Se già l’avere tutto a portata di mano con l’internet vi trasmette completezza e un livello di progresso che non ha confronti ma che quando trovate le striscioline di quotidiani cinesi usate per fare spessore nel sistema di chiusura degli ombrellini dei long drinks vi fa riflettere sulla parte del mondo a cui dobbiamo tutto, provate a immaginare il senso di sazietà tecnologica che ci hanno dato scoperte come la tv a colori, o le cuffie per riproduttori audio portatili, o anche una partita a pong. Persino la lavastoviglie Siemens di mia mamma che funziona ininterrottamente dall’82 mentre la mia, acquistata nell’anno del matrimonio, è di una marca italiana che nemmeno esiste già più, uscita fuori gioco senza nemmeno passare dal via alla delocalizzazione. Mi ricordo persino il profumo del vano per le cassette della piastra del primo impianto hi-fi e la reazione fisiologica che mi dava la polvere che si raccoglieva sulla fila degli LP riposti di costa proprio come accade oggi, la differenza è che una distinta signora ucraina una volta alla settimana comprime in un aspirapolvere obsoleto con il sacchetto ogni rischio di allergia con acari di contorno. Ma se fosse per me io mi sarei fermato già da un pezzo perché nessuno vi verrà mai a dire che gli manca qualcosa, al massimo qualcuno ma è un altro discorso, e senza tirare in ballo quelli della decrescita felice io mi accontento di una stabilità non certo triste ma con quel poco di nostalgia per gli album Disney con le storie di topi e paperi contestualizzate per i mondiali di calcio, il significato di cinque stelle che era una latteria dove mio papà comprava i semifreddi al sabato sera da gustare durante Fantastico con Beppe Grillo, ironia della sorte, persino l’odore che c’era nella Ford Taunus che mi faceva venir da vomitare dopo un paio di isolati e che non ho mai capito perché un abitacolo di berlina dovesse puzzare così di abitacolo di berlina. Nello stesso anno – non chiedetemi quale – qualcuno è riuscito persino a far coesistere una specie di console portatile ante litteram con cui si poteva solo giocare a un gioco e basta e io avevo scelto il basket, con una lineetta accesa che alla pressione di un pulsante a forma di freccia faceva allontanare da sé un puntino – la palla – verso uno spazio vuoto che era un canestro, e allo stesso tempo dicevo c’era un catafalco con delle molle che, comandate da tastoni colorati, lanciavano una pallina da tennis tavolo in un canestro. Una specie di pallacanestro balilla, passatemi il termine, fatto apposta – credo di essere stato il proprietario dell’unico articolo venduto – per gente che si faceva fotografare ancora con i genitori in vacanza. Invece no, gli inventori non si fermano ed è per questo che tergiverso quando mia figlia mi chiede questa o quell’altra cosa. Tesoro, le dico, che cosa te ne fai di uno smartphone? Se devi chiamare qualcuno – e mi chiedo chi debba chiamare al di fuori dei suoi genitori ma vabbe’ – se devi chiamare qualcuno puoi farlo col telefono di casa. Se vuoi invece spippolare con le cosine touch che vanno per la maggiore abbiamo già un tablet in casa, se si tratta di voglia di entertainment digitale, allora, non ti puoi certo lamentare sulle prestazioni dei pc domestici. Non è tanto quindi necessità di comunicare, è più una voglia di avere un robo che se non ce l’hai ti senti un po’ escluso.
buon proust ti faccia
natale a casa bradford
StandardSe avete mai visto una di quelle puntate dei vostri telefilm preferiti dedicate al Natale ma le avete viste fuori stagione, sapete che cosa intendo. Telefilm e serie americane sono spesso trasmesse in Italia con una programmazione dettata solo da ragioni di palinsesto, in relazione a quando si rendono disponibili, quando c’è da tirare su audience, o per tappare dei buchi, mentre negli USA o dove vengono prodotte spesso seguono il ciclo della vita degli spettatori per un effetto che noi, che al massimo la sincronizzazione è quella di un posto al sole, non possiamo nemmeno immaginare.
