si annoia, si torna a casa commentando le prestazioni di questa o quella atleta. Può sembrare una cosa da poco, lo so, ma nella vita ci sono anche queste piccolezze, sono certo che anche voi avete le vostre. C’è però una costante che è poi il punto a cui volevo arrivare. Le squadre avversarie, ogni anno e a ogni campionato, alla fine sono sempre le stesse. I tornei sono provinciali ma le federazioni cercano di formare gironi in modo che le famiglie non debbano spostarsi troppo distante da casa, il che è una forma di attenzione che gradisco particolarmente. Ne consegue che le palestre in cui si disputano gli incontri, dopo un po’, le ritrovi uguali a loro stesse dall’anno prima, con le loro strutture spesso trascurate, muri scrostati, attrezzature consumate, il tutto rimesso all’impegno delle associazioni sportive e dei volontari che le mandano avanti con il tempo che vi dedicano. Io spesso scatto una foto a un particolare. Un canestro, un angolo del parquet con la sovrapposizione delle linee che delimitano i vari campi di gioco delle diverse discipline, una lampada del soffitto ricoperta di polvere, i bocchettoni dell’impianto di riscaldamento. Poi prendo un caffè, in occasione delle partite c’è sempre una mamma o un papà che si improvvisa barista in un angolo con quelle macchinette a capsule, anche in questo caso per finanziare la società di casa. Faccio le foto perché così mi attacco anche a questi dettagli che forse, quando li rileggerò tra dieci o vent’anni, non avranno nessun valore oppure no, ci vedrò un motivo per ricordare qualcosa di piacevole. Tanti piccoli momenti, messi insieme, che possono riservare soddisfazioni sorprendenti.

atlante illustrato delle sensazioni, vol. 1

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Alle volte si sente la vita di un figlio battere nel petto e fare le nostre veci nel cuore, nemmeno si trattasse una banale giustificazione per non aver svolto i compiti che il prof. Destino ci ha assegnato per il tempo che ci resta. Si avverte la smania di un tredicenne che abbiamo lasciato ai suoi doveri di cambiare pelle, di cambiare corpo e aumentare la propria età a dismisura, pratica di cui noi genitori siamo ampiamente veterani. Se abbiamo impiantato qualche piccolo innesto di noi in loro, secondo quanto dovrebbe essere in teoria, in quelle sequenze di istruzioni contenute nei codici elicoidali di cui certa ingegneria si riempie la bocca, avvertire con un recettore indistinto da qualche parte dentro di noi (rigorosamente la mattina) quello che i figli sperimentano in quel momento, i palpiti dell’amore che si delinea confuso, gli sconvolgimenti dell’apprendere cose nuove in classe, la consapevolezza di nuove esperienze che vanno strutturandosi in un materiale a noi sconosciuto come risultato di una immaginaria stampante 3D, lo scorgere da qualche parte cose mai viste delle quali si prova una vaga percezione della loro possibile utilità in qualche tempo o in qualche spazio del futuro, capita che questo genere di sensazioni si facciano spazio in noi padri e madri come interferenze di una tv privata sulle frequenze di un palinsesto nazionale, cose che oggi col digitale oramai appartengono a una letteratura di fantascienza popolata da giovani ribelli pronti a colpire e a morire come se la vita fosse un film e i protagonisti loro.

Non so voi ma a me, la mattina mentre mi reco in ufficio, queste incursioni sono frequenti. Mi basta leggere le parole latino e greco in un libro ed ecco che mi sento come lei, la mia di figlia, posare lo sguardo oltre la finestra dell’aula di terza media per chiedere all’ignoto che avvolge la scuola che cosa sarà studiare quelle materie che al momento sono solo nomi indistinti, ma come è molto più probabile il tutto è frutto di quell’impercettibile moto in avanti che hanno i convogli ferroviari, quelli per i quali per qualche secondo non si capisce se ci si sposta da questa parte o dall’altra, in avanti o indietro, se in partenza sia il treno o la stazione e c’è bisogno di qualche conferma prendendo altri punti di riferimento. Dal finestrino entra un raggio di sole, ci sono tangenziali sovrappopolate da autoarticolati all’orizzonte, e nello stomaco si avvertono i crampi della fame di una colazione oramai lontana.

