brevettiamo il rumore che fa l’inverno, prima dell’imbottitura vegana

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Prima ancora della pioggia e del malumore di noi meteoropatici a spanne, la cosa che rende più inviso l’inverno è quel costante sottofondo di rumore che fa il tessuto tecnico delle giacche imbottite di ecopiuma e altre diavolerie termoisolanti, quando lo struscio accompagna ogni nostro movimento volontario e non, rendendoci percepibili costantemente, nostro malgrado. E scommetto che non ci avete mai fatto caso perché ormai le superfici impermeabili in cui cerchiamo riparo fanno già parte della consuetudine estetica tanto che anzi, quando incontri uno con il loden o con un cappotto di lana ti chiedi come sia possibile un azzardo tale e ti aspetti che stramazzi al suolo assiderato seduta stante.

Ma se provate a fermarvi in qualsiasi punto della città dove ci sia un po’ di movimento, persone che sgambettano, donne manager che accelerano il passo, papà che inciampano nell’andatura prescolare dei figli perché poco avvezzi al gap altimetrico, impiegati che si precipitano al primo turno all’alba del Virgin Active più vicino, se riuscite a isolare il sottofondo dai suoni di superficie sentirete tutto un shh shh shh shh, magari con qualche tok tok tok tok di calzature aggressive di contorno. A meno che non siate persone abbienti e possiate permettervi l’analogo fruscio delle tutte da sci a Cortina, anche lì è tutto un shh shh shh shh ma ovattato dalla neve, mentre qui tra i poveri al massimo ci possiamo permettere qualche allitterazione.

Oggi ho provato a chiudere gli occhi su un treno semideserto, e alla fermata successiva alla mia – sono riuscito a non addormentarmi – ho provato a contare il numero di persone che contorcevano il loro corpo nell’atto di sedersi in uno di quei cubicoli dei convogli ad alta frequentazione, quelli che qui a Milano chiamiamo il passante ferroviario. Ho ascoltato con la massima attenzione quante giacche in nylon superleggero corte, tre quarti e lunghe si stavano sistemando, occupate da altrettanti corpi, dietro le mie spalle. C’è stato un primo shh shh shh. Poi un secondo. Un terzo e un quarto insieme, coperto dal chiacchiericcio di una coppia. Si tratta di un esperimento che vi consiglio, facile da svolgere dal momento che riguarda un capo di abbigliamento a cui quasi nessuno sa rinunciare, e che vi consentirà di sviluppare qualche altro senso anziché i soliti occhi e i soliti pollici sugli smartcosi.

Fino a quando tornerà un’altra primavera, e a parte rari casi di piumini leggeri, un ossimoro a cui ho mai creduto, il cotone ci farà cadere nell’oblio dei vestiti a basso impatto acustico, e dovremo metterci in attesa ancora una volta di quel shh shh shh shh, che sembra dire silenzio, passo io che ho una giacca in tessuto tecnico imbottita di piume, una giubba da vero signore.

tra le tante contraddizioni di un’età come la nostra: ecco un post generazionale

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E vi confesso che ultimamente mi piace sempre di più giocare al signore di mezza età, a fare quello che si muove con dignità vestito come si deve, o comunque meglio dell’abbigliamento medio di prima, a comportarmi da valido e buon punto di riferimento educativo per i propri figli. E ancora mi piace sempre di più fare la paternale ai più giovani che arrancano spaesati nel campo in cui dovrebbero giocare titolari, a parlare del tempo che ci si metteva a comporre un numero con tanti zeri e nove girando le rotelle dei telefoni da muro di una volta e del David Bowie di Low e del suo lato B, quasi tutto strumentale, ai Social Media Manager e a chi è diventato maggiorenne quando al top della musica underground c’erano gli Smashing Pumpkins.