Ricordo episodi di Friends, di ER, addirittura Happy Days, e sapete come gli americani ci danno dentro con certe smancerie da famiglie tv che poi dissacrano nei libri di Roth, Franzen e Moody. Il punto è che vederseli in qualche replica estiva, soprattutto prima quando era facile rimanere naufraghi della tv ancora analogica al caldo di luglio e la pelle delle gambe che si appiccicava al divano in pelle, causa quella specie di jet lag stagionale per cui non sai se aver caldo o freddo, se struggerti per i parenti distanti o alterarti per gli zii impiccioni ancora incollati alla tavola imbandita, se tutto deve ancora iniziare o sta per finire, se fuori è buio e ci sono le illuminazioni che si riflettono sull’asfalto bagnato o se le ragazze passano dirette al mare con le infradito e i pareo.
Ma queste débâcle della percezione si manifestano anche con la semplice fantasia. A me basta una luce rossa riflessa nel vetro di un finestrino per riportare alla memoria un set di casette del presepe in legno molto artigianali che aveva costruito mio nonno. Aveva incollato poi dei minuscoli ritagli di plastica trasparente rossa a copertura di porte e finestre. Le casette, in barba a qualunque legge prospettica, venivano posizionate ai confini di quel villaggio inventato, dove il muschio e la carta con cui si facevano le rocce e la terra lasciavano il posto al tavolino in teak, quasi a riportare alla realtà ogni parvenza di ultraterreno, un triste monito alla illusorietà di quella parentesi di spensieratezza e fasto. Dentro alle casette poi posizionavamo le lucine intermittenti, il cui effetto di calore ti faceva il pieno di scorte di speranza per quegli insulsi mesi a venire.
Tutto questo oggi ha invece le sembianze di una sensazione di caldo solo a malapena giustificata dal contrasto con l’aria condizionata degli interni e dalle nuvole che si vedono fuori in alto, oltre il vetro dove prima ho visto la luce rossa riflessa, e che trasmettono un barlume di inverno, almeno fino a domattina, dicono che dovrebbe esserci il sole.
agosto 1980
StandardEro riuscito a registrare “Sleepwalk” degli Ultravox ascoltando la classifica di una radio locale del basso Piemonte, insieme a cose meno trasgressive come “The shape i’m in” di Jo Jo Zep and the Falcons. La radio portatile con il mangianastri incorporato era una componente fondamentale del mio asset da cui non mi separavo nemmeno in vacanza. La differenza era che molte delle stazioni radio di città che avevo marcato con gli appositi segnalatori di plastica arancione, in dotazione sull’indicatore della modulazione di frequenza, non erano più attendibili nemmeno ruotando la lunga antenna. Ma a parte questo era difficile beccare una canzone da registrare al volo a meno che qualcuno non l’annunciasse con lauto anticipo consentendomi di tenermi pronto. Dedicavo a questa specie di peer to peer ante-litteram quasi tutto il mio tempo libero, figuratevi durante le vacanze estive. Era il periodo delle medie, c’era già il reggae nell’aria e avevo disegnato i contorni dell’Africa su un paio di jeans vecchi – non ricordo se fosse una moda, in caso contrario si metta agli atti che lo facevo solo con l’abbigliamento da battaglia – e avevo completato l’opera con una serie di nomi di band sconosciute ai più che avevo scoperto grazie al fratello di Vincenzo che era una specie di punk, viaggiava all’estero per lavoro e portava al ritorno con sé qualche anticipo delle più moderne tendenze. Così mi sedevo sotto il noce che vegliava sulla mia casa di campagna ad aspettare qualcosa di bello. Ero già solitario allora. Prendevo la bicicletta e pedalavo in lungo e in largo per il paese, se trovavo qualche faccia conosciuta al bar mi fermavo. Altrimenti tornavo a casa per la merenda. In casa c’era sempre qualcosa da fare, come leggere dei vecchi libri di scuola degli anni 50 chissà di chi, pieni di storie dense di morale e insegnamenti superati, volumi dal forte odore di umidità. La donna angelo del focolare. L’uomo la colonna della famiglia. Poi la tv del tardo pomeriggio, i programmi delle 18 che seguivo con il senso di colpa di non essere fuori a giocare, a correre, a stare con gli altri. Un po’ me ne pentivo quando iniziava la stagione delle piogge ed era il momento di tornare in città e a scuola, quando c’era sempre il giorno di autunno in cui scambiavo, la mattina presto, il rumore di un motorino per quello della motosega del falegname che si sentiva giù in valle e che mi dava la sveglia, ogni mattino d’estate.