dispense di psicologia domestica

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Oggi Diego Rainetti è uno stimato ricercatore del California Design Institute, uno dei tanti cervelli italiani in fuga all’estero ma da tempi non sospetti, quando qualcosa con cui tirare a fine del mese dalle nostre parti si trovava ancora. Venticinque anni fa Rainetti ha messo a frutto la sua passione per le case che, probabilmente, è un’attitudine che abbiamo tutti sopita da qualche parte e che si manifesta con i brividi e con quella specie di farfalle nello stomaco – che attenzione, a volte viene fraintesa come stimolo a correre in bagno – quando ci fermiamo a osservare migliaia di luci accese dietro alle finestre nelle stanze, da punti di vista privilegiati, per esempio un belvedere o una strada sopraelevata. Oppure la curiosità di infilarsi a piedi in ogni portone aperto, salire le scale e capire come sono disposti gli appartamenti, i colori dell’intonaco delle pareti, il modo in cui l’essere umano è capace a trasformare e personalizzare, l’organizzazione degli spazi e dei volumi nei quali le persone comuni come me e voi si riparano per trovare conforto, separarsi dal resto, fare l’amore, leggere e dormire sul divano.

Ma non tutti siamo in grado di individuare in noi questo stadio ancestrale in cui vive la nostra idea di rifugio – tipico di ogni essere vivente – e andare a fondo, figuriamoci a farne una professione, una specie di “psicologia domestica”. Lo studio di Rainetti sulle mura perimetrali delle abitazioni delle civilità antiche che visitiamo da turisti ci fa capire meglio l’oscenità che proviamo nell’osservare le nostre tane profanate dalle calamità, dall’uomo o solo dal tempo e mette a nudo uno dei nostri tabù primordiali. “Una casa senza un soffitto è accettabile solo nelle canzoni di Sergio Endrigo”, sostiene Rainetti. Per me Diego resta comunque l’amico di sempre, quello che si dilettava come cameraman in una tv locale della mia città. Mi aveva chiamato apposta per segnalarmi un servizio sul tg della sera dedicato a una sfilata di carnevale in cui, per qualche secondo, mi aveva ripreso di schiena tra il pubblico ai lati delle maschere, con la mia giacca blu da marinaio che ai tempi andava molto di moda, il colletto tirato su come riparo dal freddo, e aveva dovuto tagliare il punto in cui mi voltavo perché avevo un’espressione troppo seria e in contrasto con il resto.

la cena dopo l’ultima

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Dimenticatevi delle solite rimpatriate tra compagni del liceo. La mia amica Arianna se li è ritrovati tutti, appena morta, lì che l’aspettavano. Quelle pallosissime pizzate in cui si rimettono in atto tutte le dinamiche che a sedici e diciassette anni funzionavano e a quaranta o cinquanta – per i sopravvissuti – un po’ meno le abbiamo provate tutti ed è per questo che, per nostra fortuna, alla seconda o terza volta l’alto tasso di pateticità e la vergogna di metterci in mostra devastati dal tempo induce anche i più zelanti organizzatori a demordere. Invece così, da morti, è tutta un’altra cosa, tanto sei morto e peggio di così non potrebbe andare.

Certo è che uno non si immaginerebbe mai un comitato di benvenuto di questo tipo. Voglio dire, muori e pensi di rivedere i tuoi genitori, i parenti che ti hanno lasciato da così tanto tempo che non te li ricordi nemmeno più, addirittura David Bowie perché sa della tua venerazione nei suoi confronti e i si prodiga per essere lì a costo zero, nell’aldilà non ci sono i mega-miliardari russi che coprono d’oro le pop star come gli U2 per presenziare alla festa dei diciotto anni della figlia. Da morti siamo tutti uguali e se proprio uno deve sognare tanto vale sognare in grande e sperare ci sia il suo papà e David Bowie che ingannano l’attesa parlando di musica, perché nell’aldilà anche le persone delle generazioni passate comprendono David Bowie, tutti capiscono tutto e non c’è bisogno di spiegargli le cose.

