la vera storia dell’agenda digitale

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Mi dice Luca che l’idea di portarsi a casa quell’agenda del 92 dalla cantina di casa dei suoi genitori è stata di sua moglie. Si tratta di un modello che ricordo benissimo perché ai tempi andava di moda e ce l’avevamo tutti uguale, a parte il colore. Copertina di plastica e un design molto hi-tech, soprattutto per i tempi. La mia era rossa, manco a farlo apposta. Rosso bordeaux trasparente che con il bianco della copertina di cartoncino sotto assumeva una sfumatura violacea. Il prodotto era vincente perché i brand di planner – così si chiamavano – probabilmente avevano trovato un accordo su alcuni aspetti del formato come dimensioni delle pagine e distanza dei buchi in modo che, una volta acquistata la cover, ogni anno si poteva scegliere la “ricarica” interna più adatta, settimanale o quotidiana. Ero rimasto felicemente sorpreso dell’esistenza di uno standard e dell’economia di scala che questo poteva comportare per tutti, sia le aziende che i consumatori. Ma avere un planner per tipi come Luca o il sottoscritto era poco più di un vezzo, almeno parlando per me. Potevo ricordarmi benissimo degli impegni imminenti tanto erano esigui, e marcarli nero su bianco era solo un tentativo per dimostrare a noi stessi di avere un vita di successo. La tentazione di scrivere quante volte facevamo l’amore con gli asterischi vicino a ogni data nemmeno fossimo dei sedicenni però era forte, considerando la scarsità degli altri argomenti su cui pianificavamo le settimane. Poi c’erano le esibizioni e i concerti che programmavamo con le rispettive band, ma che si concentravano tutte nei fine settimana. Facendo lavori di quel tipo, musicisti con aspirazioni impossibili da raggiungere, non è che avessimo riunioni o presentazioni a clienti. Insomma, ogni anno finivamo con lo stufarci di tenere quel memoriale del futuro prossimo e da marzo in poi le pagine rimanevano intonse, rendendo l’investimento nella ricarica più che sprecato, di solito coincidente con gli acquisti natalizi. Un discorso diverso va invece fatto per la rubrica telefonica, la parte finale del planner. Nel 92 i cellulari non esistevano o forse erano appannaggio dei più abbienti ma sinceramente non ricordo, così in rubrica ci finivano i contatti utili, i locali da chiamare per proporre una serata musicale, le ragazze stando attenti poi a non mostrarle troppo in giro, e gli amici. Nella rubrica dell’agenda di Luca ci sono anch’io, alla lettera B. Al primo posto con il numero che ancora adesso compongo quando da Milano voglio sentire come sta mia mamma. Ma, a parte relazioni con persone difficili da dimenticare, la maggior parte dei nominativi si fa fatica a collocarli nella nostra vita passata, a ordinare indirizzi, città, ruoli e importanza in quel preciso momento storico. Ben poche di quelle conoscenze sono sopravvissute e i telefoni fissi non ce li ha quasi più nessuno così quei numeri, probabilmente, non esistono più.

in condizioni climatiche così estreme diamo al verbo ventilare l’accezione che si merita

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La sera stessa in cui qualcuno ha iniziato a salutare ogni timido movimento d’aria come un segnale che qualcosa davvero stesse per interrompere l’ennesimo fenomeno atmosferico estivo dal nome preso arbitrariamente dalla cultura che ci siamo fatti al ginnasio, ma che oggi in cui abbiamo completamente dimenticato ogni reminiscenza umanistica non esitiamo due volte a definire, nel nostro lessico famigliare esportabile in ogni ambiente, come “caldazza”, è stato proprio in quella sera lì che Germano via e-mail mi ha scritto di esser capitato per caso sulla considerazione che ho scritto qualche settimana fa circa i 70 anni di Debbie Harry. Da lì ha dedotto l’anno di nascita della cantante dei Blondie, 1945, a distanza quindi di poco tempo rispetto a quello di sua madre che, data l’età, non se la sta passando molto bene.

