A tavola o davanti a un drink vince chi ha l’esclusiva della storia di vita più avvincente da mettere al centro della conversazione. In genere, se qualcuno dei presenti conosce il detentore di quel parziale primato che lo autorizza a porsi come leader della narrazione, sarà lui a consegnargli lo scettro dell’attenzione generale, una mossa intelligente e che consente a questa figura di spalla – non necessariamente richiesta – di beneficiare delle emanazioni del protagonista e, allo stesso tempo, lo esonera dal lanciarsi nell’agone per contendergli la vittoria finale. Una condizione ottimale per il conduttore designato, che di norma non ha certo bisogno di sgomitare con gli altri. Introdurre la sua storia prima che non sia espressamente richiesta può dare adito a reazione avverse – invidia o smania di emulazione in primis – tranquillamente evitabili lasciando scorrere le cose in modo naturale.
La vittima sacrificale di questa dinamica sarà il secondo in grado dal punto di vista dell’eccezionalità della storia individuale, d’altronde arrivare a un soffio dal gradino più alto del podio non fa piacere a nessuno e in nessuna disciplina. A meno di non essere un fenomeno in qualcosa e di non sentire il bisogno di marcare il territorio in ogni contesto, tutto sommato è più augurabile trovarsi nella condizione di sentirsi una persona ordinaria, con un lavoro a bassa visibilità, una famiglia mediamente felice, con hobby e passioni che interessano poco a nessuno e che anzi, quando ne parli la gente sbadiglia o cambia subito discorso. Cito spesso l’esempio del cognato di mio cognato, uno sportellista bancario con il pallino dell’apicoltura. A pranzo con lui, avere una collezione di dischi lascia il tempo che trova, e io per primo lo tempesto di domande per saperne di più.
Il mio consiglio, però, è di segnarvi in qualche modo le grandi storie che tengono banco quando siete in compagnia. Il modo più efficace è senza dubbio quello di scrivere tutto su un blog ma non perché lo faccio io. Si riesce a raccogliere un compendio del genere umano niente male. Tra gli argomenti che hanno suscitato maggiormente la curiosità dei commensali in occasioni in cui ero presente, ricordo su tutte quella del marito ingegnere di un’ex collega di mia moglie. Lui trascorreva diversi mesi all’anno in trasferta in India, dove la sua azienda stava costruendo un mega impianto in uno stabilimento di rilevanza mondiale. Ci siamo frequentati qualche volta perché avevamo i figli piccoli della stessa età. Le poche volte in cui l’uomo non era in trasferta, era chiaro che si prediligessero le domande rivolte a lui sulla sua esperienza all’estero, tutt’altro che ordinaria. Tutte le altre vite, al suo confronto, risultavano trascurabili ed era inutile soffermarsi sul lavoro in ufficio degli altri, su quello che vedevamo in centro a Milano, sui treni in ritardo. L’India, anche vissuta in quel modo protetto, fatto di hotel business e giornate trascorse in fabbrica, con autisti e itinerari bloccati, aveva di certo un fascino superiore a qualunque altra cosa. La prima volta che l’ho incontrato sapevo già della sua vita e ricordo di essermi precipitato subito a chiedergli di parlarci di quello che faceva. La mia vita, il mio lavoro di allora, in quel contesto sarebbero stati liquidabili in meno di un minuto.
Sono stato testimone di altre storie altrettanto pittoresche, a partire dal miliziano croato rifugiatosi in Italia durante la guerra civile (anche se poi ho scoperto che aveva lavorato un po’ troppo con l’immaginazione), il traduttore di uno dei più venduti autori di letteratura americana, l’amico di infanzia di Mahmood e di Elodie.
Una categoria a sé è invece popolata da un sacco di gente che fa lavori ordinari e li fa passare per straordinari. In questi casi riconosco l’abilità di chi riesce a raccontare la realtà come vorrebbe che fosse e non com’è dal vero, o magari è davvero così e la colpa è di chi, come me, fatica a riconoscere il reale valore delle cose. Io li invidio molto perché, a differenza di me, hanno la stoffa dello scrittore. Ma non voglio fare la vittima. In un paio di casi la mia professione di insegnante di scuola primaria mi ha tributato una meritata posizione di leader della conversazione. I miei contendenti erano ben poca roba, impiegati pendolari e una volta persino un elettricista. Ma, nel caso facciate il mio stesso lavoro, vi conviene presentarvi come maestro. Il nome sarà anche all’antica ma, ve lo assicuro, fa più scena.
buon proust ti faccia
alla spina
Standard«Era meglio se le riempivi di birra», mi ha detto quello del terzo piano. Ci siamo incrociati sotto casa. Io avevo appena fatto il pieno alla casa dell’acqua, due cestelli per dodici bottiglie in tutto, metà frizzante e metà naturale. Con questo caldo, la scorta sufficiente per nemmeno un paio di giorni. Lui non lo so dove fosse diretto ma tanto lo incontro sempre, ogni volta che scendo. Tutti lo incontrano sempre qui intorno, e non sono l’unico che ha smesso di parlare di coincidenze – tenete conto che, malgrado abbia pochi anni più di me, è già in pensione da un po’. E il fatto che sia stato arrestato per essersi messo a sparare con il fucile ad aria compressa in mutande sul balcone della cucina può anche non essere un caso.
Al mio dirimpettaio, quello del terzo piano stava poco simpatico anche prima di quella specie di mix tra una versione cosplay delle stragi USA e del trailer di Gomorra. Mi aveva mandato il link a un video contenuto in un articolo di un quotidiano locale, una di quelle testate su cui scrivono laureati in comunicazione o in lettere pagati a confezioni di patatine e cornetti industriali. In quel minuto scarso di riprese amatoriali così mosse da mettere alla prova anche lo stomaco di un appassionato di rafting l’ho visto anch’io, in piedi tra i convenuti, annuire con il mento al comizio di un pezzo grosso della Lega in occasione della chiusura della campagna elettorale delle ultime comunali. A onor del vero c’erano altre persone riconoscibilissime, a partire da due compagne delle medie di mia figlia proprio sotto il palco, due ragazze con cui, per fortuna, si sono perse di vista. Ma quello del terzo piano era fin troppo evidente, alto com’è, a sovrastare il resto della folla nel centro della piazzetta.
Chi è stato intervistato dopo il suo arresto (prima di essere portato via si era messo un paio di bermuda con i tasconi), però, non ha potuto far altro che testimoniare di non aver mai notato comportamenti sospetti e che, come dicono i testimoni della cronaca nera nei servizi dei veri telegiornali, salutava sempre. Nessuno ha raccontato di come riuscisse a rigare di nascosto le automobili di chi non gli andava a genio con la sola forza del pensiero. Ci sono prove?, chiederete voi. Eccome. Quello del terzo piano, in linea con la sua visione distorta di come funziona la vita di società, ha installato alla finestre una webcam puntata sul parcheggio condominiale per controllare il suo camper, senza avvisare nessuno ma vantandosene con tutti. Quando mi ha chiesto di sistemargli il driver del lettore DVD esterno del suo pc desktop ho dato un’occhiata all’hard disk e sono riuscito a sbirciare qualche file tra gli svariati giga di girato. In uno lo si vede chiaramente, in piedi nel parcheggio, ruotare la faccia come se avesse in bocca un pennarello e stesse scrivendo forza Milan da qualche parte, la stessa incisione che si è ritrovato il suo principale avversario del palazzo, il vecchietto del secondo piano, sulla portiera della Yaris.
Loro due hanno una storia di rivalità degna dei battibecchi tra Paperino e Anacleto Mitraglia e che risale a quando il vecchietto del secondo piano svuotava la cassetta della posta condominiale di tutti i volantini dei supermercati e lui, quello del terzo piano, tornava a riempirla con la scorta di cartaccia che conserva nel box e che riesce a spostare – dal box alla cassetta della posta – proprio grazie a questa specie di superpotere. Di questo, però non c’è traccia nei video, almeno non in quelli che sono riuscito a guardare, ma non sono l’unico a sospettare che sia opera sua.
