il sabato è un giorno tutto sottosopra

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Da quanto papà non c’è più, mamma non è più a suo agio con i fine-settimana. Se le dici che è bello perché è sabato ci tiene a farti sapere che no, che il sabato è una giornata inconcludente e scombussolata per trascorrere la quale non ha mai programmi. Tenete conto che i suoi punti di riferimento sono far la spesa nei negozi sotto casa la mattina e, quando capita, sbrigare qualche commissione: mamma è in pensione dal 97. Il pomeriggio lo trascorre in casa, tra qualche faccenda domestica, un libro, la settimana enigmistica, un po’ di televisione, una telefonata. Ma la spesa la fa anche al sabato, alcuni negozi oramai aprono anche di domenica, le attività pomeridiane sono le stesse sia nei giorni festivi che in quelli feriali, ne risulta che il fine-settimana altro non è che un fattore mentale. Ci sono quelli che patiscono il weekend perché, per esempio fuori dal lavoro, non si sentono a proprio agio nella loro vita privata o semplicemente non accettano la solitudine. Non è il caso di mia mamma, per la quale apparentemente non c’è discontinuità temporale nella piccola distanza. Ci sono le stagioni differenti. Ci sono (purtroppo) gli anni. Ma il suo ieri, l’oggi e il domani sono intercambiabili se non per una visita medica, una commissione, un appuntamento dal dentista. Non ho idea se sia la vedovanza la causa di questo appiattimento. Nel dubbio non so mai se condividere con lei certi episodi che mi vengono in mente su papà anche perché ho l’impressione che eccezion fatta per una library ben consolidata di ricordi sia refrattaria ad apportare modifiche all’idea che le è rimasta di suo marito. Mio papà, per dire, mi aveva accompagnato in autobus fino all’abitazione del mio insegnante di pianoforte qualche giorno prima della prima lezione. Si tratta di un episodio che mi è tornato in mente qualche giorno fa. Glielo avevo chiesto io perché non avevo mai preso un autobus da solo, anche se avevo già 12 anni, e volevo che mi insegnasse la strada a partire dalla fermata giusta fino al suo portone. Ho preso poi lezioni di piano per molti anni e per molti anni ho fatto quel percorso da solo. Una volta, ero un po’ più grande, non volevo suonare il citofono per salire dal maestro di piano finché non fossero scomparsi i segni della delusione dalla mia faccia di adolescente. Una ragazza che mi piaceva tantissimo si era innamorata di un mio amico, che non aveva esitato a ricambiarla. A così tanto tempo di distanza ancora oggi penso che non ci sia nulla di più umiliante, per un adolescente. Non so dirvi se poi sono salito a lezione di piano in ritardo o no e che faccia mi era rimasta. Ricordo solo che il sabato successivo l’avevo trascorso con la stessa voglia di cancellare un giorno inconcludente con cui mia mamma, senza che le chieda nulla, oggi mi dice che il sabato è un giorno tutto sottosopra.

sto bene solo se dopo una strofa di otto battute subentra il ritornello

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Se volessi prendere questo argomento alla lontana vi ricorderei che la ciclicità è un aspetto fondamentale della nostra natura, probabilmente – ma non sono io il primo a dirlo – per via del giorno e la notte, poi le stagioni e gli anni e persino la vita e la morte ma che è già un ciclo di cui faremmo volentieri a meno. Possiamo dire però che la reiterazione è ciò che ci dà più sicurezza di ogni altra cosa. Siamo qui a rimandare a domani, al mese prossimo, all’estate del 2016 e così via proprio perché non c’è nulla di così certo come il sole che sorge eccetera eccetera. (Pausa tocca-ferro).

Al contrario le cose che iniziano e cambiano in continuazione sono quelle che ci fanno sentire dei fighi assoluti e anticonformisti ma alla lunga perché fare delle cose belle una volta sola e poi non ripeterle più per fare altre cose belle il giorno dopo? Mi seguite? Si tratta di un corso che rende irrequieti perché non sai mai cosa c’è dopo. Questa è filosofia? No, solo che pensavo che le canzonette ma anche certi canti tribali e i mantra religiosi vanno avanti a iosa ripetendo pattern fino a tirarci scemi ma non perché gli autori ci credono scemi e per farci capire un concetto pensano di ripetercelo a iosa. No, non funziona così. Un manciata regolare di battute, con la relativa sequenza di accordi, ritmo, e tutti gli orpelli sonori che volete, inizia e proprio nel suo svolgersi cattura la nostra attenzione perché affine al nostro gusto, quindi si avvia alla chiusura e già noi cambiamo umore perché temiamo che quella bellezza possa finire e invece no.