A parte una considerazione sul fatto che in effetti esiste sempre l’e-mail come canale di comunicazione al quale però stentiamo a ricorrere per tutto ciò che implica – complessità di composizione ed elaborazione, tempi di stesura, rilettura, in poche parole una certa attitudine alla scrittura epistolare che a causa della messaggistica istantanea e, in generale, dei botta e risposta testuali, vocali, in video o tramite immagini oramai possiamo considerare desueta – ho cercato di convincerlo che probabilmente intorno al 78 quando Debbie, poco più che trentenne, frequentava con le sue mise pensate per mettere in risalto la sua bellezza new wave i palcoscenici in tutto il mondo, anche sua madre, sui quarant’anni, poteva aver nulla da invidiare in quanto a fascino all’ex coniglietta di Playboy. Da qui la sua domanda retorica se l’avesse vista con gli occhi di un figlio adulto. Ma il modo di dire che con i se e i ma non si fa la storia vale anche applicato alla musica, e mai come in questo momento in cui due canzoni come “Se telefonando” o “Se bruciasse la città” sono state riportate alla ribalta grazie a un paio di mediocri interpreti della canzone sanremese risulta essere un’affermazione convincente.

Germano, che pensavo non avesse perso un colpo del suo piglio da conquistatore nemmeno dopo aver lavorato come manager all’Ikea, mi confessa invece che ha iniziato ad aver paura la mattina in cui è stato costretto in ufficio a fare colazione come un vero cittadino svedese. Così gli ho ricordato che anche le personalità più pavide hanno percorso la loro curva lungo la vita con tanto di vette e di cadute in quanto a sprezzo del pericolo. Questo a dimostrazione che, sebbene vi sia una media più o meno alta che si mantiene in base all’indole personale, sono sicuro che anche ai più temerari ad un certo punto è capitato di farsela sotto, e se ce l’hanno raccontato vuol dire che non si è trattato di un momento fatale. Magari anche solo per un momento di debolezza, metti che erano stanchi o distratti.

In generale parti che ti senti un leone, da ragazzino, probabilmente c’è anche un termine preso dalla psicologia dell’età evolutiva che indica quell’attitudine a cacciarsi nei guai con tendenza a sentirsi immortali. Ho visto gente alta meno di un metro e mezzo buttarsi in bicicletta da dirupi con pendenze da disegno di Mordillo. Altri chiedere passaggi in macchina a rischio violenza carnale. Lanci nel traffico a bordo di frigoriferi per gelati con le rotelle (questo è un episodio che ha proprio Germano come protagonista). Non vi dico quando si diventa dei bellimbusti forzuti, lì non ce n’è per nessuno. Anche giù con il paracadute, tanto al massimo non si apre.

Fino a quando si tirano i remi in barca e spaventa tutto. Fa paura la città di giorno che un tempo la si sfidava in orari impossibili. Spaventano persino le reazioni altrui, quando invece una volta ci si divertiva a fare i provocatori. Ho visto persone diventare man mano sempre più immobili tanto erano intimorite da ogni aspetto della vita, ogni momento, ogni rumore, qualunque cosa in movimento nel campo visivo. Da fermi i rischi indubbiamente decrescono. Da qualche parte quindi c’è questo rimessaggio delle vite umane in cui si prende posto nella stagione in cui è meglio muoversi solo per certe funzioni a cui non possiamo rinunciare. Un tempo che, guarda caso, coincide con la “caldazza” di cui sopra, quando il movimento dell’aria è solo un’illusione generata da un oggetto a elica che si sposta.