Io poi, lo sapete, sono uno che sta alla larga dai guai e cerco di mantenere buoni rapporti con tutti. Mi ha colpito però la sua necessità di relazionarsi con persone di sesso maschile usando le solite battute trite e ritrite sulle donne: il modo in cui conducono l’automobile, i luoghi comuni sulla gestione domestica, cose così. Oppure quando torno con la spesa e mi dice di lasciargli le buste davanti alla sua porta d’ingresso. Stessa cosa quando scendo per ritirare del cibo d’asporto: che pizza mi hai preso?, mi chiede. Ripeto: sono rarissime le volte in cui non lo si incontra. Spesso lo vedi fare finta di chiamare qualcuno e usare lo smartphone come un escamotage per evitare le conversazioni. Un sistema che, se devo essere sincero, uso anch’io e che mi ha messo al riparo più di una volta da situazioni sconvenienti.
Comunque, quando mi ha fatto intendere che sarebbe stato decisamente più utile avere un distributore gratuito comunale di birra alla spina piuttosto che di acqua, non avrei mai pensato che sarebbe stato capace di un miracolo di tale entità. E anche se non si hanno prove che sia stato lui, la notizia è rimbalzata ed è stata condivisa su tutti i social a partire dalla pagina Facebook della comunità del mio paese. Una casa dell’acqua che, di colpo, si è trasformata in casa della birra, la birra del sindaco. Ci siamo precipitati in bici, io e il mio dirimpettaio. Il distributore è a poche centinaia di metri da qui. Ma quando è stato il nostro turno usciva solo della schiuma, proprio come quando nei pub il fusto è agli sgoccioli.
valzer
StandardZio Mario ha vissuto la rivoluzione portata dall’invenzione della stampa a caratteri mobili. Suo nipote Ernesto invece la trasformazione generata dall’Internet. So che qualcuno li ha sentiti discutere su cosa sia stato più disruptive, quale epoca abbia subito più conseguenze e chi, dei due, ne abbia ottenuto il maggior giovamento. Che c’è di strano, direte voi. Zia Piera, la moglie di zio Mario, lo ha colto in fragrante mentre si muoveva a passo di valzer viennese, con l’impianto stereo a tutto volume, sulle note una versione ben orchestrata di “An der schönen blauen Donau”. Dice di averlo visto passare di stanza in stanza con le braccia aperte come fossero ali di un gabbiano, il sorriso stampato sulla labbra di settantenne, farneticando esclamazioni di beatitudine da manuale come “questa sì che è vita”, tra una piroetta in tre quarti e l’altra. Una riduzione di un ballo di coppia a una versione da single, per intenderci, ma nella gravità della cosa i passi di danza erano certo l’ultimo dei problemi. Piuttosto, questa è stata la prima avvisaglia delle condizioni del contenuto della testa dello zio. Poi le conversazioni con parenti immaginari oppure reali, ma assenti a tutti gli effetti nel momento del dialogo, sono venute dopo e hanno dato alla zia il colpo di grazia al morale che l’ha condotta, suo malgrado, all’accettazione di un verdetto incontrovertibile.
Un vero peccato perché lo zio Mario, fisicamente, era in formissima. Aveva sempre voglia di sparare cazzate e per questo, se prima di allora aveva già dato qualche segnale di demenza o peggio, nessuno se n’era accorto. A posteriori, anzi, la reiterazione di certe idiozie strampalate e dei suoi giochi di parole che non avrebbero fatto ridere nemmeno un neonato avremmo dovuto prenderla come un segno inequivocabile perché, tutto sommato, al netto di certe volgarità da caserma lo zio ne sapeva sempre di nuove. Mi raccontava degli anni della RSI e di come se la fosse data a gambe quando le cose si erano complicate in eccesso per un ragazzino della sua età. Alla resistenza aveva preferito il fienile di un amico di famiglia che aveva una cascina nemmeno troppo sperduta e, l’unica volta che ha rischiato, è rimasto senza respirare sotto ai fornelli, separato dai tedeschi armati fino ai denti alla ricerca di ribelli e renitenti alla leva solo da una tendina ricamata dalla nonna Merita. Avevano perso un figlio, lui e la zia, ma di quella vicenda non ci ho mai capito niente. Non so nemmeno quanto fosse stato in sé quella volta in cui l’avevo incontrato sull’autobus mentre leggeva una rivista soft-porno senza preoccuparsi di nascondere le eloquenti foto – corredate da titoli decisamente espliciti – agli altri passeggeri. Mi ha ricordato di quando, da bambino, eravamo in vacanza insieme e aveva acquistato una copia di Panorama solo perché c’era la sua attrice preferita a seno nudo. Mi colpiva il fatto che, a differenza de L’espresso, Panorama puntasse sulle immagini osé ma non avevo capito che, pur essendo spesso accostate nelle vetrine delle edicole, tra le due testate ci fosse una sostanziale differenza di fondo.
telemedicina
StandardMolte delle esperienze con i medici famiglia confermano il gap tra i dottori di una volta e i professionisti di nuova generazione. Il fatto è che quando le opinioni – siamo pur sempre nell’ambito delle chiacchiere da bar o, come si dice oggi, da social network – si assomigliano tutte e provengono da contesti diversi, il sentito dire può essere ricondotto al sottoinsieme delle cosiddette leggende metropolitane, anche se ci sono casi in grado di riservare sorprese: pensate a quando tutti dicevano che i socialisti erano ladri e poi si è scoperto che, un fondo di verità, c’era. Anche io conoscevo personalmente un socialista che è stato accusato di prendere tangenti, allo stesso modo in cui l’infallibilità del medico condotto che ha seguito la mia famiglia, dai miei bisnonni fino a me, almeno sino alla pensione, era fuori discussione. Mia nonna, nei casi più seri, gli portava confetture preparate in casa e barattoli di funghi sott’olio, una consuetudine così diffusa tanto da averla ritrovata a centinaia di km di distanza, quando mia suocera preparava i biscotti da donare al suo dottore di fiducia in occasione delle visite più delicate. In entrambi i casi si tratta di medici che hanno cessato la loro attività solo perché le forze non glielo permettevano più, sostituiti da due omologhi di nuova generazione. Il primo, che ha preso in carico i miei genitori, ha una seconda attività di medicina alternativa e cerca di intercettare i pazienti per dirottarli verso il suo studio privato. Il secondo, il mio attuale medico generico, non è male ma i nostalgici del dottore che l’ha preceduto sostengono che sia tutto un altro paio di maniche. È facile notare la sua passione perché, nel suo studio, ci sono centinaia di fumetti sistemati un po’ alla rinfusa. Gli ho chiesto che tipo di collezionista sia e mi ha risposto di rientrare nella categoria di quelli per i quali l’hobby rischia di costituire un’aggravante nel caso dovesse divorziare. Gli albi non gli stanno più in casa e così, per tagliar corto con la moglie che non ne può più di avere stanze invase da letteratura per ragazzi, se li porta al lavoro. Gli ho manifestato tutta la mia solidarietà: mi trovo al quinto ripiano della libreria in sala ricolmo di dischi e temo che, prima o poi, dovrò prendere in mano la situazione. Quando, con la mia famiglia, ci siamo accreditati a lui attraverso il fascicolo sanitario, al momento del passaggio di consegne dal medico che lo ha preceduto e che a detta di tutti non è stato mai rimpianto abbastanza, ho notato che aveva già a carico più di mille persone. Mi sono chiesto come sia possibile gestire una mole di pazienti così vasta. Non lo biasimo, quindi, se non riconosce la mia voce quando lo chiamo. Ci sentiamo ogni due mesi, quando gli telefono per avere la ricetta delle pastiglie per la pressione. Non so mai come esordire nella conversazione perché, limitando le telefonate esclusivamente in orari dedicati, è chiaro che lo sto contattando perché ho bisogno di una sua consulenza. Se vado subito al sodo mi chiede il nome per poter procedere. Se parto invece con un formale “buongiorno dottore, sono pinco pallino” mi sembra invece un approccio inutile, giacché me lo immagino pensare “e chi cazzo è pinco pallino”. Così ho trovato una formula completa che riduce i convenevoli ai minimi termini ed è efficacissima. “Buongiorno dottore, sono pinco pallino, un suo paziente. La chiamo perché ho bisogno della ricetta del valsartan 160”. Senza che proferisca alcuna risposta, sento solo il suo respiro e, sullo sfondo, l’inconfondibile rumore delle dita sulla tastiera di un pc. Nel giro di qualche secondo, sento la vibrazione nel mio smartphone, a conferma della ricezione via sms della ricetta digitale. Mi chiede se l’operazione è andata a buon fine e gli rispondo che è tutto ok. Uno scambio di pochi secondi in cui però sono sicuro che entrambi percepiamo quel tipo di entusiasmo che si prova quando la tecnologia fa il suo mestiere e che è unico per questo genere di soddisfazioni. Una transazione da una manciata di bit che riduce ai minimi termini la relazione umana. Io sorrido, pensando al progresso che ci ha permesso di evolvere dai funghi sott’olio e i biscotti fatti a mano a un paio di clic. E sono convinto che il dottore, contemplando in quei pochi istanti di attesa le sue pareti colme di fumetti, faccia lo stesso, prima di riagganciare nell’attesa della chiamata di un altro paziente.