rho non ha nessuna colpa
StandardGiovanni era il mio preferito perché conduceva la sua vita da villeggiante senza il bisogno di legare con i suoi coetanei autoctoni. Trascorreva il mese di luglio a casa della nonna, un appartamento all’ultimo piano di un edificio signorile dalla eccessiva impostazione architettonica eclettica, costruito cioè in quel periodo in cui non sembrava strano mettere fianco a fianco un palazzo orientaleggiante a un villino di impronta tardo-gotica. La nonna di Giovanni occupava l’attico, quello con le torrette dedicate alla zona notte, una residenza di elevato prestigio che la diceva lunga sulla classe sociale della famiglia di origine. Il padre era un ingegnere milanese benestante ma non ricco sfondato, altrimenti non avrebbe certo mandato il figlio al mare in quel posto lì. Giovanni era alto e ben piazzato ma con una faccia da babbionello, forse perché aveva la media del nove al ginnasio e a sedici anni si stava per diplomare in pianoforte. Non trovavo corretti i concentramenti di bravura, per di più uniti alla bellezza e al carisma. Giovanni per fortuna aveva qualche carenza almeno in questo senso, per il resto era informato, intelligente, molto serio ma piacevole da frequentare. Soprattutto se ne stava in disparte e non sembrava dispiacersene. Condividevamo una parte del tragitto per rientrare a casa dopo un’intera giornata di mare, sua nonna tornava prima per allestire la cena, e mentre chiacchieravamo lo vedevo sereno, senza quella fregola di piacere alle ragazze che avevamo un po’ tutti, poche parolacce, il tutto potenziato da un tipo di sicurezza di sé che non conoscevo e mi suonava molto affascinante. Ma la cosa che mi incuriosiva più di Giovanni era il fatto di vivere a Rho. Non avevo mai sentito nominare Rho, né pensavo che potesse esistere un posto con un nome in italiano contenente l’uso dell’acca così particolare. Avevo cercato sull’enciclopedia e sull’atlante e avevo letto del tessuto economico di Rho, delle raffinerie e delle industrie, dei cotonifici e del polo chimico. Mi chiedevo come potesse essere la vita di un ragazzo come Giovanni che passa le giornate dopo la scuola a studiare latino, greco e pianoforte senza interruzione, solo che fuori ci sono ciminiere che eruttano fumo e lingue di fuoco che illuminano un’atmosfera malsana densa di caligine e vapori di fabbriche. Ora Rho è a una manciata di chilometri dal posto in cui vivo e in questi giorni in cui si parla di distese di cantieri improduttivi, autostrade a quindici corsie che nemmeno a Los Angeles, matrioske di imprese subappaltatrici che ci faranno mancare non solo l’impegno con il mondo intero per Expo2015 ma anche un’identità geografica di riferimento perché dell’Italia, a quel punto, non rimarranno che i pentastellari a blaterare di scie chimiche sulle macerie, proprio in questi giorni pensavo a che ne sarà stato poi di Giovanni, se ora è ingegnere pure lui o è diventato un bravo musicista.
