divertimento in senso traslato

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Il direttore dei giochi delle giostre, con la sua voce nasale, esorta i marmocchi a spingere nella feritoia delle automobiline da scontro la moneta di plastica in loro possesso per attivare il mini-veicolo. Giù il gettone, dice. Giù il gettone. Dalle casse sovradimensionate alla situazione parte “Girls just wanna have fun” a un volume vergognoso perché c’è pieno di bambini e i bassi così pompati, che in natura non si trovano da nessuna parte, ai bambini fanno male, finisce che cresceranno audiolesi o nel migliore dei casi con l’acufene a cinquant’anni. Io i bambini li vorrei fare proprio in quell’istante – anche se prematuramente – con Cristina che è la ragazza che tengo per mano. Cristina è un modello di classe A++ detto con il metro con cui trent’anni più tardi si sceglieranno gli elettrodomestici, ma che nel 1983 significa tipa con fascino da vendere. Cristina è in vacanza al mare dal nonno che, per pura combinazione, è un amico di mio papà. Vive in una casa di proprietà a ridosso di una antica fortezza, e da una serie di cunicoli dal suo sottoscala si accede a una cella all’interno dei bastioni che lui, in via del tutto abusiva, usa come cantina. Sarà anche per questo contatto che dopo una specie di gara delle affinità elettive, Cristina ha detto a tutti i ragazzi della compagnia, la stessa che frequentiamo entrambi, che toccava a me e sapete com’è che a quell’età vanno le cose. La notizia si diffonde, la cosa giunge al diretto interessato, il diretto interessato si fa avanti e il gioco è fatto. Io e Cristina, nemmeno trent’anni in due, avanziamo di sera tra le attrazioni di una versione semplificata di un luna park di provincia, vestiti come in un video degli Human League ma con le espadrillas a strisce blu perché siamo in pieno luglio. La hit di Cindy Lauper non passa inosservata a Cristina, accenna un passo di disco music è mi dice che è vero, le ragazze in fondo vogliono solo divertirsi. Io l’inglese lo capisco abbastanza bene, ho preso anche un dieci in un compito in classe, e quello che mi resta di quella traduzione simultanea è che Cristina, con me, sta passando una serata indimenticabile. Ci sediamo su una panchina e ci baciamo per la prima volta, e mentre ci baciamo penso che sarà così per sempre. Ma il senso della canzone era molto distante dalla mia interpretazione, questo l’ho capito qualche mese dopo, quando in una trasmissione televisiva dedicata proprio alla musica più in voga passano il video di “Girls just wanna have fun” con le parole in sovrimpressione. Ho intrecciato quella intuizione tardiva con un episodio successo qualche sera dopo il bacio alle giostre, quando mi avevano riferito di aver visto Cristina ballare un lento appesa a uno che non ero io, allo spazio live della Festa dell’Unità. La sua idea di divertimento era molto diversa dalla mia ma subito non avevo collegato le due cose.