L’astuzia del compositore sta proprio nel ripeterla in un numero di volte sufficiente a soddisfare la voglia di risentirla ma non in eccesso in modo da non rompere i maroni. Quindi è giusto interrompere a un certo punto una parte musicale che piace così fai venire all’ascoltatore la dipendenza e la voglia di stare lì fermo ad aspettare che inizi. Un processo proustiano, forse, ma cercate di non sopravvalutarmi.

Pensavo a questo concetto perché c’è tutto un filone di musica che viene definito colta. La musica classica ed il jazz, per esempio. Vi risulta, corretto? Bene, perché è colta? Perché per ascoltarla occorre mettere un filtro alla pancia, che è quella che borbotta se ha fame di ritornello dopo otto strofe, e agire con la testa, con la mente, con l’intelletto ed essere pronti a quella cascata di divenire che dalla prima nota in poi è tutto un diversificarsi, un separarsi, un variare, un improvvisare con frasi uniche che non si ripeteranno mai più. Questo ci trasmette insicurezza e solo la razionalità che ci può imporre la convenzione culturale o il non aver paura del vuoto che ci può essere dopo una curva di una strada che non conosciamo, ci permette di arrivare fino alla fine. Quindi la differenza con il pop sta tutta qui? All’inizio ero consapevole di dove volessi arrivare, poi tutto questo cambiare discorso boh, non ricordo più che cosa volevo dire.

non riesco a trovare una sola cosa fuori posto, non oggi

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La maestra Antonella ci ha chiesto in prestito i quaderni di seconda di nostra figlia, ha smarrito dei file con schede e lezioni e con il supporto del materiale didattico di un ex alunno può ricostruire il programma per il nuovo ciclo di seconda appena iniziato. Così ho recuperato tutto in cantina, e già sfogliare in ascensore qualche pagina a caso di quel resoconto dell’infanzia che mi riguarda più da vicino è stato emozionante. Ma la giornata – è successo proprio ieri – ha preso una svolta inaspettata perché quando ho portato i quaderni alla maestra Antonella in cambio mi ha restituito la chiavetta USB che le avevo dato alla fine della quinta, quindi a giugno dell’anno scorso, per caricarmi tutte le foto che lei e le sue colleghe della classe hanno fatto lungo un quinquennio, dall’accoglienza del primo giorno di prima all’ultima gita alla fine della primaria a Verona, passando per attività varie in giardino, camminate in montagna, spettacoli di fine anno e varie amenità didattiche e ludiche.

Vi risparmio quanto la visione di questi giga di istanti in cui è presente anche mia figlia e dei quali non sono stato testimone diretto abbia influito sul mio stato d’animo. Sono uscito in pausa pranzo e c’era quel clima che è il mio preferito. Avete presente quando c’è il sole caldo e l’aria già freschina. Un tempo settembre-ottobre-novembre erano una terna di mesi in cui davo il massimo su tutti i fronti in cui ero impegnato (o disimpegnato). Ieri invece ero solo in cerca del pasto più adatto al momento ma dentro di me succedevano cose straordinarie, ed ero a stomaco vuoto quindi nulla di intestinale. Cose molto più profonde, alla luce di quello che avevo visto in quelle foto.

Ecco, vi confesso che spero che quando sarò vecchio, molto più vecchio di ora, la salute mi consenta più che di vivere di ricordare nei dettagli la vita che ho vissuto e tutte le esperienze che ho passato. Con questo mi riferisco a quando ti rendi conto di non ricordarti e che ti sfuggono dei tasselli e questo ti manda in bestia, perché chiaro che se hai la sfiga di avere uno di quei mali per cui nemmeno sei consapevole di non ricordare il problema non sussiste.