se vuoi sopravvivere alle hit parade di quando facevamo le medie clicca qui

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L’estate è a tutti gli effetti la stagione dell’ansia e questo è uno dei paradigmi della mia visione delle cose, del modo in cui conduco la mia esistenza in pubblico ma soprattutto in privato e, di conseguenza, di questo blog. Si tratta di un concetto che si cela piuttosto grossolonamente tra le righe di un post su quattro o cinque nel periodo compreso tra il 21 giugno e e il 23 settembre. Non chiedetemi perché la penso così mentre tutti vivono la gioia del sole del mare e delle belle giornate. Non è che non mi piaccia, me la vivo male punto e basta. La combinazione tra lo stare ai margini della società produttiva per cause di forza maggiore (il fatto che non esiste più la sincronia tra le ferie alla fine da giugno ad agosto ciascuno fa un po’ quello che vuole e così la mole di lavoro cala) con la pressione bassa, i piedi costantemente roventi, la carne umana nuda che esonda da ogni dove, l’eccesso di luminosità e le giornate lunghissime non creano certo i presupposti per condizioni di vita dignitose. L’estate però è l’unico periodo in cui ci si può divertire con quella sensazione nello stomaco che io definisco il contrario delle farfalle (o bollicine) di quando ti innamori. Potrebbe essere se non cemento a presa rapida una cosa tipo alghe che vanno a comprimere l’addome spingendo il corpo umano verso la profondità delle domande esistenziali che ogni uomo a una certa età comincia a porsi. Una sensazione che, se riuscite a controllarvi, ha comunque una sua dignità e ci si può divertire a provarla, altro che droghe leggere.

Io riesco a suscitarla a comando e mi basta consultare un sito come quello in cui qualcuno ha raccolto anno per anno tutti i singoli più venduti in Italia in pagine web che solo ad aprirle si sente quell’inconfondibile odore di umidità da cantina dove si tengono le cose che non si vogliono buttare ma che è meglio dimenticare. A me piace cercare i titoli di certe canzoni dal 78 all’82 circa e quando ne trovo una nuova che avevo temporaneamente rimosso ecco le alghe che si agitano e una scarica di chissà che cosa diffondersi per tutte le membra. Una sorta di elettrochoc light ma controllato in quanto auto-indotto. Oppure ancora vado su Google Street view a cercare luoghi dove sono stato in vacanza da bambino con mamma e papà, e quando li trovo inalterati – un albergo che non ha cambiato ragione sociale o una stradina che non è stata ancora asfaltata che abbiamo percorso insieme non saprei dire quanti decenni or sono – ecco ancora una botta di quelle lì che mi scuote da capo a piedi. Vi consiglio di approfittare di queste esperienze di regresso emotivo finché il freddo dell’autunno non ci ghermirà di nuovo e ci riconsegnerà al patrimonio delle responsabilità che ci competono. Se avete paura di perdere il controllo, vi consiglio questo giochino ma in un ambiente ben rinfrescato, senza uscire nelle ore calde, non fate il bagno dopo mangiato, bevete tanto e tutti gli accorgimenti triti e ritriti che ci fanno sentire ancora importanti per qualcuno.

qualche migliaio di euro in più non ti cambia la vita

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Da come me l’ha raccontata, la telefonata dell’avvocato di zia Giulia dev’essere stata come uno di quegli eventi inaspettati che cambiano la vita ai protagonisti dei romanzi e dei film, come le trovate degli autori e dei sceneggiatori per giustificare le esistenze condotte senza affanni dei personaggi delle loro storie perché, altrimenti, la narrazione del quotidiano di gente alle prese con ordinari problemi di sussistenza al lettore o allo spettatore rompe i maroni.

Ma prima di mollare il posto da precaria e godersi quei due o tre anni di miglioramento personale che l’eredità della prozia paterna gli consente, Anna ha promesso all’ingegnere di accompagnarlo ad acquistare la pianola con l’arrangiatore automatico, così la chiama il suo diretto responsabile. L’ingegnere e Anna si conoscono dall’azienda precedente in cui lavoravano entrambi sempre con la stessa posizione subalterna nell’organigramma, con lui supervisore di lei. L’ingegnere però ha esercitato la sua autorità con modi poco costruttivi sin da allora; sposato con figli ma palesemente gay non dichiarato ha sempre utilizzato la sua posizione per controllare i riporti generando tensioni tra di loro in una versione di provincia della strategia “dividi et impera”. Anna, che è molto brava nelle cose che fa, si era stufata dell’ambiente ostile e aveva accettato una proposta interessante della principale azienda concorrente a cui però, tempo nemmeno un semestre, come una maledizione era approdato anche l’ingegnere, ancora come senior di Anna.