il ritorno

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Controllo l’ora, sempre quella. Qualche minuto prima programmi e finestre sul desktop iniziano a chiudersi con l’effetto delle luci che si spengono progressivamente in un locale ampio ed esteso, in cui file di neon sul soffitto sono collegate a interruttori diversi e l’effetto è progressivo. Arrestare il sistema è una cosa che mi è sempre piaciuta perché, avulso da Windows, è un modo di dire ribelle e anarchico. Arrestare il sistema potrebbe essere il sogno di adolescenti incappucciati con felpe e zainetto nero pronti a prendere a spranghe ottusi bancomat rei di dare soldi solo a chi ce li ha. Il controllo più importante però è sugli effetti personali. Il portafoglio che è la cosa più importante. Lo smartphone che è la cosa più importante. Le chiavi perché sono la cosa più importante. Sistemato ciascun elemento nel rispettivo spazio dedicato al suo contenimento, meglio fare un secondo check. Per esempio mi ci vorrebbe un paio d’occhiali per trovare gli occhiali da videoterminale (che termine d’antan, vero?) che si mimetizzano con la scrivania. Gli occhiali da videoterminale vanno nell’apposito box che sistemo nella tasca esterna dello zaino, insieme al libro. Le chiavi nella tasca destra della giacca. Lo smartphone in quella sinistra, con gli auricolari che escono e s’infilano nelle orecchie. Il portafoglio a fare il bozzo nella tasca anteriore dei pantaloni. Solo a quel punto la via è libera, e ammetto che invecchiando anche abbandonare l’ufficio a se stesso mi genera quei tre quattro minuti di pensieri malinconici. L’aziendalismo ormai è un fattore anagrafico: con il turn-over causato dalla precarietà e dalla dinamicità imposta ai più giovani, affezionarsi al proprio ambiente lavorativo è pressoché impossibile. Fuori c’è il buio e c’è la nebbia, ci sono le insegne luminose, i fari delle auto che passano e il fumo che esce dal naso di chi cammina con la lena che si richiede quando c’è un tram o la metropolitana da non perdere. In fila alla fermata del passante ferroviario le solite facce. Seduto nella carrozza ancora visi famigliari, la routine è un fattore comune, è il loop grazie al quale sopravviviamo in un sistema lineare che ha un inizio e una fine. Girando su noi stessi ci sembra di rallentare, finché si riesce. O almeno ci illudiamo. Qualche pagina di libro e poi l’oblio, il sonno, la testa che cade, le mani che cedono, il libro che cade sulle ginocchia, gli altri passeggeri che non ridono nemmeno più delle gag involontarie di chi trasforma i mezzi pubblici in dormitori provvisori. Quando il miracolo si avvera – addormentarsi da seduti non è una qualità per tutti – c’è sempre un orologio geolocalizzatore che incrocia la fermata del convoglio con l’ora esatta e mi fa saltare su. Sveglio, ritrovo le voci che mi avevano lasciato prima dell’abbiocco e che con molta probabilità non hanno mai taciuto. Tutti parlano, e il dialogo con altri presenti non è nemmeno il peggiore dei mali. Ancora musica per coprire la distanza tra la stazione e casa ma ormai i giochi sono fatti. Il ritorno si compie con l’ultima mandata della chiave nella serratura, la luce che irrompe nell’ingresso che coincide con il soggiorno che coincide con la cucina a vista. I gatti che percepiscono l’arrivo dell’addetto all’approvvigionamento già dal rumore dell’ascensore, o forse dal portone che si chiude, o magari dai passi in strada, chissà. Il ritorno, in fondo, è il vero inizio. Anzi, il ritorno è la vera partenza.

cose che è molto facile trovare in ogni casa

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Una medaglia di partecipazione a una corsa campestre. Una magnete di Mont Saint-Michel sul frigo. Un paio di Adidas Stan Smith. Almeno un Expedit. Una confezione di antipasti calabresi sott’olio piccantissimi, nelle varianti scaduti in dispensa o aperti e scaduti in frigo. Il Diario di Anna Frank. Un disegno di Keith Haring, è valido anche stampato su un quaderno protocollo. Una vhs del matrimonio anche se non si possiede più il videoregistratore. Una guida Lonely Planet di New York con le Torri Gemelle in copertina. Un blocchetto di post-it con l’adesivo dell’ultimo foglietto ricoperto di polvere e qualche pelo di gatto. Un libro di Richard Scarry. L’Enciclopedia di Repubblica incompleta. Qualche cianfrusaglia acquistata di senegalesi come autentico artigianato africano, tipo l’elefantino che ti mettono in mano al saluto di ciao amigo. Il telecomando ormai inutile di almeno tre televisori fa. Del miele. Un telo in microfibra viola del Decathlon. Il volantino di una pizzeria d’asporto. Un orologio da polso non funzionante. Un biglietto dell’autobus di una città italiana a scelta in cui non tornerete più, e nel caso ci tornerete sarà ormai fuori corso. Monete rimaste da un viaggio all’estero quando in Italia c’era ancora la lira. Una squadra da disegno tecnico con l’angolo sbeccato. Una penna scarica ma che non si butta perché è un ricordo. Una sorpresa di un Kinder sorpresa. Una serie di conchiglie o una bottiglietta piena di sabbia o un piatto con i ciottoli, souvenir naturali – talvolta raccolti malgrado un divieto – di una vacanza al mare in inverno, dall’altra parte del pianeta. Un mazzo di carte incompleto. Una gioco in scatola di cui si sono perse le istruzioni. Una bottiglia a metà di grappa. Una bottiglia a metà di mirto in ghiacciaia. Il caricabatterie del Nokia 3310. Una cartolina acquistata in vacanza, compilata, affrancata e mai spedita. Una cassa di birre. Una stampa incorniciata ma mai appesa, nascosta provvisoriamente – per modo di dire – tra il fianco dell’armadio e la parete. Un adattatore schuko. Due adattatori schuko. Una lametta da barba usa e getta di quella marca che è troppo tagliente e che nessuno userà mai più ma è meglio tenere per le emergenze. Una o più buste di purea istantanea. Decine di campioncini di creme di tutti i tipi destinati a superare ampiamente la data di scadenza. L’aspirina. Un segnalibro. Un prestito della biblioteca scaduto qualche anno prima. Spray ammazza formiche. Il minipimer. Una lampadina a incandescenza di cui, in tempi di attenzione all’impatto ambientale, ci si vergogna come dei ladri. Qualcosa di pochissimo valore rubato all’autogrill di cui il senso di colpa non ci dà il coraggio di liberarci. Un fazzoletto che qualcuno ci ha prestato e che non abbiamo mai restituito in barba alla legge naturale della moneta che si dovrebbe sempre dare in cambio. Un gadget di una multinazionale del settore dell’Information Technology. Una biglia. Making movies dei Dire Straits.