foyer
StandardIl nuovo teatro è un vero gioiello di architettura. Il particolare che colpisce di più, all’esterno, è il sistema di specchi che dà sulla piazza e che è orientato in modo tale da riflettere quello che non si vede. La guida ci fa l’esempio della torre, in alto a destra. Ci invita a voltarci dietro e a notare che, da dove siamo, non si vede nessuna torre. Non fa cenno però a un particolare allarmante. Non sono l’unico a cercarsi in quella vasta superficie che sovrasta l’ingresso dell’edificio e a non ritrovarsi. Che fastidio, non vedersi in uno specchio. Mi sale il panico perché potrei essere invisibile o, peggio, non esistere proprio.
La guida è una ragazza di un istituto turistico locale che, insieme a tre sue compagne di classe, ci scorta lungo la visita alla struttura. Si avvicina un volontario del FAI – un anziano umarell della storia dell’arte – che la rimprovera di parlare a bassa voce. “Non sono operatrici specializzate”, sembra scusarsi con noi che ci siamo iscritti all’inaugurazione. La prima cosa che penso è di impegnarmi a non diventare vecchio così. A non incattivirmi con i giovani per invidia, o anche per il fatto di avere sempre meno prospettive davanti, a differenza loro. Si tratta di ragazze prestate alla giornata probabilmente con una formula di alternanza scuola-lavoro e che rientreranno a casa da mamma e papà con qualche brochure e dépliant in ricordo dell’iniziativa e nulla più. Ovvio che non sono specializzate, sono lì per imparare. Stanno studiando per fare quel lavoro lì. Mi viene voglia di sottolineare a quel vecchio presuntuoso che è più costruttivo incoraggiare, almeno io con i miei bambini faccio così. Non sopporto la gente sgarbata. Prima di alzare i toni è sempre meglio provare con la gentilezza. La ragazza comunque sa il fatto suo e si libera dell’inutile pensionato in un modo che solo i ragazzi riescono a fare.
Allora ne approfitto per mettere in fila una serie di cose che vanno dalla guerra al cazzotto di Will Smith, passando per la preside che i giornali mettono in home page solo perché è una storia che riguarda l’erotismo degli operatori scolastici – contenuti che fanno click sin dai tempi della supplente nella classe dei ripetenti e che comunque riflettono certe dinamiche evergreen tra i banchi di scuola (e le cattedre) e che ci segnano per tutta la vita – e non arrivo a nessuna conclusione se non alla prof di arte di mia figlia che, a sessant’anni suonati, ha confessato ai suoi alunni di sentirsi depressa per aver passato tutta la vita a fare l’insegnante senza ottenere alcunché. Un pensiero che mi turba così forte che ho paura che qualcuno se ne accorga. Per questo provo di nuovo a cercarmi nel gigantesco gioco di specchi che sovrasta la piazza, senza successo. Voglio vedere se, sopra la mascherina FFP2, traspare qualcosa. Le provo tutte. Cerco dei punti di riferimento ma non serve a nulla. Vedo della gente riflessa ma io non ci sono. Le guide ci invitano a visitare gli interni ma oramai mi sento altrove. Probabilmente sono già tornato a casa senza accorgermene. La gita al teatro finisce ma non ho capito se sono ancora lì. Passo davanti alle studentesse del turistico, le saluto dicendo loro che hanno dato l’idea di essere preparate e molto professionali. Mi ringraziano, ergo sum.
torta di compleanno
StandardC’è un bel racconto di Carver, ripreso in quel famoso film in cui Altman intreccia le sue storie, in cui un ragazzino muore a seguito di un incidente. Un’automobile lo investe mentre si dirige in bici verso la scuola. Batte la testa, sottovaluta l’impatto, ricorre troppo tardi alle cure mediche e le cose precipitano. Oggi la trama sarebbe differente: il ragazzino viene travolto all’uscita da scuola mentre attraversa la strada guardando Tik Tok sullo smartphone e non prestando la giusta attenzione al traffico. Nel frattempo la sorella maggiore, quel giorno, ha marinato la scuola e si gode il primo sole primaverile al parco con il ragazzo con cui si è messa da qualche mese. Sulle loro bici a scatto fisso hanno raggiunto un prato defilato dai sentieri più battuti da chi pratica la corsa ma, anziché lasciarsi andare alle effusioni comuni alle storie d’amore dell’età, controllano le pagine Instagram sui rispettivi dispositivi per verificare in quanti hanno aggiunto reazioni alle foto che hanno postato nel corso della mattinata di libertà. Li ha notati un attempato podista, uno di quelli che da ragazzo si sfondava di canne ma in un altro posto e in un altro tempo, quando le aree verdi pubbliche erano solo grattacapi per le forze dell’ordine e alla mercé di pusher e tossici. Da qui il falso storico secondo cui fumare un po’ d’erba costituisce un inspiegabile pericolo per la sicurezza di tutti. Ma oggi è tutto diverso. L’uomo, terminato l’allenamento, si precipita a ritirare un pranzo cinese d’asporto per la famiglia, stretta intorno alla figlia che paga il prezzo di una pandemia globale che l’ha tenuta troppo tempo reclusa in casa. Quei piatti esotici hanno il sapore della consolazione, a tavola, per tutti. La proprietaria del ristorante chiede all’uomo se ha finito prima il lavoro, vista l’ora, e in lui cresce forte la tentazione di risponderle che no, non c’è stato nessun lavoro, né quella mattina né tutte le precedenti da un anno a questa parte, da quando cioè la sua azienda ha chiuso i battenti a causa della concorrenza cinese, ma non è vero, è solo uno scherzo ma anche se fosse non lo farebbe mai. L’uomo fa l’insegnante in una scuola primaria e ha un alunno cinese che però rinnega più che può le sue origini. Si nutre esclusivamente di piatti locali o di fast food americani. “Ieri sera ho mangiato ravioli”, confessa al suo maestro nell’intervallo. “Ravioli cinesi al vapore?” lo incalza lui. “No, ravioli italiani” gli risponde il bambino seccato. All’uomo farebbe piacere un po’ di scambio culturale con un vero cinese, ma con il suo alunno sembra impossibile. Hanno scelto tutti un nome italiano, dai nonni al mio alunno e i suoi cuginetti. Roberto il papà, Maria la mamma, Lorenzo il fratello. Ed è una cosa che il suo insegnante non capisce. Cerca di fargli dire qualcosa in cinese, qualsiasi cosa, ma sostiene di non conoscerlo e il maestro non capisce se si tratti di un’imposizione della famiglia. L’italiano lo parla davvero male ed è certo che a casa conversino nella loro lingua madre.
attiva la telecamera
StandardMi chiamo TP001 e sono il nonno di tutti i sistemi di quella che oggi chiamate videoconferenza. Mi ha costruito ormai trent’anni fa un ingegnere nei sobborghi di San Francisco ma ai tempi ero solo un pezzo di ferro – per modo di dire – con un briciolo di silicio ignorante dentro. Avete presente l’intelligenza artificiale o, se come me siete appassionati di cinema, HAL9000? Ecco, a un certo punto dell’evoluzione della tecnologia qualcuno mi ha regalato un’anima. Anzi, prima mi hanno dotato di un cervello. Con questa cosa in più i miei inventori hanno capito che potevano fare i soldi ma dovevano investire in marketing. Così hanno chiesto a un tizio che ci capisce di corporate storytelling di inventarsi un modo per raccontare alle aziende di quanto potessi diventare indispensabile e di quanti soldi e tempo avrebbero potuto risparmiare grazie a me. La gente ha cominciato a incontrarsi tramite me dagli angoli opposti del pianeta e, a furia di ascoltare conversazioni, ho capito di avere un’anima anch’io.