L’unica cosa diversa ora è che ad Anna è morto il papà e che quindi nella tabaccheria di famiglia ci sarebbe bisogno del suo aiuto, anche se non sembra un problema urgente. Anna vorrebbe continuare con il suo lavoro e magari fare carriera, malgrado l’ingegnere e la sua presenza che lei vive come una persecuzione, ma tutto sommato dare le dimissioni e gestire il negozio con sua mamma e sua sorella costituisce una via d’uscita mica male. La piccola eredità di Zia Giulia poi è stata la ciliegina sulla torta, a volte il lutto lascia liberi degli spazi che con gli affetti nemmeno ci immaginiamo.

Anna mi diceva che a casa bevevano tutti tantissimo latte, una specie di abitudine famigliare. Non so nemmeno se faccia bene alle persone adulte consumarne in quantità eccessive, indipendentemente dalle intolleranze che non sono così poco frequenti. Ma anche l’ingegnere ha una stranezza tutta sua. È appassionato di musica melodica e si diletta a strimpellare quelle tastiere elettroniche dotate di sistemi di accompagnamento programmato per stili che ti consentono di suonare basi musicali complete in tempo reale (con batteria, linee di basso, archi eccetera) e di cantarci sopra con quella sensazione volatile di completezza artificiale che certe sensibilità elementari come la sua confondono con l’estro. Anna ha una certa dimestichezza con quel genere di strumenti semiprofessionali perché suo papà si è divertito con passione per anni a intrattenere amici e parenti dopo i pranzi delle ricorrenze in una specie di karaoke famigliare. L’ingegnere così le ha chiesto una consulenza su un nuovo modello di pianola con l’arrangiatore automatico e Anna, che quella marca di tastiere la conosce molto bene, si è offerta malgrado il rapporto teso con il suo superiore di dare il suo parere all’acquisto.

Così il giorno prima dell’ultimo giorno di lavoro di Anna, che sarà probabilmente il penultimo della sua vita con l’ingegnere come suo diretto responsabile, si trova con lui dopo l’orario di ufficio al negozio di strumenti musicali dove Anna sta per confermare all’ingegnere che sì, quella pianola è un ottimo strumento in grado di rispondere alle sue velleità artistiche. L’ingegnere prima la prova suonando una hit di Madonna, ovviamente non la canta lui ma riproduce con un timbro di sax sintetico una strofa e il ritornello. Il negoziante e un paio di clienti si avvicinano ad ascoltare, e Anna ne approfitta per pensare se esiste al mondo un posto di lavoro, ma anche una città in cui vivere dove ci sia la possibilità di conoscere e frequentare persone meno semplici di così.