la voce che ti dice che non è roba tua ha sempre ragione
StandardSiamo talmente abituati all’usa e getta che non ci preoccupiamo più di raccogliere le cose che troviamo abbandonate o perse da altri ed è sconvolgente se consideriamo quanto ci dicono che dovremmo esser poveri e il livello di zozzerie che si vedono in giro, zozzerie – in questo caso – da un punto di vista ecologico. Certe cose nemmeno le notiamo più, come le monete da uno due o cinque centesimi, se ci fate caso se ne vedono un sacco in giro ma che figura, però, a chinarsi e tirarle su in pubblico. Ieri invece uscito dall’ufficio ho visto una bella penna Stabilo giacere sul marciapiede nei pressi di una scuola media ed è lì che ho pensato quale debba essere il comportamento più corretto. Quanti di voi tornerebbero sui propri passi alla ricerca di una penna smarrita? Io, per dire, lascio sempre il mio tratto pen blu in giro, sulle scrivanie degli altri, una volta l’ho lasciato pure in bagno, ma quando e se me ne accorgo mica mi metto a cercarlo. Chissà dov’è, mi metto così a scrivere con una biro qualsiasi fino a quando è lui che trova me. Miracoli del terziario avanzato.
A maggior ragione uno studente delle medie che si rende conto della perdita e fa la strada a ritroso sino all’ingresso della scuola, una scena degna del finale di un film di quelli un po’ di nicchia che piacciono a noi blogger di nicchia, è difficilmente plausibile. Restano in lizza due opzioni: la si lascia lì perché non se ne ha bisogno, la si raccoglie ché non si sa mai. E l’appropriarsene in fondo è una reazione che fa tornare un po’ piccini, quando sei nel limbo del capire e del non capire e con la smania del capitalismo pre-scolare tutto quello che vedi e che ti attira l’attenzione diventa tuo. Quante discussioni con mia figlia, da una parte noi adulti con tutte le convenzioni imposte dalla convivenza sociale che quindi una cosa così non si fa. Dalla’altra l’ingenua attitudine al possesso che eserciti perché non hai ancora il filtro dell’auto-controllo.
Ricordo tanto tempo fa al mare, ero davvero piccolo, mi ero impadronito di una nave di plastica molto bella, colorata e super-accessoriata che avevo trovato in prossimità delle docce. Ma sapete com’è la vita negli stabilimenti balneari. Si lasciano i propri effetti personali nelle cabine, si appendono costumi e teli in comune, si lasciano occhiali e accendini sotto l’ombrellone quando ci si tuffa in acqua. Non a caso ero stato raggiunto da una mamma con un bimbo più piccolo di me in lacrime ed ero stato costretto a restituire la nave di plastica con mio sommo sbigottimento. Nessuno aveva dimenticato nulla, il bambino era scappato in bagno e al ritorno il suo gioco aveva cambiato proprietario.
Così, mentre passavo in rassegna questi strascichi di una delle prime delusioni cocenti provate, ho lasciato la Stabilo lì dov’era, consapevole che il suo valore non esercita alcun fascino sull’uomo dei nostri tempi, abituato a perdere telefoni e gadget elettronici con una frequenza preoccupante. A me non è mai successo di trovarli, sono cose che sento dire in giro, ma se mi capita so già, però, come cercherò di comportarmi.
ancora sul ragazzo di campagna
StandardSe sognate un ritorno alla campagna e barattereste senza tante remore il vostro impiego dal nome in inglese nei servizi per un’involuzione verso la terra e i proventi che ne derivano dalla semina e la raccolta, passando per la zappatura, dovreste essere pronti a un cambiamento radicale della vostra vita soprattutto negli orari dei pasti. Io lo so perché i miei nonni paterni erano contadini, e anche quando si sono trasferiti in città, come si usava fare dopo la guerra, hanno continuato le loro abitudini pranzando a mezzodì e cenando alle sei di sera. Abitavamo tutti insieme e ricordo bene quei ritmi naturali prima che iniziassi ad andare a scuola. Oggi posso proiettarli in un’economia povera fatta dei frutti del proprio lavoro, di qualche animale nella stalla per il sostentamento del nucleo famigliare e dei cicli produttivi soggetti alla natura, alla regolarità delle sue certezze – le stagioni in primis – ma anche agli imprevisti. Grandini, incendi, siccità, piogge copiose. Nella sicurezza della vita urbana, nella finzione delle comodità messe a disposizione dal progresso come la luce elettrica sul tavolo da pranzo e un mobile tv sintonizzato sul telegiornale della