fine delle trasmissioni

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Tranquilli, dove volete che vada senza di voi. Era solo un modo per riflettere tutti insieme sul fatto che c’è sempre più l’esigenza che i programmi finiscano, ad un certo momento. Sarebbe così utile riprendere l’abitudine di accendere sto monoscopio metaforico nelle vite di tutti noi almeno qualche ora al giorno. Ventiquattro per sette è il mantra su cui si tira avanti nella modernità, qualsiasi tipo di produzione non si interrompe mai. Pensate solo al fascino che hanno avuto il Notturno Italiano e dopo RaiStereoNotte, per dire. Erano l’unica cosa che trovavi di aperto se soffrivi di insonnia. C’erano certi bar che tiravano tardi ma fino a un certo punto, ai quali subentravano i panettieri appena alzati con le loro brioche vendute senza scontrino. Oggi non c’è soluzione di continuità, ci sono turni che durano fino all’alba, trovi anchorman in tv che danno le ultime notizie così tardi che a seconda di come le giri potrebbero essere le prime del giorno successivo e sono sicuro che non manca molto ai negozi e ai supermercati che non chiudono mai. Ci andreste a fare la spesa alle tre di notte? Quella è l’ora più fetente. Se stai sveglio dalle tre alle quattro sei spacciato per il resto della giornata. Quando abbiamo smarrito il valore delle interruzioni, del riposo, della buonanotte e poi si spegne tutto, quando invece la casa pullula di led accesi, di ronzii di elettrodomestici in azione o in stand-by. Forse, con il tempo e con tutte le cose che sono successe, e mi riferisco agli ultimi trent’anni, abbiamo sempre più paura della solitudine e del silenzio. Accendere la tele e vedere il nulla fatto di assenza di un segnale – che poi oggi con il digitale terrestre abbiamo annientato pure quello – ci fa sentire abbandonati, senza guida, su un pianeta alla deriva, fuori orbita, fuori c’è buio e non sappiamo se il mattino arriverà anche questa volta. Prima invece eravamo obbligati a coricarci nel letto e il divano non ci bastava per nulla, dopo l’annuncio che qualcuno, dall’altra parte dello schermo, avrebbe chiuso tutto e signore e signori buonanotte. Eravamo obbligati ma non ci dispiaceva, tanto era sublime chiudere gli occhi con il libro sul petto che, lasciato andare dall’abbandono delle membra, ci cadeva addosso una, due, tre volte. Io mettevo una cassetta nel radioregistratore che avevo sul comodino, quasi sempre la stessa che mi faceva crollare al terzo o quarto pezzo. Vi siete mai addormentati con la musica? Ecco, le canzoni continuano ma tu ti allontani nell’oblio, resta solo un filo appeso che è tanto più sottile quanto quel brano lo conosci a memoria. E lo sapete dove voglio arrivare, perché è come avere una luce che non si spegne mai.

per chi non ha una camera tutta sua ma deve, ogni giorno, fare e disfare un divano letto

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Non è solo Gabriele a non avere a disposizione una vera camera tutta sua e a condividere un divano-letto in sala da pranzo con suo fratello che è più piccolo ma già ora ha tutte le carte in regola per diventare un fotomodello o un attore. Io sarei impazzito da ragazzo a non possedere uno spazio tutto mio dove mettere le mie cose. Per darmi una spiegazione penso che la famiglia di Gabriele non può permettersi una casa più grande con una stanza in più. Suo papà giocava a calcio di professione e poi non ho mai capito che lavoro avesse iniziato successivamente al ritiro. Sua mamma tutt’ora gira in reggiseno senza nessun problema nei confronti degli ospiti, che a loro volta si sentono a proprio agio e vorrei vedere chi no.