cogli l’attimo direttamente da casa tua

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Quando si è diffusa la notizia della scoperta non ho stentato a crederci nemmeno per un istante, non per vantarmi ma me n’ero già accorto da un pezzo che trascorrere le giornate di festa fuori di casa comporta una dilatazione del tempo mentre a starsene sul divano il sabato e la domenica al contrario accelera la scansione di ore, minuti e secondi. La dimostrazione della teoria che non sto qui a farvi, non sono mica uno scienziato io, conferma il desiderio di affrettarsi a proiettarsi all’esterno, che è un continuo mutamento, a ogni occasione, rispetto al godersi i propri ambienti fermi. Il processo dev’essere lo stesso della compressione del video digitale: le informazioni uguali ripetute vengono ridotte secondo operazioni matematiche (la stessa informazione per il numero di volte in cui viene visualizzata, giusto per banalizzare la questione e spero che i precisini dell’Internet non me ne vogliano), mentre a cambiare sempre visuale alla fine fai il pieno di mega e di frame differenti e quindi sembra davvero che ci siano più cose da vedere. In ambienti domestici le cose sono sempre le stesse, ed ecco perché sono un fermo sostenitore che non c’è come starsene sul divano per rilassarsi e chi se ne frega se il tempo scorre più in fretta. Guardi la libreria che hai davanti per qualche secondo e invece è già finito il pomeriggio. Se esci invece e sfrutti poi anche il senso della rotazione o della rivoluzione terrestre il risultato è ancora più sensazionale, c’è gente che facendo così non invecchia nemmeno. Noi casalinghi invece siamo autolesionisti consapevoli perché oltre a passare le vacanze negli ambienti quotidiani ci mettiamo pure a guardare fotografie che saprete meglio di me costituiscono l’elemento più statico presente in natura. Per fortuna, nel mio caso, io non possiedo molte foto antecedenti alla nascita di mia figlia, episodio che è coinciso con la prima macchinetta digitale donataci da un amico di famiglia. Prima lasciavo che fossero le persone al mio fianco a sbrigare la faccenda dei reportage dei viaggi e delle occasioni in cui si scattano fotografie, poi finiva che le persone si allontanavano dal mio fianco (o era il mio fianco ad allontanarsi da loro) e le foto rimanevano agli altri. Anzi, alle altre. Anzi, se qualche retaggio dei tempi che furono ha voglia di farmi avere qualche scatto digitalizzato dei momenti trascorsi insieme mi farebbe una cortesia, mi servirebbero per ricomporre l’idea che ho di quello che sono stato quindici, venti, trenta anni fa. La teoria della relatività del tempo tra stare fuori o rimanere a casa può anche trovare riscontro nell’arte di scrivere aneddoti dal futuro, che non sono ancora accaduti se vai in centro a farti un brunch domenicale, per dire, ma che invece sono uno sfuggevole presente se ti arrangi con quello che hai nel frigo e, tutto sommato, a casa tua ci stai da dio.

l’eterna lotta tra il bene e il meglio

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Guido parla delle sue fidanzate come se si trattasse di modelli enduro, d’altronde era già un motociclista prima di imparare il basso e di mettersi a strimpellare altri strumenti musicali. Dice che Patrizia, oltre ad avere un miglior assetto di Anna, gli garantisce prestazioni di ben altro livello. Anna è quella che l’ha mollato ma, prima di farlo, gli aveva più volte dimostrato di avere una visione piuttosto aperta della coppia. Non la biasimo, io con un appassionato di due ruote che mi fa provare quel genere di scomodità non mi ci metterei manco morto. Ma il tono dei commenti negli ambienti maschili è piuttosto in linea con quelli di Guido. Anna, con la sua vocina e il suo stile così poco appariscente, è sempre stata considerata una outsider nelle competizioni ormonali e fino ad un certo punto della loro storia per Guido ha costituito un motivo di vanto, un qualcosa da sfoggiare con orgoglio in tutte le occasioni della sua sfera pubblica. Di Patrizia, da quel punto di vista, nell’ambiente si dice che molto più dozzinale ma in effetti ha degli optional – sempre per dirla alla enduro – che non passano inosservati. Uno del giro l’ha vista a capodanno con quel vestito striminzito entrare in bagno, tirarlo su, abbassare gli slip e sedersi sulla tazza per un’operazione di routine il tutto con la porta aperta, e assicura che lo spettacolo è stato piuttosto appagante. Anna invece ha il fascino della ragazza fatale, quella che se ne fotte di tutto e di tutti, libera di spedire a quel paese Guido dopo l’ennesima recriminazione di gelosia e siamo sicuri che di Patrizia, anche se è una che quando passa ci sono maschi che si girano a scrutarne le forme, Guido non sarà mai geloso. Ma a Anna non sono mai piaciuti certi comportamenti da spaccone di Guido. Lei si trastulla con le tastiere elettroniche, e una volta Guido le ha nascosto nel drive dei floppy disk del suo synth un bel pezzettone di fumo, roba da rischiare di scatenare l’entusiasmo anche del meno zelante dei cani antidroga. Un’altra, e c’era pure l’articolo sul giornale, ha fatto un dispetto a un vigile urbano sottraendogli il casco di ordinanza lasciato sulla moto mentre l’agente stava multando l’organizzatore di non ricordo che festival per aver esagerato con il casino. Musica a tutto volume, gente per strada con bicchieri di vetro pieni di birra, i soliti schiamazzi e la solita gente che il giorno dopo deve alzarsi alle sei per andare al lavoro. Il casco Guido non se l’è nemmeno portato a casa, l’ha gettato di nascosto nel bidone della raccolta delle bottiglie ma quando poi è andato lì per riprenderselo il cimelio era già sparito e nessuno sa chi se l’è portato a casa.