sera, mantenere gli stessi ritmi imposti dal lavoro nei campi era comunque una sfida aperta all’industrializzazione. E poi si sparecchiava e con la bella stagione c’erano ancora un po’ di ore di chiaro da passare a proprio piacimento prima di coricarsi. Per me quindi il concetto di dopocena, almeno per una parte cospicua della mia adolescenza, partiva dalle sette circa in poi. Quella trasposizione di un modello non tanto superato quanto inadatto per la vita di città si è esaurita in occasione del primo scontro con la realtà dei coetanei. Avevo risposto con entusiasmo a una proposta di uscita con una ragazza, era estate e tutto era lecito anche se le prime esperienze fuori di casa si cercava di organizzarle basandosi un po’ sul sentito dire dei più grandi o copiando quello che si vedeva nelle pubblicità in televisione. Le avevo proposto di vederci dopo mangiato per un gelato, ma l’idea di incontrarci verso le sette e mezza fu motivo di ilarità. Lei, cittadina da molte generazioni, era solita cenare non prima delle venti e trenta. Avevo comunque provato a uscire di casa all’orario che ritenevo più naturale, una sorta di prova preliminare all’appuntamento vero e proprio, e avevo appurato che alle sette e mezza, in effetti, le gelaterie erano deserte. Non volevo però far pesare alla mia famiglia questa usanza che ci rendeva differenti rispetto al resto della gente di città. La sera decisiva ero uscito lo stesso dopo cena – ora contadina, ammazzando il tempo fino alle nove in giro da solo, cercando di non farmi vedere da nessuno.
ciao mamma guarda come mi ricordo
StandardA vederli cosi un po’ vecchi e malandati non diresti che hanno contribuito non solo allo sviluppo economico del paese ma anche alla nostra emancipazione personale. Sono stati la matrice di quella parte rimanente, che curiosamente si chiama proprio figlia, e che è la nostra vita che poi qualche sconosciuto ha strappato proprio come un biglietto del cinema. L’ingresso per uno spettacolo per il quale siamo stati scritturati, nostro malgrado, nella parte di protagonisti pur essendo, parlo per me, dei cani a recitare. Un sistema comunque ampiamente rodato e che rientra nella fortuna di aver avuto genitori produttivi, gente che ha lavorato insomma, non disoccupati o lazzaroni o appartenenti a quella categoria che con il loro modo diversamente collaborativo di intendere il sostentamento della propria famiglia hanno guastato o influito negativamente sulla vita dei figli. Soprattutto le nostre madri, su di loro va una seria riflessione. Noi eravamo in tre e, malgrado ciò, mia mamma ha lavorato tutta la vita. Si è smazzata tutta la cura per tre figli in tempi in cui i padri ancora erano autorizzati dalla società a limitare il proprio apporto educativo a spezzarsi la schiena per farli studiare. Uno scopo encomiabile che però oggi non sarebbe più sufficiente, considerando le complessità che sono subentrate. Mi riferisco al fatto che la nostra generazione è stata lasciata un po’ allo sbando ma perché era considerato giusto lasciare che i bambini crescessero più in fretta e diventassero indipendenti il prima possibile. Oggi bisogna essere almeno in due. Mia mamma quindi, oltre all’impiego a tempo pieno, gestiva il menage famigliare, la scuola, i pasti, la cura domestica, la spesa e tutti gli imprevisti del quotidiano. Non so davvero come ci siano riuscite, lei e tutte le madri di allora. Il rischio era quello di non riuscire a badare a tutto, a essere costantemente sul pezzo, a commettere piccole dimenticanze. Per non fumare in ufficio, per esempio, lasciava il pacchetto di Milde Sorte nel cassetto del tavolino in salotto, ed è lì che ho iniziato a fumare già ai tempi delle medie. I figli sanno essere perfidi e poi rigettano la responsabilità sugli adulti, ma non c’è nulla da fare. Mia mamma tornava spesso a casa per la pausa pranzo e, dopo mangiato, seguiva una soap opera di successo che si intitolava Capitol, ve la ricordate? Io rientravo da scuola più o meno alla stessa ora e mi mettevo a vedere la tv con lei ma solo perché Capitol mi faceva cadere automaticamente addormentato, mi sdraiavo sul divano e quella robaccia americana – definivo quel processo di causa/effetto “assoapimento”- costituiva un sottofondo perfetto per la pennichella almeno fino alla sigla finale, con quel sassofono languido che riportava sia me che mia mamma ai nostri rispettivi doveri.