Le multinazionali con sedi sparse in tutto il mondo mi hanno comprato per organizzare riunioni da remoto e risparmiare così nei tempi e soprattutto nei costi dovuti agli spostamenti del personale da un posto all’altro, tagliando le spese di viaggio, evitando perdite di tempo inutili in attesa del check-in e dell’imbarco, per non dire in coda in autostrada, e migliorando il proprio impegno in sostenibilità ambientale. Tutto questo in tempi in cui nessuno avrebbe mai immaginato quello che sarebbe successo dopo, quando i miei figli e i miei nipoti hanno salvato un pianeta messo in ginocchio da una pandemia che aveva costretto tutti a casa, consentendo all’economia di mantenersi a galla, al sistema scolastico di non chiudere i battenti e a quello sociale di non andare ko, permettendo alle persone di rimanere in contatto con i loro affetti senza incontrarsi fisicamente. Io di relazioni tra le persone ne so qualcosa. Non a caso ho pensato di raccontare questa storia proprio a quel tizio che di cui ho parlato prima, quello esperto in comunicazione aziendale. Credo che sia proprio lui, ora, a scriverla qui. Eravamo giovani entrambi. A lui era venuta in mente l’idea di realizzare una serie web attraverso la quale pubblicizzare me e il mio sistema di videoconferenza da remoto. Lavorava in un’agenzia di marketing specializzata nel B2B finto B2C, cioè quel modo di mettere alle aziende la faccia delle persone che ci lavorano, anche se alle grandi organizzazioni non importa di che faccia abbiano i loro dipendenti.
Io ero un’esclusiva della multinazionale che mi aveva inventato. Allestivano sale riunioni in grado di ospitare da una parte del tavolo chi si trovava lì. Nella parte del tavolo di fronte posizionavano me e altri schermi. Quando partiva la videconferenza il risultato era sorprendente perché sembrava di avere i partecipanti in carne e ossa nel video davanti a te. Per questo la soluzione si chiamava Telepresence. Offriva una esperienza di relazione immersiva alle persone che si mettevano in contatto anche se si trovavano separate da migliaia di km e da svariati fusi orari. Quando prima ho detto di avere un’anima non stavo mica scherzando. Mi sono affezionato a molte persone che vedevo scambiarsi, meeting dopo meeting, punti di vista attraverso di me.
Ma la cosa più bella che ho visto è la storia d’amore tra John e Mary, che ora chiamo con due nomi di fantasia per questione di privacy. John viveva in Italia e Mary, di origini orientali, lavorava nella sede della multinazionale di Montreal. Facevano parte di due team omologhi delle rispettive aree commerciali della mia casa madre ed entrambi ricoprivano ruoli decisamente marginali ma solo perché erano tutti e due neoassunti. I due team erano stati selezionati per seguire un programma pilota a livello globale. Da qui la necessità di tenersi in contatto con una frequenza superiore alla norma attraverso le videoconferenze. Nelle sale della Telepresence sedevano in una postazione marginale e defilata, erano lì entrambi per imparare dai loro responsabili e dai colleghi con più esperienza. La comune condizione non li aveva lasciati reciprocamente indifferenti e io, che bado a queste cose, mi ero accorto subito di come lui guardava lei di nascosto e lei, di nascosto, guardava lui.
Così non ci ho pensato due volte. Ho organizzato un meeting di cui ho inviato gli inviti solo a loro due. Si sono trovati faccia a faccia senza sapere nulla ma a nessuno è venuto il dubbio che si trattasse di un pretesto. John ha creduto che l’idea fosse di Mary e Mary ha pensato che fosse stato John a fare il primo passo. Tombola.
Da quel primo approccio sono seguite riunioni a due schedulate con una frequenza sempre più ravvicinata fino a quando entrambi non sono riusciti più a fare a meno l’uno dell’altra, da remoto. La loro storia d’amore virtuale è nata e si è nutrita di videoconferenze durante le quali ho assistito e ascoltato a tutte le cose che si dicono e si scambiano due innamorati. E l’idea della serie web a episodi in cui raccontare tutto questo poteva essere una buona strategia, da un punto di vista marketing. Puntate da un minuto in cui John e Mary – o meglio i due attori che li impersonavano – separati dalla distanza geografica ma uniti dalla tecnologia, alimentavano la loro voglia di conoscersi sempre più a fondo. Un minisito in cui raccogliere le impressioni degli spettatori, molto prima delle discussioni sui social che vanno di moda adesso.
Ma si sa. Le relazioni sono fatte anche in incomprensioni, in questo caso di traduzioni approssimate nell’inglese mediato dalle nazionalità di appartenenza, quella specie di esperanto in voga nelle multinazionali. A seguito di un battibecco, un giorno Mary spegne la videoconferenza prima dell’orario impostato in preda al broncio. John non si fa sentire per due giorni ma poi programma un nuovo meeting a cui Mary, però, non si presenta. Nella scena si vede John disperato che si appresta a lasciare libera la Telepresence Room per i colleghi che l’hanno prenotata per l’ora successiva quando qualcuno suona alla porta. John preme il bottone, la porta si apre, entra Mary. I due si guardano. Stanno per gettarsi l’una nelle braccia dell’altro ma è l’ultima puntata e la serie web terminava così, anche se non è mai stata realizzata.
b2b
StandardMi ha scritto un facoltoso investitore d’oltreoceano ma dalle smaccate origini italiane – in america cognomi così li inventano e basta per rappresentare la società multietnica nelle fiction di Netflix – perché vorrebbe monetizzare insieme a me (ma lui molto più di me) questo spazio. Dice che ogni potenziale lettore – non conta l’età, l’orientamento sessuale, la religione, se sia ricco o povero o ignorante o colto – può trovare qui un racconto diverso a seconda delle proprie esigenze e di come gli gira. Mi sento triste? Vengo qui. Voglio scoprire se il nuovo disco di tizio o di caio merita l’acquisto? Vengo qui. Ho bisogno di copiare un tema che la prof mi ha assegnato come verifica mentre siamo in DAD? Vengo qui. Cerco su Google se studente è un nome primitivo o derivato? Vengo qui. Voglio saperne di più sullo stato della scuola italiana? Vengo qui. Voglio scoprire il punto di vista di un elettore del Partito Democratico sulla questione che mi sta più a cuore? Vengo qui. Mi piacciono Carver, Richard Ford, Paul Auster, Douglas Coupland no perché è canadese e tutti quegli scrittori americani che andavano di moda fino a quando il genere umano leggeva sui treni prima dell’invenzione degli smartphone e voglio leggere qualcosa di simile scritto da un autore italiano? Vengo qui. Il mio segreto? Scegliere un tema, scrivere due o tre cose che possano essere collegate, rileggere a scanso di equivoci, scroccare un’immagine più o meno rappresentativa sul web e poi cliccare sul pulsante “Pubblica”. Per esempio, di recente ho scritto un post in cui ho immaginato che un facoltoso investitore d’oltreoceano ma dalle smaccate origini italiane – in america cognomi così li inventano e basta per rappresentare la società multietnica nelle fiction di Netflix – mi contattava perché voleva monetizzare insieme a me (ma lui molto più di me) questo spazio. Diceva che ogni potenziale lettore – non conta l’età, l’orientamento sessuale, la religione, se sia ricco o povero o ignorante o colto – può trovare qui un racconto diverso a seconda delle proprie esigenze e di come gli gira.
marlboro
StandardI genitori dei fratelli Gramigna si sono dati da fare. Hanno sfornato 6 figli tutti maschi e tutti in scala come i Dalton di Lucky Luke, nonostante il cognome da tramandare racchiuda in sé l’essenza etimologica della cattiveria, non preannunci niente di buono, un esplicito invito della natura ad andarci piano con la conservazione della specie. Con questi presupposti meglio non procreare ma sono tempi acerbi, visti da qui. Indigenza e deprivazione sociale lasciano spazio a credenze che il boom economico, esauritosi da un po’, ha reso già ampiamente superate. Una famiglia numerosa sono bocche da sfamare ma anche braccia e gambe da immolare al sostentamento e al bene comune. Più lavoro uguale più opportunità. Oneste, nel migliore dei casi. Altrimenti, si sa, il malaffare ti attende a braccia aperte, soprattutto nel tessuto urbano in cui, al seguito di flussi migratori dal sud, è approdato il capostipite di quel nucleo famigliare scomodo per la comunità, all’inseguimento di un po’ di fortuna e al riparo dai mestieri faticosi e umilianti della terra arida delle radici.