Anzi, spero che i ricordi restino tali anche dopo la morte, se ci sarà tanto tempo da trascorrere che almeno lo si possa fare con i quaderni della scuola elementare e la serie di foto fatte dalla maestra Antonella. Ma anche cose che riguardano me in prima persona come le lettere delle fidanzate di gioventù con gli errori di ortografia, il pranzo di nozze con il numero sbagliato di posti a sedere rispetto agli invitati, il concerto con lo spolverino giallo. O me come padre, come la prima partita di volley e la paura di giocare con compagne di squadra troppo forti, a fianco di me come figlio, io che metto a mio papà la mano sulla spalla quando lui è venuto a trovarmi in ospedale per le tonsille ma anche la notte che ho trascorso con lui nella sua stanza d’ospedale quando stava per morire.

Ce ne sono tantissimi di ricordi così. Io e mia figlia che ci guardiamo nel lettone e lei che mi accarezza dicendo che gli faccio tanta tenerezza o il gatto spaventato che non vuole muoversi da dietro il bidet perché l’ho punito severamente, tutte cose queste successe giovedì scorso, tra l’altro. Insomma ce ne sono una sfilza di momenti di questo tipo e vorrei avere la possibilità di ripensarci sempre e a ripetizione, uno via l’altro, e arrivati alla fine ricominciare dall’inizio e riviverli tutti, magari scrivendoli, magari raccontandoli, o magari mantenendo il segreto di non dirli a nessuno. Ecco, questo è l’obiettivo che mi sono posto e ieri ero così pieno di farfalle nella pancia sotto quel sole con l’aria fresca e ascoltavo persino la musica in cuffia, si sono susseguite infatti due canzoni random così perfette per quel momento che poi ho spento e sono tornato di corsa in ufficio, sempre meglio non approfittare troppo della felicità estemporanea.

case da sogno, ricordi da incubo

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Se grido di notte non spaventatevi, sicuramente ho sognato la mia vecchia casa di campagna. La mia vecchia casa di campagna apparentemente è una cascina costruita dal mio trisnonno sulle pendici di un monte a un km dal centro del paese, a ridosso di boschi piuttosto brulli e sopra il cimitero, ma questo aspetto non accentua di un grado l’inesistente registro horror di questa innocua vicenda. La casa è isolata, la cascina successiva salendo la montagna è a circa un km più in alto ma da quarantanni è disabitata e oggi è solo un rudere. Nella la mia vecchia casa di campagna ho trascorso almeno una dozzina di estati di fila fino ai quindici anni, e quando dico estati intendo dal primo giorno di vacanza dopo la fine dell’anno scolastico a giugno fino all’ultimo giorno prima della ripresa a settembre, anzi quando frequentavo la scuola elementare si tirava fino al primo ottobre. Senza contare poi numerosi fine-settimana durante l’anno e poi tutti i brevi soggiorni negli anni successivi fino alla fine che quella casa ha fatto (grazie a quella sagoma di mio cognato che l’ha ipotecata per i suoi affari, fate quindi ciao all’agenzia delle entrate). Nella mia vecchia casa di campagna ho passato tantissimo tempo con mia nonna e le mie sorelle da piccolo, quindi tutto sommato giorni felici e spensierati come sono le vacanze estive fino alla scuola superiore. Quello che non capisco è quindi il motivo per cui la maggior parte degli incubi che mi fanno urlare di notte sono ambientati lassù. Non li saprei raccontare, rammento solo qualche ambiente che mi angoscia fino al momento dello spavento, eppure a fasi alterne, nei periodi di maggior stress, il brutto sogno nella mia vecchia casa di campagna torna a trovarmi. Di ricorrente non c’è nulla, non ci sono spettri o mostri, disgrazie o calamità naturali, agenti soprannaturali o morti viventi. Solo stanze e muri di pietra, luoghi e ambienti distorti dal sonno, cose che so che stanno per succedere ma di cui non riesco mai a vedere la scena clou: l’urlo mi fa balzare sul letto o mia moglie, avvertendo l’escalation onirico-emotiva in corso fatta di grugniti, versi e sospiri, riesce a prendermi in tempo e a svegliarmi. Probabilmente è l’assenza di persone familiari nel sogno che mi angoscia, gli spazi abbandonati che diventano i veri protagonisti con le cose che invecchiano con il tempo anche se, senza vita, in realtà nella loro immutabilità dovrebbero costituire un punto di riferimento stabile per i nostri ricordi e che, distorte dalla paura, trasmettono l’opposto della sicurezza.