Vi confesso che mi piace sempre di più giocare a osservarmi strozzato nella mia sciarpa annodata sopra il colletto rigido della camicia celeste conducente di autobus come solo i milanesi sanno fare. Solo loro anzi noi ne abbiamo il diritto considerate la avversità meteo almeno sulla carta e sui libri di geografia. Considerato anche quanto stiamo in giro per lavoro o quanto altri stanno in piedi sulle gradinate di San Siro – io no, non amo il calcio e se lo amassi sarei comunque genoano – ad aspettare al freddo che una delle due squadre del cuore entri in campo dagli spogliatoi per dare inizio allo spettacolo. Poi a controllare le mie polacchine color cuoio che non passano inosservate, e a pensare che quando le ho prese ero perplesso che, prima o poi, sarebbe giunto il momento di separarsi dalle snickers da cento euro.

Così mi piace sempre di più giocare a camminare brizzolato con le mani in tasca e mi do persino le arie di quello che, anche se è più o meno a metà di quanto gli sia stato concesso per abitare il pianeta, ha avuto la fortuna di essere nato addirittura negli anni sessanta, di aver beneficiato della prodigalità dello stato sociale, dell’approssimazione in eccesso della sanità pubblica, della benevolenza degli enti locali e dei loro regali di Natale ai figli dei dipendenti della pubblica amministrazione, dei programmi del Dipartimento Scuola Educazione e delle sigle di musica progressive delle trasmissioni ad alto livello culturale e pedagogico della tv nazionale. Sono solo uno dei tanti che ha dilapidato le risorse destinate alla comunità e ai posteri, ma che ora ha ancora troppo (almeno lo spero) da vivere per non rimanere indenne agli effetti della bancarotta.

Per questo posso scegliere da che parte stare, tra i salvati o i sommersi, tra gli apocalittici o gli integrati, tra i senior o i precari, tra quelli della mia età o i trentenni forever. Ma ora non più. Ho fatto la mia scelta. Da qualche tempo mi piace giocare al signore di mezza età e, vi confesso, sono anche piuttosto in gamba.

vincere quei dieci minuti di depressione tra l’ultima pagina del libro e la maniglia della porta dell’ufficio for dummies

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E sapete qual è la soluzione? Non aspettarsi che possano accadere cose oggettivamente impossibili, una strategia in parte dipendente dall’identificazione dei propri limiti. Per quel che ne sappiamo noi, tutto quello che è successo prima del nostro primo ricordo potrebbe anche essere tutto inventato. La bugia che sottende tutto il nostro essere, a mano a mano riusciamo a smascherarla grattando via gli strati secchi come il ghiaccio dal parabrezza in giornate come queste. Senza per forza arrivare a vittimismo esasperato misto a mitomania come quel tizio che avevo conosciuto al CAR. Era convinto che la caserma, i commilitoni, persino gli ufficiali e i mezzi e le armi in dotazione all’esercito fossero tutta una messa in scena dei suoi genitori per toglierselo di torno per una dozzina di mesi e poter divorziare in pace.

Era un fricchettone con i capelli lunghi, così si era presentato il primo giorno con la cartolina verde in mano, uno dei pochi che aveva deciso di affidarsi ai barbieri gratuiti delle forze armate per dotarsi di un taglio di capelli adeguato alla disciplina marziale. Naturalmente era un errore, altrimenti non si spiegherebbe il motivo per cui tutto il resto delle reclute si era presentato già pronto con il look adatto alla nuova vita anziché mettersi nelle mani di principianti, scelti a svolgere quella mansione solo per caso, senza aver superato nessun esame preliminare. Aveva ottenuto poi il congedo per problemi psichiatrici, e prima di fare le valige aveva confessato a me e a pochi altri che la paura del complotto parentale altro non era che una messinscena piuttosto ingenua ma comunque rivelatasi efficace per tornare a casa anzitempo.

E ogni tanto mi capita di riflettere su un piano così folle per far impazzire qualcuno, una trama che non sfigurerebbe in una puntata ai confini della realtà. Io però mi limiterei a segnalare un altro tipo di situazioni impossibili da verificarsi. Per esempio che uno possa decidere il momento in cui bloccare tutto per l’eternità, una sorta di screen shot o cattura immagine grazie al quale una cosa che ci pare interessante o al massimo delle sue possibilità resta così per sempre. Io per esempio avrei schiacciato il tasto pause ai tempi di Windows 98, l’Ulivo, Audiogalaxy per scaricare gli Mp3, i miei genitori a sessant’anni, gli Scisma, gli Almamegretta e i Subsonica di Microchip Emozionale, le tracce di dopo barba che mio papà lasciava sul volante dell’auto che condividevamo, anzi era sua ma me la lasciava spessissimo, un profumo che poi mi restava sulle mani e che è tanto che non sento più.