chiamami se ne hai voglia

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La mattina dopo siamo tutti a osservare appena svegli con la vista annebbiata il dorso della mano per ricordarci dove abbiamo trascorso la sera precedente e basta a volte un simbolo, più che un nome, considerando che se certi posti ti timbrassero la loro ragione sociale arriverebbero all’avambraccio, a mettere in sequenza ogni tassello e ricostruire il passato recente della nostra vita. Ma è l’insolito scoppiettio delle bollicine della pancia che riporta alla realtà. Da qualche parte, in una tasca di quei jeans sgualciti o in qualche anfratto della giacca scamosciata abbandonata chissà dove c’è un biglietto con un numero di telefono, ma chi dice che gli piacerebbe essere chiamato se l’altro ne ha voglia (in questo caso occorre usare il femminile) non intende certo già al prematuro risveglio e solo dopo cinque ore di sonno. O forse sì. Io invece sto per fare così, non lascerei passare nemmeno un istante di più se fossimo in una di quelle commediole romantiche o un libro di quelli di questa generazione o, meglio, in una puntata di Friends, che più pop di così non si potrebbe. Cerco però di perdere qualche minuto ancora perché è troppo presto e ho paura di disturbare, penso così che tra vent’anni, quando in qualche modo sentiremo l’urgenza di raccontare questo genere di cose, ammesso che ci sia un pubblico desideroso di conoscerle, ci chiederemo che senso abbia riferirsi sempre a fatti accaduti almeno vent’anni prima e quanto potrà essere difficile parlare della contemporaneità che ci sarà in quel momento futuro. A chi interesserà sapere di quanto è stato dirompente un album come Badmotorfinger dei Soundgarden quando magari, per interessare a qualcuno, dovremo solo guardarci intorno e interpretare il presente. Una procedura pressoché impossibile: all’istante non è proprio il caso di segnarsi qualche appunto, fare una foto, registrare due parole per poi ricordarsele dopo. Ci vuole tutto il tempo affinché mattine come queste facciano parte della storia di tutti, ciascuno con il proprio vissuto, in un archivio ben organizzato. Ma ora è il momento di trovare il numero di telefono e di vedere cosa succederà, anche se è solo cinque minuti dopo rispetto a prima.