Invece per Arianna non c’era né sua mamma e la sorella morta di overdose, non c’era Freddy Mercury – Arianna va matta per i Queen – ma c’era la quinta D al completo. Luca non era ancora caduto giù sulla scogliera con la 126, Alberto aveva già ampiamente ammesso con se stesso la sua omosessualità, Stefano si era dato pace con il suo sport preferito e persino Roberto si era deciso a studiare con impegno per non rimanere indietro rispetto agli altri. Alessandra era nella versione pre-esaurimento nervoso, Anna non votava ancora i grillisti e Davide era lo stesso figo di sempre. C’erano persino i tre di Varazze di cui Arianna non si ricordava neppure il nome tanto la loro personalità era senza pretese.

Ora non dovete però porvi il problema di come faccio a sapere queste cose, semmai sappiate che è più grave che non sappia come è andata a finire questa storia. Se hanno deciso per una pizzata anche di là o se hanno pensato di rivivere la gita scolastica come nei film quando si guarda al passato, mi riferisco ai polpettoni un po’ datati come “Il Grande Freddo”. Forse è stata solo una coincidenza o invece, per Arianna, quella del liceo è stata l’esperienza più forte mai provata ed è per questo che se li è trovati tutti lì, seduti nei banchi, mentre lei entrava in classe e rimaneva senza parole, poi sorrideva, poi si metteva a frignare, e poi le parole le ritornavano tutte, una per una.

manuale d'uso per le cose che prima o poi si ripropongono

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Con il proprietario della villetta che vedo dal balcone di casa mia non ci salutiamo nemmeno pur vivendo a una manciata di metri di distanza, un comportamento abbastanza comune per noi che abbiamo la residenza nei paesi dormitorio della periferia milanese. Anzi, lo vedo solo dall’alto del mio appartamento mentre si prende cura in modo ossessivo del suo giardino, sapete come diventiamo noi maschi a una certa età. Non saprei quindi che volto dargli, come quando sei abituato a osservare qualcosa da un punto di vista abituale e poi, cambiando prospettiva, non lo riconosci più. Chissà quante volte ci siamo incontrati qui sotto per strada, o dal panettiere, anzi, più facilmente dal Mantegazza che è il ferramenta del paese che non teme nemmeno la concorrenza del Leroy Merlin, senza nemmeno saperlo. Meglio così, l’ignoranza ancora una volta mi ha tolto da un impiccio. Una volta mi ero lamentato con lui perché si era messo a tagliare l’erba di sabato mattina. Mia figlia era appena nata e probabilmente si era appena addormentata, così gli ho fatto notare – urlandogli dal mio balcone – che poteva essere una buona idea approfittare dei giorni feriali della settimana per dedicarsi alla cura del verde se non si ha un cazzo da fare, quando il quartiere è deserto e la gente è al lavoro in centro e non si rischia di disturbare nessuno.

Forse però con il mio comportamento l’ho offeso, facendogli pesare il fatto che lui è anziano e io – almeno ai tempi – no. Certo, se avessi fatto come Lucio che una volta a un tizio gli aveva detto in faccia “vecchio di merda” sarebbe sicuramente stato più grave. Comunque, in tutti questi anni – ne sono passati ormai tredici – mi sono chiesto più volte se non fosse il caso di suonare il campanello della sua villetta e chiarire l’accaduto, anche se magari non se ne ricorda nemmeno più. Un gesto che farei volentieri anche perché gli invidio tantissimo i ragazzini che fanno baccano nel suo giardino la domenica, quando consumano il pranzo tutti insieme, in quella casa, con figli e nipoti. Vedo spesso tre bambini e una ragazzina un po’ più grande che si inventano vari giochi in giardino per rompere la monotonia conviviale, sapete che scocciatura stare a tavola a quell’età con gli adulti che discutono di politica e di immigrati. In giardino ci sono degli alberelli e qualche vecchio strumento di lavoro, un pallone e altre cose. Sono scene che mi ricordano le occasioni in cui trascorrevo analoghe ricorrenze con i miei cugini, nella casa di campagna dei miei nonni materni, mentre i nostri genitori sorseggiavano il caffè chiacchierando in dialetto. Ce la spassavamo con giochi pericolosissimi, a ripensarli da qui. Funi sui rami usate come liane, botte, rincorse su e giù per i pendii. Ci lanciavamo le bocce – quelle di ferro – e in un paio di occasioni abbiamo anche combinato qualche danno, me lo ricordo come fosse ieri. Poi siamo cresciuti, sfortunatamente, e tra di noi ci siamo persi di vista. Uno di quei cugini è addirittura morto, un altro lavora sulle navi ed è sempre in giro per il mondo, ha già quattro figli avuti da tre mogli differenti, e io sono qui, a scrivere anche di loro.