facoltà di lettere, scritte e mai ricevute
StandardNell’immaginario delle storie d’amore non c’è nulla di più virile del beau geste di una valigia pesante sollevata da terra con i muscoli delle braccia maschili in tensione e posizionata in alto, sul ripiano portabagagli di uno scompartimento ferroviario, come supporto al gentil sesso. Offrirsi di portare un borsone contenente un’intera stagione di abbigliamento universitario per il cambio natalizio con i vestiti più pesanti e adatti alla sopportazione della trimurti dei mesi del gelo assoluto seguente, dal binario di attesa al posto prenotato sull’Intercity, scatena immediatamente tutti gli ormoni della prosecuzione della specie. Io e Federica ci siamo conosciuti così.
Sin dagli albori dell’anno accademico 90-91 avevo usato lanciarle caparbi segnali di invito all’accoppiamento confortato da un numero di conferme di rimando che lasciavano presumere un esito dignitoso alle molteplici dimostrazioni di rinuncia alla mia dignità, il preambolo quasi obbligatorio di ogni sacrificio amoroso. Ero attirato dal suo caschetto asimmetrico, dall’abbigliamento all-black e da certi ascolti eterodossi e presunti che uniti a bigiotteria macabra, trucco e calzature anti-infortunistiche ne consolidavano l’orientamento superbamente arrendevole, almeno nella mia fantasia.
Non mi ero così lasciato scappare l’occasione ghiotta di un viaggio di ritorno definitivo sulla tratta comune, il rientro a casa prima della pausa di dicembre. Prima che potesse dire qualcosa, come un mascalzone latino qualunque, le avevo sottratto il borsone di mano invitandola a seguirmi, di sicuro un paio di posti liberi – tutti per noi – sull’ultimo treno dopo la chiusura delle attività accademiche lo avremmo trovato.
Io e Federica avevamo trascorso così quell’ora e rotti di viaggio insieme. I libri, i dischi, il passato e quello che ci aspettava, il suo ragazzo Giovanni dal nome troppo ordinario per una complessità british-orientend, io sommerso dal dramma esistenziale di un servizio militare capitato nel mezzo degli studi. Troppo vicini sui sedili di fortuna, quelli che nei corridoi dei vagoni assicuravano un po’ di riservatezza a chi non voleva condividere la propria vita con passeggeri casuali. Sembra un’era geologica rispetto ai tempi odierni delle conversazioni telefoniche private tenute senza pudore al cospetto di chiunque, sui mezzi pubblici.
Ci siamo lasciati così, come quei film in cui se lo sceneggiatore ha deciso che due si devono incontrare ancora, per ragioni di botteghino tutto può succedere. Se avessi azzardato un approccio in quel frangente, Federica avrebbe avuto qualche complicazione sentimentale, senza contare che il nome Giovanni e la sua appartenenza a una famiglia dalla forte connotazione meridionale tradiva comunque frequentazioni poco rassicuranti e una catena di rivendicazioni svantaggiose. Ma non avevo dubbi che il destino avrebbe compiuto ugualmente il suo corso.
Ci siamo incontrati infatti di nuovo qualche mese più tardi, in coda alla segreteria di facoltà per il pagamento dell’ultima rata d’iscrizione. Il fatto che avessi pensato fortemente a lei, varcando il portone della sede, aveva elevato a valore esponenziale la casualità del rivedersi e il riprendere la conversazione da dove un saluto frettoloso ci aveva lasciati. Per non perdere tempo, e per non lasciarmi sfuggire una seconda volta l’occasione, mi era sembrata una buona idea – malgrado la ressa di studenti isterici che ci stavano ascoltando – la proposta di instaurare un rapporto epistolare mentre ero ancora in caserma, proprio come un soldato al fronte. Un’ipoteca su una vita insieme futura malcelata nella stesura di un aggiornamento anacronistico di un’esperienza, la naja, il cui valore esistenziale ed intrinseco già era pari a zero se non controproducente. Tutti già sceglievano il servizio civile, soprattutto negli ambienti più intellettuali, solo a me avevano respinto la domanda e costretto alla leva obbligatoria.