Poi per il resto non ho alcun’altra recriminazione, lascerei la mia vita seguire il suo corso come è avvenuto e come chiunque può confermarvi: mia moglie, mia figlia, il mio lavoro, l’aver smesso di suonare, aver aperto un blog, aver letto tutto Paul Auster, esser diventato un fanatico della corsa e così via. Ma se davvero è così, significa che realmente non c’è stato nulla di precedente alla prima immagine che ho nella memoria? Siamo io e il nonno, che morì nel 72 per qualche bicchiere di troppo, seduti in quelle panchine di fronte a dove una volta c’era la stazione vecchia e si svolgeva il mercato del lunedì. Il nonno mi ha comprato un bellissimo giocattolo e probabilmente non c’è stata una ragione ufficiale, il compleanno o qualche altra festività. Io tengo in mano questa specie di mini-pista di latta con automobili, camion e motociclette saldate su un nastro a forma di otto che gira in un modo che ora identificherei con il simbolo dell’infinito, passando anche sotto una galleria che poi è la parte più emozionante di tutto e infatti muoio dalla voglia di vedere cosa c’è lì dentro, fino a quando dura la carica.

l’abolizione delle province non metterà fine al provincialismo

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Ma dai, che combinazione. Anche io ero vivo quel giorno lì. Grazie per la puntualizzazione, e la differenza è che per te quel due luglio è stato un paio di giorni prima del giorno dell’Indipendenza ed eri nei dintorni di San Francisco, per me è stato la festa della Madonna delle Grazie con i falò votivi sulle colline, la fiera con i prodotti agricoli e l’albero della cuccagna in piazza e l’orchestra con il ballo al palchetto. Un piccolo equivoco che però dimostra come nei grandi Paesi – con la p maiuscola, appunto – ci si possa permettere di parlare di cose infinitesimali perché parte di un mondo che nel nostro provincialismo appare incommensurabile, talmente complesso da afferrare nell’insieme che poi un albero, una siepe tagliata a forma di chissà quale animale esotico o un pezzo di costa pacifica – nel senso dell’oceano – acquisiscono una loro dignità.

Se lo fai in stati piccoli e chiusi in sé corri il rischio di separatismo narrativo e il particolare non si fa generale ma diventa una porzione indipendente in cui si conoscono tutti e fanno lo struscio nei pomeriggi prevestivi in zone identificate per convenzione come aree aggregative. E non è nemmeno la vecchia storia del marketing territoriale, quel fenomeno per cui appena valichi il confine con la Francia anche il peggio rudere è indicato con gigantografie sull’autostrada mentre quando vai per le arterie della nostra penisola ti saltano agli occhi solo le gru o i trattori o le piscine prefabbricate messe in bella mostra lungo i rettilinei per attirare acquirenti in transito.

Quindi, non so come tu abbia trascorso la tua, di festa. Noi quell’anno lì – come tutti gli altri e, ne sono certo, ancora adesso – abbiamo fatto notte aspettando che si esaurisse tutto il fuoco del falò alimentato dal fieno, dalle sterpaglie, dai copertoni e da altro ciarpame sicuramente tossico e bagnato di benzina sottratta alle falciatrici a motore, nessuno ha dimenticato che si viveva ignari nell’amianto allo stesso modo in cui la filosofia slow food non era ancora stata inventata.