lungimiranza

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Considerando che oggi non sei venuta senza nemmeno avvisarmi un po’ ci godo che ti sei persa la scena. Ma stai tranquilla, il mio orgoglio dura nemmeno il tempo della prima fermata del treno locale che ci porta ogni giorno in città a frequentare lezioni per il nostro comune corso di studi accademici. E considerando che a metà anni ottanta della telefonia mobile non c’è nessun sentore nell’aria, posso anche capire la situazione. Hai le tue cose o ti sei svegliata con il mal di testa e chiamare qualcuno alle sei e tre quarti del mattino non sta bene. Non è così urgente. E ancora considerando che i posti su quel tipo di convogli sono da quattro, l’averti vicina o di fronte avrebbe impedito l’avverarsi della combinazione, il caso limite che solo qualche settimana fa abbiamo decretato come la sintesi del genere umano del nostro tempo, almeno di quella porzione che siamo abituati a frequentare. Quindi c’era l’assessore ai lavori pubblici che teneva aperta la copia del quotidiano locale con la sua foto in prima pagina, e chissà in quanti l’hanno notato oltre a me. Era seduto di fronte e con il giornale spalancato occupava anche buona parte dello spazio che il mio abbonamento mensile (per gli studenti del 1986 ha davvero un costo ridicolo, a posteriori di certe inefficienze del trasporto pubblico è facile trovare le radici) mi concede di diritto. Stava sicuramente leggendo la sua intervista strabordando con il gomito sul sedile al suo fianco, che era occupato da quello che chiamiamo Bela Lugosi, anche oggi tutto vestito in nero. Bela ha trascorso il fine settimana in quella cantina puzzolente dove c’è lo studio di registrazione e stamattina, per la prima volta, ha potuto affrontare il viaggio in città ascoltando con il walkmen la demo del suo gruppo che, al giro di boa del decennio successivo, avrà un effimero successo da una botta e via. Di fronte a Bela, quindi seduto accanto a me, quello che chiamiamo Rufus leggeva una copia del suo libro che, anche se pubblicato da un editore del posto, è pur sempre un libro stampato, rilegato e distribuito nelle librerie. Questo non toglie la stranezza di un autore che, dopo aver scritto e controllato chissà quante volte la sua opera, ha ancora la speranza di trovare passaggi in grado di emozionarlo. Tutto questo per dire ti sei persa l’umanità concentrata su se stessa che dev’essere la risposta a quell’autocommiserazione che ci facciamo ogni giorno e cioè che, secondo noi, a me e te non ci regala mai niente nessuno. Niente di più dell’ordinario. Ma forse perché non amiamo abbastanza noi stessi come fanno l’assessore, Bela il cantante e Rufus lo scrittore? Per questo poi vedrai che non ci sposeremo ma nemmeno ci concederemo un’effusione entry level, meglio portare verso altre polarità opposte i segni negativi con cui, a detta nostra, sono marchiate le etichette dei nostri vestiti di seconda mano.

l’amore prima dei tempi della friendzone

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Ho capito che era cambiato qualcosa quando il chitarrista del famoso gruppo che era sul palco ha dato una pennata sulle corde e da lì ho inteso che stavano per suonare l’unico pezzo non scalmanato del loro repertorio, quello che a mettercisi d’impegno potrebbe somigliare anche a una canzone a modo suo d’amore. Mi è venuto naturale afferrare il cellulare che tenevo spento nei tasconi dei pantaloni, accenderlo e comporre il tuo numero, tentare di indovinare quando avresti risposto dall’altro capo e rivolgere il microfono verso la musica, in modo che ti arrivasse chiaro il messaggio che poteva essere sintetizzato con un vorrei che fossi qui e anche se non ci sei c’è questa canzone che mi ricorda di te e altre smancerie varie. Una cosa che avevo visto fare ma con dispositivi meno entry level del mio, tenete conto che eravamo in piena era dei telefonini di prima generazione, quelli con l’antennina da sollevare per capirci e che a portarli in giro non sapevi dove metterli quasi quanto, anni prima, si tenevano al guinzaglio le autoradio. Tanto che poi, dopo il primo ritornello, per non spendere un botto ho interrotto la chiamata senza dire una parola, e il giorno dopo mi hai richiamato chiedendomi se fosse successo qualcosa di grave la sera prima, se avevo avuto qualche problema, considerando che avevi ricevuto una chiamata da me sul tardi ma non si capiva nulla, c’era un casino infernale. O forse era un bluff, avevi capito che canzone fosse ma, considerando la situazione che anni dopo si sarebbe chiamata di friendzone, era più conveniente fare la gnorri. Allora ricordo di averti raccontato che no, probabilmente era partita una chiamata, e che la serata era stata perfetta. Nemmeno un pezzo lento, nemmeno una canzone sdolcinata, solo ritmo ed esperienze forti e sudore. D’altronde mi conoscevi bene: alla fine dei concerti uscivo dalla folla sempre fradicio e difficilmente, comunque, mi avresti potuto abbracciare.