la guerra dei giornalisti

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Ho conosciuto Lorenzo tramite Silvia, la migliore amica di Laura, ma nonostante i pochi gradi di separazione non mi ha fatto un prezzo particolarmente vantaggioso per casa sua. Anche se chiudo gli occhi per concentrarmi non mi ricordo nemmeno la sua faccia, solo il mento pronunciato ma perché è un tratto familiare che vedo da sempre, osservandomi allo specchio. So solo che la prima volta che ho visto il regista de “Le conseguenze dell’amore” in tv mi sono detto che Lorenzo poteva essere così. Silvia mi aveva lasciato il numero di cellulare di Lorenzo dettandomelo dalla sua agenda di lavoro e io l’avevo contattato da un telefono pubblico, preparandomi in anticipo una quantità cospicua di monete. L’unica esperienza di chiamata a uno dei rari contratti di telefonia mobile dell’epoca attivi l’avevo avuta tempo prima con Lisa, quella volta in cui, visto che non si andava al dunque, e ormai con il credito nella scheda agli sgoccioli, avevo fatto finta che c’era qualcuno che aveva urgenza di usare la cabina, per troncare dignitosamente la conversazione. Con Lorenzo avevo tagliato corto concludendo l’affare verbalmente a tempo record.

L’unica clausola del subaffitto era la disponibilità, previo avviso almeno di 24 ore, della stanzetta ubicata al piano superiore, quella che dava al mini-terrazzo sul tetto, per trascorrere la notte un paio di volte al mese in occasione delle sue visite in città. Mi aveva consegnato le chiavi vestito con un completo di fustagno verde, e per accattivarmi la sua fiducia avevo compensato la mia sensazione di inferiorità con la mitomania, sostenendo che me la cavavo piuttosto bene con i lavoretti di manutenzione, sistemare prese difettose, rubinetti che perdono, uso del trapano, tutte cose che, sia chiaro, non avevo nemmeno idea di come si facessero.

In casa però tutto procedeva a meraviglia, e anche gli aspetti folcloristici come la nutrita presenza di prostitute sudamericane nella via, una delle quali al primo piano del palazzo, o l’infermiere che si travestiva da donna per cantare i pezzi della Carrà nell’appartamento sotto al mio facevano parte dell’esperienza complessiva. Laura si fermava ogni tanto da me e non c’erano grossi problemi pratici. Guadagnavo abbastanza per arrivare alla fine del mese, pagavo l’affitto e le utenze, il budget per la spesa me lo facevo bastare. Per arrotondare, oltre al mio lavoro nell’editoria, avevo continuato a suonare con l’orchestra di liscio. Rientravo dalle serate poco prima dell’alba e il brivido di rincasare in quella zona piuttosto malfamata, trasportando costosi strumenti musicali, era compensato dall’idea di poterlo raccontare poi il giorno dopo, per darmi un po’ di arie con i miei colleghi molto più regolari di me. L’unico aspetto negativo era il non poter personalizzare l’ambiente, che poi era poco più di un monolocale, quanto avrei voluto. Con i subaffitti, si sa, non si può pretendere tanto. In casa c’erano tutte le cose di Lorenzo, io avevo portato lo stretto necessario, ma ero comunque ospite pagante in un posto che non era mio.