C’era però un aspetto ricco di significati. L’incendio è la sciagura più ostile per chi abita le campagne, come tutto ciò che è da tenere alla larga risulta tentacolare. Trovate una fiamma accesa e strepitante e intorno si raduneranno bambini per mettere alla prova il tanto decantato potere di un elemento così dirompente, e questo a ogni latitudine, anche nei paesi più caldi. In campagna il fascino è duplice. Il fuoco che si espande è un pericolo per le persone ma anche per le bestie e per le risorse che danno da mangiare. Tenerlo sotto controllo è come avere un leone in gabbia e star fuori a fargli le pernacchie. Ora non ricordo bene, ma di sicuro a un certo punto qualcuno giù in paese avrà suonato le campane, l’inizio del giorno del santo patrono è ufficialmente al via anche se è ancora notte. Tutti i fuochi piano piano si attenuano fino a spegnersi sulle colline tutto intorno e i ragazzi e le ragazze, con le loro motociclette da fuoristrada, vanno a festeggiare altrove e a modo loro, lasciando soli i bambini intenti a cercare tizzoni ancora accesi mentre gli adulti e i vecchi si spazientiscono per portarli a dormire.

un post di giradischi, squadre di Subbuteo e maglioncini vintage

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Io sono uno di quelli che si sentono in colpa anche quando si avviano verso l’uscita senza acquisti perché sono entrati solo a dare un’occhiata, tanto che a me verrebbe persino da dare spiegazioni se solo l’uomo che controlla che nessuno si allontani senza pagare parlasse la mia lingua. Nel suo completo elegante talmente scuro che non si distingue dalla pelle guarda il carrello vuoto e con lo stesso gesto con cui i prestigiatori comunicano al pubblico la fine e il successo del loro trucchetto autorizza il mio ritorno nel limbo dei non-consumatori, quelli che si muovono lungo i corridoi comuni ai negozi dei centri commerciali senza fare nulla di economicamente vantaggioso per la struttura che li ospita.

Non per questo mi sento a posto con la coscienza. Da una parte penso che non sia colpa mia se un megastore di elettronica, elettrodomestici, hi-fi e via dicendo non venda giradischi, che è la cosa di cui ho bisogno perché il mio Nordmende del 1976 ha tirato le cuoia, anzi, la cinghia ma in senso proprio. Dall’altra con il mio ingresso a vuoto mi sento come se avessi illuso un brand e le migliaia di dipendenti precari che vi operano in quello come in tutti gli altri templi del credito al consumo.

Tutto ciò mi riporta alla memoria Oddera, lo chiamo per cognome come a scuola perché non ne ricordo il nome, che era uno belloccio, piacione e alla moda che però una volta avevo sorpreso con un pullover blu con il girocollo a due cerchi bianco e rosso, lo stesso modello che io avevo posseduto almeno quattro anni prima di allora e prima che si manifestasse uno scarto estetico epocale come il passaggio dai 70 agli 80 ed è per questo che il fatto che lo indossa stona con tutto il resto. Io che ho la pessima abitudine di idealizzare il prossimo, mai avrei pensato che uno alla moda come lui sarebbe stato obbligato dai genitori a indossare un capo probabilmente appartenuto anni prima a un fratello maggiore o a un cugino, perché dubito l’abbia acquistato di sua sponte considerando lo stile in auge di cui era piuttosto “addicted”. E me lo ricordo bene perché il pullover in questione era simile alla divisa di una delle mie squadre di Subbuteo preferite, il Washington, di cui sono certo di aver avuto l’esclusiva in Italia, almeno tra la cerchia degli amici con cui trascorrevo interi pomeriggi giocandovi. Ma Oddera questo non poteva saperlo, e per farla breve mi ero dispiaciuto per avergli inconsapevolmente rovinato il piacere di vestire un capo che poteva sfoggiare con estrema originalità quando io sarei potuto correre a casa e tornare da lui con la mia versione di qualche taglia più piccola, facendogli fare una pessima figura e acquisendo popolarità con le conoscenze comuni, e non solo femminili. Naturalmente tutto questo non l’ha mai saputo, io non ho mai dimostrato l’anacronismo del suo look e Oddera ha continuato ad avere il successo che meritava a differenza di me che rosicavo consolandomi con cose sciocche come l’abbigliamento e i giochi da tavolo.