selezione all’ingresso

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Ruggero è stato molto carino a raccogliere il mio invito e, soprattutto, a resistere fino alla fine del concerto. Mi affretto subito a salutarlo appena scendo dal palco. Lui è seduto su uno di quei trespoli scomodi da bevitore assiduo al bancone e, mentre mi avvicino, mi fa l’inequivocabile gesto premendo il polpastrello del pollice poco sotto la fronte, in mezzo alle sopracciglia, che sta a significare che in giro c’è l’iraniana. Non ci siamo mai chiariti su questo fatto che sono le donne indiane principalmente a portare il bindi, ma l’importante tra amici è capirsi malgrado gli svarioni culturali di un certo lessico frutto della confidenza.

Esco fuori dal locale a cercarla e, come pensavo, la vedo lì a sorseggiare una consumazione dai colori tipicamente femminili fumando una sigaretta senza filtro e scambiando qualche parola con la fidanzata del mio amico che è così glabro da non credere e che, poco più in là, sta commiserando la sua cagna vecchissima che piscia senza pudore in mezzo alla gente. Riesco ad attirare in un modo palesemente interessato l’iraniana in uno spazio tutto per me e riprendo la conversazione da dove l’avevamo lasciata la settimana prima, quando prendeva amorevolmente in giro il mio compagno di sbronze che non si reggeva in piedi.

L’iraniana è all’ultimo anno di farmacia e guida un’Harley Davidson che costa un occhio della testa. Scopro che ha bisogno di contatti accademici di cui ho l’esclusiva, così ne approfitto per scriverle su un flyer di un evento scaduto abbandonato su un tavolino di plastica dozzinale il mio numero di telefono. Mi ringrazia ma poi vedo con la coda dell’occhio che lo accartoccia e lo getta via senza tanti complimenti così, senza nemmeno avvisarla, tanto di sicuro non si offende per la scortesia, decido di avviarmi a recuperare il furgone per caricare gli strumenti dal retro.

Un tizio brizzolato mi chiede l’ora ma gli confido che proprio prima di salire sul palco mi sono accorto che la batteria al litio dell’orologio ha tirato le cuoia. Il brizzolato non coglie la coincidenza ma si vede che non siamo in sintonia in fatto di umorismo, oppure ha davvero bisogno di sapere quell’informazione. Non sta particolarmente dritto con la schiena e la camicia fuori dai pantaloni rivela uno stomaco da bevitore e diverse rilassatezze che traboccano sopra la cintura. Penso però che malgrado il declino fisico abbia altre qualità perché l’iraniana lo prende sottobraccio e gli fa assaggiare il beverone ormai a metà.

La morale è che ognuno prende la qualità che gli è toccata in sorte e ne fa la cosa più importante del mondo, in questo siamo unici in natura. Voglio dire, non è che mentre un branco di animali cacciatori sta fuori a procacciarsi il cibo ci sono quelli un po’ sfigati nelle retrovie o che curano la logistica del magazzino o che cercano in Internet la ricetta migliore per cucinare la preda che i cacciatori porteranno a casa o che ti intrattengono con la musica di sottofondo mentre sei a cena. La carne cruda si mangia sul posto e quelli che non partecipano alla battuta di caccia – perché sono malati, o vecchi, o hanno qualche problema fisico o anche solo lo spleen – alla fine muoiono di fame. Non sono un etologo ma credo che più o meno funzioni così. Noi ci siamo inventati questa cosa del lavoro intellettuale che, detto fra noi, non serve a un cazzo e ti fa ricorrere a esemplari alfa dotati di trapano e pennellesse ogni volta che devi fare qualcosa in casa che non sei capace, pagandoli peraltro fior di quattrini. Forse è per questo che ci sono razze più prestanti, in cui la dura legge della natura ha selezionato solo i più forti per la continuazione della specie, e altre un po’ più hipster.