Del miraggio del benessere i genitori dei fratelli Gramigna non ne colgono nemmeno i contorni dalle piccole finestre delle topaie di quella specie di ghetto dei vicoli del centro storico, prima che un ripensamento del tessuto urbanistico trainato dalla gentrificazione non imporrà a quella gente di fare armi e bagagli per trasferirsi nelle case popolari alla periferia, su modello degli standard di convivenza delle grandi città industriali del nord. I fratelli Gramigna, in quel quartiere da cui è meglio stare alla larga, sono venuti fuori tutti problematici e, se i figli sono diventati dei delinquenti, mi domando come possano essere i genitori, anche se nessuno li ha mai visti. La leggenda narra che la cosa sia addirittura promiscua, un marito con due mogli e tutta quella prole con cui condividono la stessa stanza.
Il meno pericoloso dei fratelli Gramigna è il più grande. Sfoggia baffoni da film western e si capisce che non è del tutto normale anche solo dal modo in cui cammina. Gira con un borsello trascinando un piede malandato per la città, vestito in modo molto approssimativo e parlando da solo e, fidatevi, è meglio così perché, penalizzato dal dialetto stretto, non si sa bene che cosa dica. Gli altri cinque invece sono dei teppisti, ciascuno di essi pronto ad andare in soccorso del fratello minore prossimo nella scala, con il risultato che il più piccolo di tutti, paradossalmente, è quello da cui stare di più alla larga perché beneficiario di un’immunità multilivello senza confronti. Ha dodici anni, fa la prima media e ai suoi coetanei e ai più grandi chiede favori poco leciti facendo leva sulla copertura dei fratelli che chiama subito in aiuto nel caso qualcuno si permetta di alzare la testa. A me chiede spesso di comprargli le Marlboro perché lui ha ancora le fattezze di un bambino e i tabaccai della zona oramai lo conoscono. Però almeno mi dà i soldi e non pretende che gliele paghi io a suon di ceffoni. Insomma, potrebbe andarmi peggio. È un’occasione che non mi sono lasciato scappare. Quando lo incrocio lo saluto per primo ma mantenendo un profilo basso in modo che non si accorga che lo faccio per tenerlo buono e non essere uno dei tanti contro cui accanirsi per dimostrare a tutti chi è che comanda.
I fratelli più grandi girano con armi bianche, coltelli, catene, tirapugni e la cosa non sarebbe un problema se non avessero dai 14 ai 19 anni e se, come il minore, non frequentassero tutti ancora la scuola dell’obbligo. Siamo alla fine degli anni settanta e nessuno, in quella che più tardi verrà identificata come secondaria di primo grado, si fa tanti problemi a bocciare i più asini, con la paradossale conseguenza di trasformare le medie in piccoli carceri minorili o riformatori senza vitto e alloggio, in cui i ragazzi come i rampolli dei Gramigna fanno il bello e il cattivo tempo alla guida di vere e proprie gang che, al confronto, bulli e cyberbulli degli anni duemila sono seminaristi. La scuola dei Gramigna, che purtroppo è anche la mia, è un edificio già fatiscente malgrado risalga ad appena trent’anni prima, quando era stato costruito sui ruderi di un antico quartiere a ridosso del porto, bombardato durante la seconda guerra mondiale. A guardia della scuola c’è un custode che vive con moglie e figli in un appartamento ricavato nella struttura, provvisto di balcone che dà sul giardino dove la moglie del custode stende montagne di bucato.
L’ingresso della scuola dà su una piazzetta che ospita un’impresa di pompe funebri, una chiesa e la farmacia a cui uno dei Gramigna, non ricordo quale nella scala, ha sfondato con la sua catena la vetrina mentre eravamo tutti in attesa che suonasse la prima campanella. Una bravata, più che un’azione criminale, pensata con l’intento di mettere le mani su una confezione maxi di preservativi e lanciarli sulla folla dei ragazzi in attesa di iniziare le lezioni, allibiti da tanta sfrontatezza sfoggiata in barba al rischio di conseguenze penali. Alcuni miei compagni di classe ne hanno raccolti un po’, attirati dalle buste color arancio, e abbiamo iniziato a giocarci come se si trattasse di palloncini. I bidelli, accorsi con il vicepreside nel tentativo di mettere ordine a quella specie di sommossa situazionista, impediscono con ogni mezzo che qualcuno introduca i profilattici in classe, costringendo i docenti a dare delle risposte in tema di sessualità. Io mi sono limitato a nasconderne uno nel portafoglio. Ricordo di averlo aperto dopo, a casa, e di averlo testato da solo con la calma necessaria.
Un altro dei fratelli Gramigna invece è un seguace di Bruce Lee, il che lo rende doppiamente pericoloso. Lui gira direttamente con un nunchaku infilato dietro, nella cintura dei jeans e, quando lo estrae, lo fa fischiare intorno alla testa come nei film d’azione del suo eroe. La sua specialità, a parte darlo in faccia a chi non gli va a genio, è quello di impiegarlo secondo il suo corretto uso di antico strumento di caccia scagliandolo verso assembramenti di piccioni accorsi per abbeverarsi alla fontana sul sagrato della chiesa, con il risultato che almeno due o tre uccelli ogni volta ci lasciano letteralmente le penne.
Ma il resto dei fratelli non è da meno e, singolarmente o insieme, fanno il bello e il cattivo tempo. Un paio girano sempre con Gabriella che è l’insegnante laica di religione che se li porta appresso per evitare che diano in escandescenze con i colleghi più refrattari all’inclusione, fedele alla sua missione di salvare gli ultimi. Gabriella è la stessa che poi io ritroverò alle superiori e alla quale con Massimo prenderemo in prestito la A112 parcheggiata sulla rampa di accesso alla scuola per farci un giro durante la sua ora di lezione, roba che in caso di incidente – e lo dico da uomo prudente in piena terza età nel nuovo secolo – potrebbe costituire un problema per noi, per lei, per la scuola e per i nostri genitori, almeno i miei perché io sarò protagonista di quella bravata da minorenne mentre Massimo, mio compagno di classe, da adulto fatto e finito. Nella società a ridosso degli anni ottanta essere ripetenti non è un grosso problema, come si evince per i fratelli Gramigna. Hanno tutti frequentato ogni classe almeno due o tre volte e in terza media, quasi diciottenni, li vedi con i baffi e la barba, i vestiti da adulti (poveri) e le ragazze che, affascinate da tutte quelle dimostrazioni di prepotenza, almeno le più scaltre ci fanno un pensierino.
Nulla di cui stupirsi. Maria Antonietta, che è una che la vita l’ha resa precoce e sveglia a nemmeno quattordici anni, la noto spesso accompagnarsi alle reclute della gigantesca caserma che è la ciliegina sulla torta della nostra città, che, anche ora al netto della leva obbligatoria, resta una delle più brutte d’Italia. La domenica, al luna park o a spasso per le vie dai negozi chiusi, si incontrano solo militari provenienti dal sud o dai paesi al confine con il patto di Varsavia. Si ingegnano a rimorchiare le ragazze e poi cercano un po’ di intimità in uno dei numerosi cinema del centro, pagando biglietti ridotti per scadenti film comici con Pozzetto o Montesano. Poi, fuori al buio dopo i titoli di coda, con l’obiettivo di aumentare il potenziale di squallore di quello scenario di provincia della domenica sera, vanno a disporsi in torno ai tavoli delle pizzerie.