i parenti del defunto ringraziano

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Al funerale del papà di Ale c’era qualcosa che non mi tornava ma che né durante la cerimonia né nei mesi successivi in cui ho avuto tempo per rifletterci sono riuscito a mettere a fuoco. La messa e la processione verso il cimitero sono funzioni standard, in questi casi, e vuoi l’emozione o l’eccezionalità dell’evento non è che uno riesce a trovare l’occasione per soffermarsi sui dettagli. I gradi di parentela direttamente proporzionali alla posizione dei banchi in chiesa, questo è un classico del mettersi in mostra ma ci sono passato anch’io recentemente ed è giusto così. Le corone di fiori, anche quelle. Insomma, tutto apparentemente sembrava filare liscio, con la vedova e Ale e le sue due sorelle con gli occhi gonfi. Anche il papà di Ale è morto a più di ottant’anni e di Alzheimer, tutti sono arrivati preparati all’appuntamento con il lutto. Ieri poi ho capito. L’illuminazione. A un mio amico è mancato il nonno, ha condiviso la sua esperienza su Facebook e ha raccolto, come è facile immaginare, un vasto consenso e la solidarietà della sua rete di contatti. Ho pensato che se ogni intenzione divenisse atto (qui c’entra Aristotele, a grandi linee) secondo l’esempio che vi ho citato i funerali diventerebbero eventi gremiti di amici e conoscenti o anche solo persone con cui si hanno rapporti online. Ecco, invece al funerale del papà di Ale non c’era nemmeno un amico di Ale. C’ero io ma è stato un caso, mi trovavo nella mia città natale e mi ha fatto piacere offrirgli il mio cordoglio attraverso la mia presenza, onestamente non so se mi sarei sparato duecento chilometri ma forse sì, almeno in questo momento credo che lo avrei fatto ugualmente ma perché voglio fare una bella figura con voi scrivendo questo post. Per il resto, ripeto, non c’era nessun altro. Erano presenti pure – pensate un po’ – due ex compagni di classe della sorella più grande, irriconoscibili perché ormai vicini ai sessanta, con i capelli grigi e radi ma comunque lunghi. Entrambi imbolsiti e loro stessi stupiti di essere vicini ancora a un essere umano dopo così tanto tempo. Ale invece, molto più giovane e molto attivo sui social network, era solo come un cane. Eppure aveva pubblicato una bella foto di suo papà da giovane proprio per rimarcare la somiglianza fisica e il legame che li contraddistingueva, ne era seguita una valanga di like e di abbracci virtuali ma, come sembra, senza nessuna corrispondenza al lato pratico. Non so se qualcuno abbia contattato Ale privatamente per sottoporgli le proprie condoglianze e per avere dettagli sulla cerimonia funebre. Io, ripeto, ero a conoscenza del giorno e dell’ora perché ero sul posto e se non ricordo male ho letto pure il manifesto funebre per strada. Ne danno il triste annuncio la moglie Vera, i figli Elisabetta, Magda e Alessio, c’era scritto. Alessio è Ale, appunto, il mio amico.

Il vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui s’accorgono solo poche anime sensibili