Federica in quel frangente si era premurata di lasciarmi i suoi dati, ma avevo colto immediatamente un presagio nefasto, l’esitazione nello scrivere su un foglietto di fortuna il suo cognome che, a rileggerlo dopo averlo riportato fedelmente sul dorso della busta, mi suonava così esotico ed evocativo di civiltà ormai scomparse. In quella lettera che le avevo scritto pochi giorni dopo il nostro incontro mi ero messo a nudo e avevo concentrato tutte le mie energie sentimentali, è facile immaginare la delusione dal non aver ricevuto mai risposta alcuna.
E, a così tanti anni di distanza, mi è stato possibile avere la conferma che la mia lettera non è mai arrivata a destinazione. Ho approfittato dei motori di ricerca e dei social network per rintracciare proprio Federica, perché da quell’ultimo episodio in segreteria di facoltà non l’avevo mai più incontrata. Ho scoperto così che il cognome e l’indirizzo che Federica mi aveva fornito erano totalmente inventati. Un modo elegante di sbarazzarsi di uno che ci voleva provare e che, a posteriori, mi sembra persino geniale.
passano ancora lenti i treni per Lourdes?
StandardMa quindi passano ancora lenti i treni per Lourdes? Potete aggiornarmi e per un istante evitare che vi ritorni la voglia di vivere a un’altra velocità? I treni per Lourdes erano una visione notturna per quelli che aspettavano l’ultimo locale per tornare a casa in qualche stazioncina di provincia, quelle dove non fermano né diretti né espressi tantomeno gli Intercity. Avrete capito che mi riferisco a treni di un’altra epoca, altro che Tav e Freccia Rossa. Era proprio il tempo di Alice e Franco Battiato e della loro partecipazione all’Eurofestival dell’84. Si aspettava l’ultimo locale di mezzanotte, dopo aver dato a chi so io l’ultimo bacio della sera, sulla panchina di uno dei due binari, poi suonava la campanella – ve la ricordate la campanella? Ci sono ancora ad annunciare il treno in arrivo? – ma anziché l’ultimo locale di mezzanotte arrivava inaspettato quanto deludente il treno per Lourdes, facilmente riconoscibile da lontano per via del locomotore, troppo potente per un treno locale.
Un convoglio con le sembianze di un treno a lunga percorrenza che si differenziava dagli altri, e mentre rallentava con lo stridore dei freni per fermarsi lì davanti a persone assonnate in attesa di tutt’altri vagoni, era lì che si capiva che era un treno straordinario, perché era popolato solo da tre tipologie di viaggiatori. Suore o suore/infermiere, comunque sacerdotesse addette al culto della salvezza umana con la divisa bianca da crocerossine che si affacciavano al finestrino per capire perché il treno straordinario faceva fermata lì, con i loro visi acqua e sapone racchiusi dentro al velo o al cappello di ordinanza.
Ci guardavamo loro dall’alto in basso, con l’espressione di chi non capisce quel che succede, noi dal basso verso l’alto perché sapevamo benissimo che cosa stava accadendo, con quei dannati treni straordinari che scombussolavano gli orari dei treni regolamentari, come i trasporti eccezionali sulle strade in cui è già un casino sorpassare veicoli normali. Per me era essenziale che il semaforo consentisse al treno per Lourdes di ripartire in fretta sgomberando il binario per favorire l’arrivo del mio locale, probabilmente fermo alla stazione precedente in attesa del via.