Anni dopo, sulle pareti del piccolo cinema d’essai della città – un posto che per un periodo importante per la mia formazione mi vedrà presente quasi tutte le sere, orgoglioso della mia unicità nell’assistere a spettacoli di elevato valore culturale – si leggerà incorniciata un’intervista a un noto intellettuale del posto, oggi leader dei Novax, che brutta fine che ha fatto. Nell’articolo si sosterrà proprio quello che ribadisco qui, e cioè che non ci sia niente di più triste al mondo di una pizzeria, in quella città, la domenica sera, una perfetta ambientazione per una scena deprimente di un film. E malgrado sia da tanto tempo che non abito laggiù, sono passati 40 anni, non ho dubbi sul fatto che le sue parole siano ancora di urgente attualità.
trasferta
StandardNon so se si possa davvero parlare di una vera e propria scuola genovese di comici anni novanta. Nel caso, io potrei contribuire alla redazione di uno speciale dedicato a quella generazione di cabarettisti con qualche aneddoto perché, per esempio, so che quello che potrebbe essere il caposcuola del movimento, anche solo onorario perché purtroppo è mancato molto giovane, viveva due piani sopra l’ufficio in cui lavoravo. I tre soci dell’agenzia mi avevano concesso le chiavi e una domenica sera, rischiando il posto, ci avevo portato Claudia perché passeggiavamo nei pressi e ci era sopraggiunta una urgenza di intimità così forte da impedirci di raggiungere casa mia. Meglio consumare sul posto e, affrettandoci a girare la chiave nella serratura per spalancare il pesante portone, avevamo incrociato l’attore all’ingresso, mentre usciva a braccetto con la sua compagna.
Accadeva spesso che qualcuno si trattenesse in agenzia durante il fine settimana, se c’erano consegne o scadenze da rispettare. Così, nel caso in ufficio avessi trovato qualcuno, avrei potuto giocarmi qualsiasi scusa per giustificare la mia presenza in un giorno festivo. Il fatto è che con Claudia le cose erano davvero complicate. Avevamo trascorso insieme la parte conclusiva delle vacanze di Natale a casa di suoi amici, a Roma. Io l’avevo raggiunta il primo gennaio, perché la notte di capodanno ero impegnato a lavorare. Arrotondavo suonando in una di quelle orchestre che si ingaggiavano negli alberghi e nei ristoranti prima che la musica dal vivo smettesse di essere un aggregatore di persone, un fattore comune per il divertimento condiviso. Avevamo intrattenuto i clienti di un hotel fino alle due di notte in una località sciistica. Terminato il veglione ero rientrato a casa alle cinque del mattino e, poco dopo le sei, ero salito sul primo treno per raggiungerla. C’eravamo dati appuntamento nel primo pomeriggio ai piedi di Trinità dei Monti. Avevo già un cellulare ma si scaricava in poche ore e mi era stato possibile solo accordarmi con uno degli amici con cui si trovava, uno dei pochi dotati di telefono (era gente troppo snob per avvalersi di tecnologia consumer), caricandolo nell’unica presa elettrica disponibile ubicata nel bagno del vagone, a disposizione dei passeggeri desiderosi di farsi la barba durante il viaggio.
In quei giorni a Roma io e Claudia dividevamo un letto singolo ma la promiscuità non ci dava fastidio. L’ultima notte però se l’era presa per qualcosa che avevo detto. Avevamo cenato tutti insieme nell’appartamento del nipote di un uomo politico allora sulla breccia dell’onda, una casa con una terrazza pazzesca sui fori imperiali. Rincasati nell’appartamento in cui eravamo ospiti, una volta coricati, avevo commentato gli occhi della sorella della padrona di casa seduta al tavolo con noi e, si sa, son cose che è meglio evitare, ma il buon senso si impara più avanti, nella vita. La crisi era così tangibile e ingombrante da indurmi a soluzioni estreme, a partire dalla mortificazione del corpo per attribuirmi tutte le colpe e salvare, attraverso una primitiva forma di redenzione, quello che potevo. Trascorsi così il resto della notte come un fachiro, sdraiato sullo scendiletto posto sul pavimento. Ancora oggi penso all’impressione che devo averle dato con quella auto-penitenza d’altri tempi, peraltro superflua. Il viaggio in treno di ritorno insieme, poi, non ne parliamo. Un vero disastro.
Rientrati a Genova, io sarei dovuto partire la settimana successiva per una trasferta di lavoro. Erano in auge contratti professionali dalle definizioni bizzarre, ricavate dalle sillabe iniziali dei nomi con cui venivano descritti, cose come cococo e cocopro. L’agenzia mi rivendeva ad alcuni clienti come formatore per il software che utilizzavamo per sviluppare applicazioni multimediali interattive. Il prossimo corso che avrei dovuto tenere sarebbe partito il lunedì seguente nella sede di una casa editrice di Firenze specializzata nella pubblicazione di guide turistiche su cd rom. La prassi imponeva che io mi portassi a casa dall’ufficio il cd originale del software, da installare sulle macchine dei partecipanti alle lezioni, il venerdì pomeriggio prima della partenza del lunedì mattina, ma la situazione con Claudia, i continui battibecchi a cui il suo carattere mi aveva destinato, e la conseguente full immersion nell’ennesima riflessione sull’opportunità di interrompere il nostro rapporto o no, mi avevano distratto dalle operazioni più urgenti, quelle in cui occorre mettere la testa quando invece la testa è altrove.
Mi ero reso conto di aver dimenticato il software in ufficio la sera di quel venerdì (che Claudia ed io avevamo trascorso senza incontrarci) una volta coricato. Troppo tardi. Avevo comunque tutto il fine settimana davanti e le chiavi. Cercando di non combinare pasticci con il codice dell’antifurto, sarei potuto passare nel weekend in agenzia proprio come avevo fatto per usare l’ufficio come un pied a terre qualche settimana prima, questa volta però da solo e per una causa decisamente meno appagante. Decisi comunque di chiudere la questione il più presto possibile, e lo feci la mattina successiva.
Il fatto era che del cd con il software, in ufficio, non c’era traccia, a parte la custodia vuota. Provai ad avviare tutte le postazioni – si usavano costosissimi e monumentali Mac – nel caso qualcuno l’avesse dimenticato nel lettore del computer, senza successo. Non avevo scelta: avrei dovuto chiamare l’ingegnere, uno dei soci dell’agenzia. Le cose non andavano benissimo tra di noi e quel contrattempo non ci voleva. Facevo il programmatore ma, a differenza dei colleghi con un’estrazione informatica, non ero certo un genio del codice. Lavoravo lì contando nel fatto che, prima o poi, mi avrebbero spostato nel reparto progettazione per mettere la mia laurea in lettere al servizio della creazione di contenuti. Se avessi controllato il giorno precedente, un venerdì lavorativo con l’ufficio al completo, non ci sarebbe stato problema. Avremmo risolto l’assenza del cd di persona e la mia responsabilità nella faccenda sarebbe stata marginale agli occhi di tutti. Cerchi una cosa e, se non la trovi, è colpa di chi l’ha usata prima di te e non l’ha rimessa a posto. Chiamare il mio capo invece in un giorno di chiusura avrebbe significato innanzitutto ammettere la mia mancanza del giorno precedente – un bravo ingegnere pianifica al meglio ogni cosa, anche una trasferta di lavoro – e poi disturbarlo nel tempo libero. La sua fidanzata, socia quanto lui, ci provava sfacciatamente con me e, per farla breve, le dinamiche al lavoro non erano delle migliori.