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Ieri lungo un’elegante strada perpendicolare a viale Molise, che se non siete di Milano (non è un difetto, nemmeno io sono nato qui) è uno degli anelli concentrici a elevato scorrimento intorno al centro città, ho sentito forte e chiaro il profumo dei funghi. Non funghi cotti, come li chiamiamo noi i funghi a funghetto o fritti o anche scottati sulla stufa di ghisa come quella che avevo in campagna. Nemmeno i funghi sott’olio che preparava mia nonna con interminabili giorni di lavorazione, le superfici dei mobili disponibili sgomberate dai suppellettili e sommerse di funghi bolliti e il forte odore dell’aceto. Per non parlare dei funghi da supermercato, quella roba insulsa che la usi per cucinare il sugo ma che non sa di nulla e a mangiarla non dà nessuna soddisfazione. Intendo invece il profumo dei funghi con il gambo piantato saldamente nel sottobosco e la cappella che si mimetizza con le foglie che l’autunno non risparmia a nessun albero, sempreverdi esclusi. Ho attraversato la strada e appena salito sul marciapiede opposto mi è subito arrivato alle narici l’odore inconfondibile dei funghi. Non potevo fermarmi perché i treni non aspettano quelli che si distraggono a cercare i funghi in città, e, a proposito, mi sono sentito subito un po’ come Marcovaldo. Ho dato solo un’occhiata veloce in giro ma di aiuole o strisce di terra non asfaltate dove trovare i funghi urbani non ne ho viste nemmeno mezza. Illusione olfattiva? Reminiscenza proustiana? Oppure ho forse equivocato un odore corporeo di qualche passante dalla discutibile igiene personale? Chissà. La stagione però dovrebbe essere quella giusta, così ho deciso che oggi proverò a cercare con più calma. Vi do appuntamento a dopo la lavanda gastrica.

cattive notizie

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Il buon Pierpaolo conosce a menadito cose come “Il libro tibetano dei morti” ma secondo me la sua tesi secondo cui la morte ha la voce di un parente di secondo o terzo grado trapassato se l’è inventata di sana pianta e, detto tra noi, non ho nessuna voglia di controllare, ho un sacco di letture più interessanti in scaletta da qui alla fine dei miei giorni. Nel suo caso si tratta comunque del cugino Nasta, diminutivo di Anastasio e in realtà cugino di suo padre quindi nei parametri di quella strampalata regola che non sta né in cielo né in terra. Nasta era cardiopatico perché abbondantemente sovrappeso e non ricordo se al secondo o terzo infarto, nemmeno troppo vecchio, ha lasciato moglie, figlia, nipotini e villa con tavernetta con forno a legna da cui estraeva certe teglie di farinata che Pierpaolo se ne ricorda ancora. Nasta prima della pensione gestiva un ristorante rivierasco specializzato in pesce dove la famiglia di Pierpaolo non andava molto volentieri, non tanto perché Nasta non faceva prezzi di favore ai parenti ma perché siccome era sempre pieno li faceva accomodare in tavolini di risulta dove un cliente normale non si sarebbe mai seduto. Pierpaolo così stava dicendo a qualcuno che basta, era stufo di ferie faticose e che l’anno prossimo sarebbe andato in un villaggio ma poi, in macchina, aveva sentito Nasta chiamarlo per nome con il suo timbro di voce così particolare, come quando portava a tavola le teglie di farinata e chiedeva di versagli un bicchiere di lumassina. Pierpaolo ha pensato subito a una vendetta. Una volta era in casa da solo con la sua nuova fidanzata quando Nasta e sua moglie erano passati per fare un saluto, così Pierpaolo aveva fatto un gesto alla sua tipa come a dire che palle questi che ci hanno interrotto mentre facevamo un po’ di petting. Aveva fatto il gesto di nascosto ma poi si era accorto che Nasta lo stava guardando. Qualcuno però gli dica che i parenti di secondo o terzo grado non se la prendono se qualcuno non ha tanto piacere di accoglierli in casa e sono pure convinto che nessuno gli assegna il compito di essere messaggeri di brutte notizie. Certe cose le dicono gli sconosciuti, altrimenti la morte sarebbe meno difficile da accettare.

la vita nelle copertine dei libri

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Se avete abituato i vostri pargoli a leggere libri sin dalla tenera età avrete senz’altro osservato come l’editoria per ragazzi cambi e segua la loro crescita cercando di soddisfarne man mano il gusto, per ovvi scopi di marketing ma non è un aspetto che ci offende più di tanto, a noi puristi della letteratura. Anzi, devo ammettere che le pubblicazioni per le età dai zero a sedici anni tutto sommato sono le più curate, da un mero punto di vista estetico. Motivato come tutti voi a esercitare il diritto di selezione all’ingresso, tuttavia non ho controllato tutto quanto mia figlia ha chiesto di leggere e anzi, negli ultimi anni ho incautamente abbassato la guardia sui contenuti, consentendole maggiore autonomia sulla scelta dei titoli.