Lorenzo mi chiamava in ufficio per avvisarmi, come stabilito dal nostro patto, che di lì a poco avrebbe avuto bisogno di passare la notte in casa sua. Rientrando dal lavoro lo sentivo al piano di sopra chiacchierare al telefono. Poi scendeva o salivo io, scambiavamo qualche parola e dopo mi mettevo al computer, non so perché. So che mandava poesie d’amore a Silvia, anche se sapeva benissimo che era fidanzata e conosceva bene il suo ragazzo, e che aveva avuto una storia con una sua professoressa all’università.

La sera in cui era rincasato con un amico comune l’avevo accolto, senza pensarci, con un abbigliamento da casa provincialissimo che mi aveva procurato mia mamma per ovviare all’impianto di riscaldamento tutt’altro che efficace di quel monolocale in cui mi ero trasferito. Nonostante mio look poco radical chic, Lorenzo e il comune amico mi avevano ugualmente coinvolto nel consumo di un paio di canne, rito interclassista che unisce da sempre persone di tutte le estrazioni sociali. Da quel giorno, così, avevo preso a rovistare nei cassetti della stanzetta di sopra, nella ricerca di qualche rimasuglio da fumare nei momenti di solitudine. Ancora oggi, quando soggiorno in una casa trovata su Airbnb o Wimdu o Homelidays, che è il precursore di tutti, mi chiedo se ai proprietari non scocci lasciare i loro effetti personali alla mercé di inquilini curiosi e impiccioni, o addirittura ladri, come me. Vi giuro però che dei cassetti di Lorenzo non mi interessava nulla se non quel cespuglietto di erba conservato grossolanamente nel nylon di un pacchetto di sigarette e che, peraltro, rischiava di seccarsi. Che spreco.

In tutto credo di averne rubata una quantità irrisoria, qualche minuscola monoporzione per quattro o cinque volte, non di più. Poi, un giorno, Lorenzo mi ha chiamato in ufficio per dirmi che voleva che me ne andassi da casa sua e che gli lasciassi le chiavi sul tavolo, prima di uscire per l’ultima volta dopo aver portato via tutto. Aveva usato proprio le parole “voglio che te ne vai da casa mia” e il tono, oltre all’intenzione, non lasciavano dubbi. D’istinto mi sono messo subito sulle difensive, tanto che quando gli ho chiesto di incontrarci per risolvere la cosa, usando proprio le parole “incontriamoci per risolvere la cosa”, probabilmente ha pensato che volessi prenderlo a pugni per vendicarmi dello sgarbo e ha risposto, con un tono spaventato, di non essere disponibile, ma mi chiedo come abbia potuto, anche solo per un istante, pensare che uno con un abbigliamento domestico così provinciale e regalatogli da sua mamma, come me, potesse essere anche solo minimamente pericoloso.

Non so se aggiungere, a questo punto, il finale della storia ma oramai l’ho scritto ed è giusto così. Mentre riordinavo vestiti, libri e cd per il trasloco, ho notato un blando tentativo – non mio – di risolvere con scopa e paletta la disastrosa situazione del pavimento del bagno. Lorenzo era passato da casa senza avvertirmi e, di conseguenza, non avevo avuto modo di mettere a posto e di controllare che le sue cose fossero come le aveva lasciate la volta precedente. Non ero certo uno che si dava da fare per tenere pulito, ai tempi, e da allora il dubbio di essere stato cacciato per la pessima tenuta domestica anziché per la fiducia tradita per aver sbirciato nei suoi cassetti non mi ha mai abbandonato. Ho visto Lorenzo qualche anno dopo, al concerto di Manu Chao. Ero poco dietro di lui, teneva sulle spalle una bambina e si muoveva goffamente al ritmo terzomondista di una musica che, oggi, sembra davvero datatissima. Sapevo che era diventato papà e che si era già separato dalla madre di sua figlia, fedele solo al suo temperamento di seduttore dovuto, in parte, alla visibilità che il suo lavoro gli conferiva. Io invece ero cambiato moltissimo, nel frattempo; con Laura era finita da un pezzo e Silvia, l’amica che mi aveva messo in contatto con lui, chi l’ha più vista. So solo che ora vive da qualche parte negli Stati Uniti.