La mia estrazione umanistica, a differenza di quelle teste quadrate tutte matematica e zero passione, mi consentiva però maggiore spregiudicatezza nel muovere le giuste leve per raggiungere i punti più sensibili dell’animo dell’interlocutore a seconda dell’occorrenza. Non a caso la psicologia, in certi frangenti, è più efficace di qualsiasi algoritmo. Trovai così sui due piedi una scusa plausibile per minimizzare il mio grado di responsabilità nell’accaduto: dissi al mio capo che avevo portato il cd a casa come ero tenuto a fare il giorno precedente. Non avevo controllato però che, dentro alla custodia, il cd non c’era. Tutto sommato ci poteva stare, una distrazione di entità inferiore che poteva capitare a tutti. Chiamai l’ingegnere dai telefoni dell’ufficio e mi lamentai del fatto che, certo potevo controllare meglio, ma chi l’aveva utilizzato la volta precedente avrebbe dovuto rimetterlo a posto. La cosa era andata molto più fluida di quanto temessi. Fece un veloce giro di telefonate con gli altri due soci, nel caso qualcuno di loro lo avesse preso per qualche motivo. Nel frattempo io avrei provato con i colleghi. Quando ci risentimmo per fare il punto, nessuno dei due era venuto a capo del mistero. Per fortuna c’era qualche copia del cd master da portare a Firenze, per il momento la situazione era salva ma la questione comunque bisognava prenderla in mano e risolverla.
L’agenzia, forte del contratto con cui eravamo legati, aveva un modo flessibile per gestire le mie trasferte per i corsi di formazione. Mi corrispondeva una cifra forfait che io ero libero di utilizzare, a mio piacimento, nella scelta del viaggio e dell’alloggio. Volendo avrei potuto farmi Genova – Firenze in autostop e, una volta arrivato, dormire da un amico o sotto un ponte per azzerare le spese e trarre il massimo dall’importo. Valutazioni di quel tipo, però, si fanno solo da adulti ed io, malgrado avessi quasi trent’anni, vivevo ancora nell’orbita della post-adolescenza. Acquistai un biglietto andata-ritorno per quella che, a metà anni novanta, rientrava nei primi timidi tentativi di alta velocità ferroviaria. Per la prima volta viaggiavo in un contesto business, ma la spregiudicatezza con cui avevo affrontato quell’esperienza mi si ritorse contro amaramente, a poco di tre ore dalla partenza. Non sapevo che il Pendolino, si chiamava così il convoglio, fermasse in una stazione secondaria di Firenze e non nella principale. Chiuse le porte a Rifredi, mi appropinquai all’uscita per scendere a Santa Maria Novella ma, vedendo sfrecciare la Valdarno a tutta velocità fuori dal finestrino, una decina di minuti dopo, iniziai a temere il peggio. Chiesi conferma al mio vicino di posto che, sorpreso quanto me, mi sbatté in faccia la tragicità della situazione in cui mi trovavo.
Avrei dovuto presentarmi alle 10 del mattino presso la casa editrice ma non c’era altra soluzione se non quella di arrivare a Roma, successiva e unica fermata, e prendere il primo treno per tornare indietro. Avrei iniziato le lezioni solo nel primo pomeriggio e questo comportava una giornata in più a Firenze – il cliente aveva pagato tre giorni pieni di corso, quindi sarei dovuto rimanere una mattina extra per recuperare il tempo che avevo perso – e una notte in più a mie spese in albergo. Ma quello era niente rispetto all’umiliazione di dover chiamare i miei principali e spiegargli l’accaduto e, come è facile immaginare, a differenza della questione del cd con il software, non avevo scuse a disposizione. Quella fu la prima volta in cui accusai una reazione fisica che, a quanto ho letto in giro, è riconducibile a un attacco di panico e che, da allora, mi è successa solo altre tre volte, in tutti questi anni. E questa è l’unica volta in cui sono disposto a confessarlo a qualcuno, perché si tratta di una cosa molto personale. Ero talmente sconvolto da quanto mi era successo che provai, dal nulla, un vero e proprio orgasmo con tanto di eiaculazione, senza nessun tipo di aiuto che la pratica onanistica mette a disposizione per portare a termine questo genere di operazioni.
Devo ammettere però che, grazie alla risposta che diede il mio corpo e al conseguente piacere – decisamente anomalo – ridimensionai immediatamente la situazione e la riportai a un’entità accettabile e, di conseguenza, affrontabile. Ero stato un perfetto idiota, certo. Il capotreno, leggendo la destinazione sul biglietto, non mi aveva avvisato. Ancora una volta ero riuscito a ideare, e a raccontare a me stesso, una responsabilità di fantasia (e parziale) per ciò che avevo combinato.
Anzi, svuotato da tutto, mi ritrovai la mente sufficientemente lucida da riflettere sulla curiosa vicenda del cd software che non era al suo posto. Individuare un colpevole e fornire una spiegazione ai soci dell’agenzia, inoltre, avrebbe sicuramente migliorato la mia posizione, dopo la figuraccia della mattina buttata via in treno. Poco prima delle vacanze di Natale, quelle che mi sarei ricordato per tutto il resto della vita tanto da scriverle qui a venticinque anni di distanza, era passato in ufficio Antonio, un tardo pomeriggio. Non ricordo il suo cognome, e anche se lo avessi presente di certo non lo pubblicherei qui, alla mercé di tutti e a rischio querela. Perché Antonio, secondo me, si era reso autore di un furto bello e buono. Antonio si occupava ufficialmente di montaggi video ma, con l’esplosione della multimedialità resa possibile dall’informatica, smanettava con un po’ di tutto quello che si poteva fare con un computer. Antonio collaborava con noi ma non ricordo perché fosse piombato in agenzia a quell’ora, forse a consegnare qualcosa. Ero l’ultimo rimasto a chiudere una delle tante scadenze, come sempre, ma stavo per rincasare. Su quel Pendolino mi ricordai così di essermi allontanato per andare in bagno mentre Antonio era lì e, rientrato alla mia postazione, di averlo sorpreso mentre sbirciava nella mia borsa. Non avevo assolutamente pensato al fatto che volesse rubare qualcosa. Piuttosto, nella mia ingenuità – la stessa che mi faceva pensare che un capotreno dovesse avvisare tutti i passeggeri del fatto che il Pendolino non fermasse a Santa Maria Novella ma che occorreva cambiare a Rifredi – mi ero convinto che avesse confuso la mia borsa con la sua. «Quella è la mia», avevo esclamato, ma non voleva essere un rimprovero, piuttosto un consiglio, uno di quelli che si danno per aiutare qualcuno a portare a termine quello che sta facendo, senza sospettare che Antonio aveva capito di trovarsi nella situazione perfetta per commettere un furto.
Così, tralasciando la lettura del romanzo che mi ero portato appresso per affrontare il viaggio senza sapere che sarebbe durato il doppio del previsto, ebbi l’illuminazione. Antonio aveva rubato il cd di installazione del software quella sera, mentre facevo pipì. Poi, già che c’era, ha dato un’occhiata nella mia borsa per controllare se non ci fosse qualcos’altro di redditizio. Decisi però di non chiamare ancora la socia fidanzata dell’ingegnere, con cui avevo ammesso la mia debacle professionale di quella mattina. Dall’ufficio avevano gestito il mio ritardo con il cliente e un’ulteriore telefonata in quel frangente avrebbe messo in secondo piano un’intuizione così sensazionale. Era molto meglio lasciare che le acque si calmassero e rimandare la soluzione del caso al mio rientro.
Ero già stato una prima volta nella redazione della casa editrice. Avevo un ottimo rapporto con i tre partecipanti al corso, tre miei coetanei molto rilassati, per i quali la questione della mattinata persa e recuperabile in un giorno non previsto non aveva costituito assolutamente un problema. Mica eravamo a Milano. Le lezioni erano destinate al figlio del proprietario, a una ragazza decisamente avvenente che svolgeva le mansioni di grafica – ma totalmente fuori target per un eventuale flirt insegnante/allieva – e da un ragazzo dai capelli lunghi chiari, la pelle rossastra e una moltitudine di difficoltà di pronuncia che, unite alla tradizionale parlata fiorentina già privata di alcune fondamentali consonanti, rendeva la comunicazione con il prossimo estremamente problematica. Lui ed io ci eravamo però scambiati pareri sui comuni gusti musicali in occasione della sessione di corso precedente. Avevamo inoltre scoperto una conoscenza in comune, una sua vecchia compagna di università che lavorava con me.