Ma, ancora oggi, quando entro in una libreria o mi reco in biblioteca provo un po’ di invidia per la cura con cui si attira l’attenzione dei ragazzi mentre, a noi adulti e vaccinati, si riserva un trattamento standard basato – giustamente – su autori, titoli, copertina e fascetta con endorsement più o meno altisonante per indurci alla scelta. Il punto è proprio questo: la capacità di attrattiva dei libri è inversamente proporzionale all’età a cui sono rivolti, non sembra anche a voi? Questa parabola la possiamo osservare nelle nostre case, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno. I nostri figli crescono e le letture si fanno sempre meno colorate e illustrate, questo perché ci saranno studi che provano che più si diventa grandi e più si amano le righe fitte e le edizioni tradizionali, anche perché sarebbe impensabile impaginare un qualsiasi romanzo come un testo qualunque per la pre-adolescenza a meno che non sia pensato in fase di stesura proprio così. Ma ve lo immaginate un Jonathan Franzen che farcisce le sue Correzioni con illustrazioni, iniziali miniate, caratteri a fumetti?

Ecco: nel giro di poco tempo mia figlia ha compiuto proprio questo giro di boa. Prima ha portato a casa dalla biblioteca della scuola qualche testo per le vacanze che, impilato di costa sullo scaffale, si confonde tranquillamente con la narrativa che mia moglie ed io abbiamo scelto da portare in ferie. Stessa altezza, stesso spessore, stessi colori. Dove sono finiti quegli album alti e così pieni di fascino che veniva voglia anche a noi genitori di immergerci nelle storie in essi contenuti? Sembra che tutto, in questa società, sia volutamente indotto a convergere verso un’estetica e un’etica seriosa perché, probabilmente, al netto di tutte le stupidaggini della fanciullezza, nella vita c’è ben poco da scherzare. Oggi poi ho ricevuto dal servizio abbonamenti della Mondadori un’offerta per confermare l’iscrizione a Focus Junior, rivista che mia figlia legge da qualche anno. Mi sono trattenuto dall’acquisto dell’abbonamento per il 2016 perché ho pensato che, sull’onda di tutti i cambiamenti a cui stiamo assistendo, era meglio chiedere prima le sue intenzioni. Provate a indovinare qual è stata la risposta. Un altro pezzo di storia che se ne va, un nuovo capitolo che inizia, nuovi interessi che si fanno spazio nel carattere di una persona che cambia di giorno in giorno.

l’odore degli arrivi

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Il compitino che vi affido da svolgere lungo queste vacanze estive è di segnarvi in qualche modo l’odore degli arrivi che è unico e irripetibile perché si lega a un momento e a un luogo e che, se debitamente fermato, fotografato, descritto o registrato, vi può dare grandi soddisfazioni richiamandolo per l’inverno a venire. Ma cosa si intende con l’odore degli arrivi? Si tratta di sensazioni olfattive principalmente di due tipi. State per partire in auto, aereo, treno o nave, corretto? Appena scendete, sbarcate, aprite la portiera o abbassate il finestrino a destinazione dovrebbe investirvi un profumo non necessariamente gradevole ma di certo di rottura con quello che vi ha seguito fin lì. All’improvviso nell’aria che vi circonda più o meno viziata dal viaggio irrompe la massa gassosa di un altro posto ed è quello il primo vero cambiamento che vi fa davvero sentire liberi da ciò da cui vi siete allontanati, anche solo per un periodo circoscritto. Ora chiudete gli occhi e sentite qui: questi sono l’eucalipto e la liquirizia che mi avvolgono quando metto piede in Sardegna dopo una notte in nave in agosto, ed è una sensazione che ogni anno mi sorprende. Questo è il mio odore dell’arrivo preferito, così forse è più chiaro quello che intendo e sono certo che ciascuno di voi ha il proprio. L’umidità di una casa tenuta chiusa per mesi. Il cibo sui treni della metropolitana di una grande città del nord europa. La lavanda della Provenza.