Invece, tornando all’oggi, all’addetto a quella specie di controllo mancati-acquisti, armato di una lingua che nessuno lì comprenderebbe, non posso essere di alcun rischio, lui il suo mestiere l’ha fatto e sono io ancora una volta in difetto. D’altronde se nessuno più posiziona giradischi sui propri scaffali non è una catastrofe, ne ho appena visti almeno un paio nuovi su siti di e-commerce nemmeno tanto specializzati in cose così. Lo comprerò in Internet, e se poi la vendita al dettaglio verrà spazzata via da quella online è un problema anche suo e dei suoi gesti da illusionista. Et voilà, esperimento riuscito: il carrello è vuoto, nessuno si rende conto che il vinile sta riprendendo mercato, ho tanta voglia di tornare a casa, mettermi il mio maglioncino blu come quello di Oddera e ascoltare qualcuno dei miei 33 giri preferiti. Il Subbuteo no, l’ho venduto a sedici anni perché a sedici anni mi sentivo grande, e ancora adesso me ne pento perché sono certo che mia figlia si divertirebbe un mondo.

finalmente libero

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Dev’essere stata nostra madre a insegnarci come si telefona, se non ricordo male, a metterci al corrente dell’etichetta da utilizzare per non apparire maleducato a un interlocutore che risponde e che non è il diretto interessato da coinvolgere nella conversazione che si vuole avviare, nella richiesta di notizie che si ha bisogno di chiedere, nella semplice constatazione che va tutto bene da un capo all’altro della linea perché è un po’ che non ci si vede e non ci si sente.

Una metodologia resa necessaria dal fatto che avere il telefono in casa non era così scontato, si poteva nascere e crescere fino a una certa età senza averne uno e ricorrere a quello pubblico più vicino per le urgenze e fornire il numero di quello dei vicini di casa in caso di necessità di essere rintracciati. La mia famiglia fino a un certo punto non ha posseduto un apparecchio telefonico, come non ha avuto sempre a disposizione un’automobile di proprietà, un ascensore condominiale e persino un bagno con tutti i crismi, nel senso di doccia, vasca e bidet se non un suo surrogato di plastica componibile da riempire di volta in volta di acqua fredda, indipendentemente dalla stagione. Cose che, come si dice, non usavano.

Ed è stato così, almeno per il telefono, fino a quando mio papà è venuto a comunicarci il nostro numero di cinque cifre – trenta centoventicinque – così, senza il prefisso che nelle chiamate urbane non doveva essere messo davanti. Da lì l’esigenza del training per irrompere con la giusta e buona educazione nelle vite degli altri con uno squillo ripetuto, che in certi frangenti risuona come un disturbo dell’intimità del quale bisogna scusarsi di default. Buongiorno/buonasera sono nome cognome, parlo con la famiglia cognome? Si/No (esiste la possibilità che si sbagli a selezionare il numero). Se si: C’è nome_interessato? Grazie buongiorno/buonasera.

Poi alle richieste di chiarimenti sui compiti e agli inviti per i giochi pomeridiani con merenda sono subentrate le chiamate romantiche, quelle con le quali si occupavano gli apparecchi per ore dolci e bollette salate, con fratelli e sorelle che rivendicavano il loro diritto a un uso analogo. Tanto che per ovvi motivi di privacy io preferivo munirmi di gettoni o, più tardi, di schede e utilizzare uno dei loculi di uno di quei posti pubblici della Sip che non esistono più, con le cabine insonorizzate la cui assenza di rumori esterni dava sin fastidio.

Ma oggi la telefonata non conserva più la drammaticità dell’evento unico, raro, persin costoso. Contratti flat e dispositivi personali, per non parlare della maggiore importanza che rivestono le conversazioni scritte (male) hanno svilito il pathos del parlarsi a distanza e senza faccia. Al telefono si costruivano e si distruggevano amori, si progettavano futuri di gloria, ci si attribuiva responsabilità di attentati e sequestri di persona, ci si rendeva irrintracciabili.

Ora tutto questo ha un significato e un sapore diverso, il parlarsi è una delle tante funzionalità digitali e non ne sto dando un giudizio morale perché anzi, per certi versi è anche meglio così. Lo stordimento da conversazioni fiume, si manifestavano rare e quindi lunghe in quanto concentravano più cose da dirsi, era una sensazione postuma che rimaneva appiccicata come una morsa sull’orecchio, rosso e indolenzito per tutto quel tempo con la cornetta tenuta schiacciata per l’intenzione di un abbraccio, in fondo il telefono e la persona con cui si parlava avevano la stessa voce.