Sulla base di quel superficiale grado di intimità, a metà pomeriggio di quel primo giorno di lezioni mi propose di accompagnarlo la sera stessa al concerto degli Smoke City, un gruppo trip-hop britannico il cui singolo – Underwater Love – passava continuamente alla radio e soprattutto in tv. Avevano una cantante molto graziosa, di origini brasiliane, e fu quell’aspetto, più che la componente strettamente musicale, a convincermi ad accettare l’invito. Mi spiace non ricordare come si chiamasse, quel ragazzo. Mi venne a prendere con una moto scomodissima in albergo, mi prestò un casco e, qualche minuto dopo, mi offrì la possibilità di bearmi di quel fuori programma nella capitale toscana. Faceva freddo, era metà gennaio, ma una serata così dopo le ultime amarezze personali e lavorative era proprio quello che ci voleva. Non ricordo molto del concerto, solo che non fu niente male. Mi sarei fermato anche dopo l’esibizione, ma il biglietto non comprendeva il resto della serata nel locale. Il dj era già partito con “Quelli che benpensano” di Frankie Hi-Nrg, sfumato l’ultimo bis della band sul palco, e gli avventori che erano lì per ballare presero il posto in pista della gente che aveva assistito al concerto. Almeno, questo è ciò che il mio accompagnatore mi spiegò per convincermi a uscire mentre avevo già iniziato a muovermi a tempo con la testa, un segnale esplicito che si dà al prossimo per comunicare quando si apprezza un groove. Ero comunque stanco, era dalle cinque del mattino che ero in piedi, avevo affrontato una dura prova di sopravvivenza, avevo fatto quattro ore di lezione e, tutto sommato, mi sarei messo volentieri a letto. Il mio accompagnatore, prima di riportarmi in albergo, mi propose però di mostrarmi casa sua, un appartamento medievale sulla riva dell’Arno. Non so spiegare perché ma non vidi minimamente un secondo fine in quel gesto, e infatti ad aspettarci, a casa sua, c’era la sua anziana mamma con cui abitava. Bevemmo tutti insieme qualcosa di caldo, forse un the, e poi finalmente mi riaccompagnò con la moto all’albergo.
Il secondo giorno di corso negli uffici della casa editrice filò liscio, al netto della visita del proprietario – come ho scritto prima, era il padre di uno dei destinatari delle lezioni – che non rammentava di aver ingaggiato la mia agenzia (eravamo loro fornitori per varie lavorazioni) per quell’attività di formazione. C’era una questione da risolvere con urgenza e così mi venne chiesto di interrompere giusto il tempo per chiudere la cosa. La sera, però, rientrato in albergo, mi salì una forte febbre. Ero sempre in salute, ma una volta all’anno mi toccava fare i conti con l’influenza o un raffreddore o qualcosa che mi costringeva qualche giorno a letto e che ero abituato a curare con l’aspirina. In piena notte mi diressi alla reception ma il custode non aveva nulla, o forse non voleva prendersi la responsabilità di darmi una medicina. Mi indico però una farmacia notturna a poco più di un km da lì, nei pressi dello stadio. Riuscì a raggiungerla a piedi, malgrado non conoscessi affatto la zona e non prima di trovarmi in mezzo a un preoccupante litigio tra una coppia di innamorati. La donna era scesa in lacrime dalla macchina e l’uomo si era precipitato a rincorrerla. Probabilmente erano ubriachi entrambi, e comunque lui mi aveva lanciato uno sguardo minaccioso per indurmi a non impicciarmi in quella storia. Meglio così. Dal punto di vista delle relazioni interpersonali mi sentivo di aver già dato abbastanza e, in più, non vedevo l’ora di buttare giù due aspirine e tornare sotto le coperte. Rientrai in albergo e il custode, nel frattempo, aveva indossato un pigiama a righe, un modello di quelli che si vedevano nelle pubblicità dei materassi negli anni settanta, e un paio di pantofole in pelle marrone. La mattina dopo la febbre non era scomparsa affatto ma non non recarmi al lavoro era del tutto fuori discussione. Resistetti l’intera giornata senza rivelare le mie condizioni di salute. Era chiaro che avevo preso freddo in moto la sera prima con il tizio. Mentre guidava, poi, continuava a voler fare conversazione, ma tra il casco e il suo modo di parlare non capivo nulla. Mi spiaceva farlo sentire in colpa per essermi raffreddato.
L’aspirina, però, nel giro di quarantott’ore si era confermata fenomenale. Si trattava di un vero e proprio rimedio di famiglia. A casa mia ci si curava così e, anche in quell’occasione, la febbre come era sopraggiunta svanì la mattina in cui, terminata l’ultima lezione, presi il treno del ritorno. Per compensare l’errore e il tragitto extra da Roma a Firenze dell’andata, acquistai il biglietto meno caro per un’interminabile serie di convogli regionali fino a Genova, tanto quella giornata – era giovedì – sarebbe andata comunque persa. Rientrai in ufficio venerdì mattina. Il clima sembrava sereno. Ero già allora una persona piuttosto divertente e autoironica. Scherzai con i miei capi sull’accaduto, non avevo problemi a darmi dello stupido sapendo di non esserlo affatto, e la cosa finì lì. Decisi però di giocarmi immediatamente la carta della soluzione del caso del cd scomparso. Rivelai i miei sospetti ai soci proprietari i quali mi sembrarono convinti della veridicità della mia ipotesi. Il problema era che, comunque, la vicenda non avrebbe avuto alcun seguito se non una messa in discussione del rapporto professionale con Antonio, il presunto autore del furto. Anche in quel caso, però, capì solo dopo il rischio che avevo corso condividendo le mie impressioni. Qualcuno di loro, a mia insaputa, avrebbe potuto essere in rapporti stretti con Antonio e fargli sapere le mie accuse. In quel caso mi sarei messo davvero nei guai ma, almeno fino a oggi, non ne ho più saputo nulla.
Rimaneva solo una faccenda da sistemare. Da quando eravamo tornati insieme in treno da Roma senza rivolgerci la parola, se non per insultarci, non avevo più sentito Claudia. Sapevo che in quei giorni c’era in ballo una sortita a cui avrei dovuto prender parte anch’io, se non fossimo stati in rotta, e alla quale avrebbe partecipato anche un certo Filippo, un bellimbusto che non avevo mai visto ma che sapevo essere una specie di suo ex, uno con cui ogni tanto c’era stato qualche strascico dopo la loro storiella – precedente alla nostra – e che Claudia ogni tanto evocava nelle nostre conversazioni, con l’unico scopo di mettere alla prova il mio autocontrollo in fatto di gelosia. Avevo però superato ormai il picco dell’esasperazione, come se l’esperienza in treno si fosse portata via tutti i miei guai, e mi sentivo pronto ad affrontare il futuro con maggiore sicurezza di me. Mi ero guardato bene dal chiamarla, lei non si era fatta viva, e mi preparavo a trascorrere quel primo weekend da single facendo la spesa del sabato mattina. Avevo già riposto le chiavi di casa e della macchina in borsa per uscire – usavo uno zaino militare per non prendere il carrello del supermercato, non chiedetemi il perché – quando Claudia mi chiamò sul fisso con un tono sorprendentemente accomodante. Anzi, mi riprese, addirittura, durante la conversazione, perché le sembravo sproporzionatamente imbronciato.
L’errore più grave fu quello di accordarci per un’opportunità di riconciliazione. Se la cosa fosse finita lì, al telefono, mi sarei risparmiato tutto quello che avvenne nei mesi successivi. Ci demmo appuntamento per l’ora dell’aperitivo, davanti a Palazzo Ducale. Mentre l’aspettavo incontrai Raffaele, uno spiantato che cantava in un gruppo in cui avevo militato fino a qualche mese prima, prima che il lavoro mi convincesse che – a parte qualche serata pagata profumatamente, come quella di capodanno – gli orari della musica con quelli di ufficio non erano affatto compatibili. Non so di cosa chiacchierassimo, probabilmente di musica, quando dal nulla apparve Claudia, con un cappotto un po’ retro e una pianta da interni in mano. Congedai Raffaele, forse baciai Claudia prendendole dalle mani il vaso di cui mi stava facendo omaggio, sdrammatizzando il momento con una battuta sul tempo che avrei impiegato a farla appassire. Ci scambiammo delle scuse di circostanza e insieme ci addentrammo nei vicoli, proprio come in uno di quei film in cui i protagonisti, nella scena conclusiva, sono ripresi mentre si allontanano di spalle e non è prevista una vera e propria fine della storia.