Ma c’è una seconda categoria di odori dell’arrivo e sono quelli che percepisce chi resta quando qualcuno ritorna. Ricordo amici riabbracciati dopo settimane in topaie da due soldi – le uniche che ci si poteva permettere da ragazzi – con i vestiti puzzolenti che non vi sto a dire ma che, tutto sommato, era un motivo forte, anzi, fortissimo per ricominciare insieme quello che si era messo in stand-by prima della loro partenza. C’è infine l’odore standard dell’arrivo che si avverte quando, in aeroporto, si spalancano le porte scorrevoli e inizia la fiumana di persone tra le quali ci sono quelle che aspetti. Tutti si affrettano a gettare le braccia al collo di qualcuno appena sbarcato che si precipita di corsa con il bagaglio a rotelle, e mentre tiri a indovinare se il prossimo destinatario di quel gesto sei tu, è bello godersi il profumo delle salviettine che si trovano nella reticella sullo schienale del sedile davanti, insieme a una copia di quelle pubblicazioni inutili che nessuno legge mai. L’odore in massa delle salviettine nell’area degli arrivi di un qualsiasi terminale è un messaggio che arriva da lontano, ha volato per migliaia di chilometri e finalmente ha rimesso i piedi per terra, e se sei fortunato a volte si accompagna a qualcuno che ti promette di non partire più.

le dieci cose che più frequentemente vengono abbandonate in corso d’opera

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Non credo ci sia nulla di male a identificare nell’incostanza il principale nemico della continuazione della specie e, su scala ridotta, del proprio equilibrio soprattutto se avete alle spalle una moltitudine di cose lasciate a metà o anche solo abbozzate e mai avviate. E non è certo la questione della solita modalità con la lista in ordine di importanza che sull’Internet va per la maggiore. Posso proporvi una sequenza cronologica di interruzioni a partire dall’infanzia che vede raccolta di francobolli, basket, liceo scientifico, pianoforte classico, seconda laurea in giornalismo, pianoforte jazz, carriera da musicista, seconda laurea in storia contemporanea, musicoterapia, il tutto solo senza tirare in ballo le micro-rinunce volontarie quotidiane.

C’è un periodo della vita in cui ci crucciamo di aver gettato la spugna con frequenze record, altre, come quella che sto attraversando, in cui il rammarico è a singhiozzo e solo nei momenti di stenti professionali, quando si guarda in faccia il proprio svilente lavoro quotidiano e si pronuncia sempre più spesso la mattina, avviando il sistema operativo, la fatidica frase “avessi studiato”. Sarà per questo motivo che le cose che invece mi causano meno fatica le pratico con una determinazione quasi maniacale, compulsiva e ossessiva. Un po’ perché appartengo al tanto vituperato genere maschile, categoria nei confronti della quale la disincantata rilassatezza con cui le nostre consorti valutano la perseveranza con cui affrontiamo certe nostre passioni non è certo il metro più adatto ad esprimere un giudizio obiettivo. A partire dalla corsa con spirito ludico-dilettantistico, come si scrive sui certificati medici, e se correte anche voi sapete come ci si sente a dover rinunciare a un’uscita programmata per qualunque motivo forzato (siamo sempre nell’ambito degli hobby che slittano automaticamente in secondo piano ogni volta che una questione famigliare o professionale – sempre di priorità maggiore – subentra). Ma non è qui che volevo arrivare.

Non vi sorprenderà sapere che ieri l’altro, il 28 luglio, questo blog ha compiuto cinque anni, il che vuol dire che a parte il primissimo periodo di assestamento, da cinque anni ogni giorno mi faccio in quattro per pubblicare uno stramaledetto qualcosa. Ad oggi questi aneddoti dal futuro sono la cosa di più lunga durata in cui abbia mai perseverato sin dai tempi del pannolino. Mi piace scrivere qualcosa quotidianamente perché mi piace e basta, perché lo considero un impegno e mi viene sempre in mente qualcosa da scrivere, perché mi piace, perché ho conosciuto tante persone che sembrano apprezzare queste cose – magari non tutti i giorni, posso capirlo – e poi perché mi piace. Cinque anni, un articolo al giorno senza contare gli aneddoti dal futuro degli altri, fate un po’ voi il calcolo. Cinque anni. Una vita. Perché, poi, boh.