Oltre alle suore/infermiere c’erano vari accompagnatori in abiti laici o vestiti da preti nel tempo libero, spesso persone molto anziane ma in salute e amanti del colore grigio. Quindi ecco la carrozza con i viaggiatori più accreditati su quella linea taumaturgica, ovvero malati, moribondi, gente sulla sedia a rotelle o infermi sdraiati nelle cuccette, la cui ombra si intravedeva da fuori svelandone la sofferenza velata da un pizzico di speranza, quella di scendere trasportati da qualcuno alla stazione di arrivo e di prender posto sulla carrozza del ritorno invece autonomamente.
Ma per me, deluso dal treno sbagliato che significava il prolungamento dell’attesa, il miracolo non era certo quello e al limite poteva avere le sembianze di un capotreno che apriva una porta e mi lasciava salire lo stesso, magari non per spingermi fino a Lourdes ma per la mia quotidiana destinazione. Fantasticavo su un viaggio a bordo di uno di quegli Orient Express del dogma. Sentivo le voci dentro, accenti del sud, risa femminili, qualcuno che si lamentava del dolore nel buio del proprio scompartimento, fino al fischio definitivo che sanciva la fine di quello spettacolo estemporaneo. Il treno ripartiva per Lourdes portandosi via tutto il suo vento, l’aria che prende il posto delle cose ingombranti che prendono velocità. Il binario restava vuoto. Di lì a qualche minuto sarebbe suonata ancora la campanella, mi era stata concessa una seconda possibilità.
apologia del giornalino
StandardOsservo mia figlia tutta immersa nella lettura di Focus Junior, dopoché ne ha bramato l’arrivo nella cassetta della posta per più di un mese, a causa di un ritardo dell’avvio del prezioso abbonamento che le è stato regalato a Natale. La osservo con l’invidia del piacere che danno i giornalini, una parola che pronunciavo più da decenni e, a dirla tutta, nemmeno pensavo esistessero più, un po’ per il solito motivo dell’Internet e del digitale che se li porta tutti via, un po’ perché dall’ultimo giornalino che ho acquistato in edicola ne è passata di acqua sotto i ponti. Ora, non voglio entrare nel merito qualitativo dei contenuti, ho dato un’occhiata veloce a qualche numero in emeroteca e non mi sembra ci sia nulla di nocivo e deviante per l’intelligenza dei nostri ragazzi, a differenza di Focus senior di cui invece ho letto comparazioni con la letteratura giacobbesca e voyageristica. Almeno spero, ditemi voi. Io come al solito mi limito agli aspetti evocativi dell’atto di starsene sul divano con il giornalino aperto davanti, sfogliare quell’alternanza di articoli e storie a fumetti, le lettere dei lettori, qualche pubblicità, qualche inserto speciale, le strisce umoristiche, un passatempo che è su misura per un’età ben precisa, e avete capito quale. Il giornalino che un tempo invece era sempre un po’ borderline perché c’erano in commercio quelli che poi hanno preso una deriva un po’ zozza, con attrattive ben più esplicite rispetto a Billy Bis o a l’Eternauta, per non parlare invece di altri tipi di giornalini dichiaratamente spinti, che era meglio nascondere in casa. O il Giornalino con la G maiuscola, quello che si trovava e si trova tutt’ora in chiesa delle edizioni paolotte o giù di lì. A cui comunque anche mia figlia ho visto interessarsi. E non confondeteli con gli albi di fumetti o i topolini, che divoravo pure io all’ora di merenda ma molto prima, seduto sulla mia sedia preferita con un etto di focaccia in mano. Già, dove sono nato, trovare uno snack buono ed economico è molto più semplice che da altre parti. Focaccia e giornalini erano una risorsa all’altezza di tutte le tasche. E niente: poi nella vita, crescendo, i settimanali e i mensili musicali hanno preso il sopravvento fino all’ultima svolta che si prende in gioventù, quella a causa della quale in casa proprio non ci riesci proprio più a stare. Lo sapete, così, come finisce questa piccola riflessione. Mi metto sul divano anch’io finché ci si riesce a stare in due, mia figlia immersa in Focus Junior, io che guardo lei e il suo giornalino perché comunque quella è una buona occasione – l’unica – per vivere tutto una seconda volta, anche se non bisogna farsene accorgere altrimenti l’incantesimo svanisce.