Oltre a Gabriele e suo fratello vanno annoverati in questa specie di categoria in cui ci si sente un po’ provvisori anche Veronica e il suo fratellino che ha un nome che inizia con la V. Addirittura loro, oltre a dover rifare il letto e mettere tutto a posto ogni santo giorno prima di andare a scuola, hanno anche la nonna che occupa uno stanzino ma che per lo meno non è di passaggio per nessuno e dispone, a differenza di loro, di un livello di privacy sproporzionato per le esigenze di una vecchina che sì, ha piacere a cambiarsi in santa pace senza mettere la sua biancheria in mostra, ma in confronto i bisogni degli adolescenti sembrerebbero quisquilie.

L’apoteosi è quando arriva qualche ospite. Capita spesso perché la famiglia di Veronica che viene dal sud svolge il ruolo di base d’appoggio a Milano per parenti e amici che hanno bisogno. Pensate al dibattito Roma vs Milano di questi giorni. Io ci ho pensato e credo che non stia né in cielo né in terra perché Roma è tutto quello che volete ed è anche molto più bella, ma a Milano ci vengono da ogni parte d’Italia per lavoro.

Gli ospiti della famiglia di Veronica si appuntano tutte le informazioni logistiche: a Milano Centrale – così gli dettano – prendi la verde fino a Loreto, poi prendi la rossa e scendi a Rovereto e segui le indicazioni per il Parco Trotter. L’ospite arriva e usufruisce di una branda supplementare montata in sala, all’altro capo del divano letto di Veronica e del suo fratellino che ha un nome che inizia con la V.

L’ultimo ospite è stato un cugino in seconda, a Milano per seguire un corso full immersion su un software specifico. Il cugino in seconda lavora per un comune dell’Italia centrale; il suo responsabile gli ha pagato questo corso di tre giorni in un ente di formazione in pieno centro a Milano per il quale è stato chiamato un professionista formatore da Genova. Mi sono chiesto quanti soldi ci fossero in ballo in quel frangente e se non fosse stato più economico mandare il docente da Genova a quel comune dell’Italia centrale, o mandare l’ospite della famiglia di Veronica direttamente a Genova, e perché Milano svolgesse questa funzione di mediazione logistica. Non ho una risposta, come non so perché la mamma di Veronica abbia dato un nome a entrambi i figli che inizia con la stessa consonante.

non è per niente facile la vita a due, figuriamoci in quattro

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Della mia vita con Marco potrei scrivere un blog a sé, non so a chi interesserebbe a parte me, anche se voglio dire non è che qui ci sia tutto ‘sto traffico quindi comunque due parole le vorrei spendere. Soprattutto perché oggi mi è venuto in mente di quando abbiamo fatto conoscenza con quelle due ragazze in quel locale sul lungomare di Nervi e Marco che si era subito appartato su una panchina le aveva vomitato sulle scarpe, in effetti avevamo bevuto abbastanza. Forse era per quello che all’appuntamento successivo, sarà stato per il fine settimana dopo, non si sono presentate o forse si erano nascoste per studiare la nostra reazione, vedere quanto saremmo rimasti ad aspettarle, o anche solo farsi due risate per vendicarsi dell’onta ricevuta. Perché la performance di stomaco di Marco aveva anche guastato la serata a me e all’altra, io notoriamente sono più lento in queste cose e insomma non avevo mica ancora concluso niente ed è finita che poi ci siamo messi tutti ad aiutare Marco a sistemare le cose e anche un po’ a pulire. Ma la svolta c’è stata la settimana successiva, quando si sono presentate al bar che frequentavamo e in cui si rimediava sempre qualcosa da fumare. Era appena uscito “In utero” e ne valutavamo le potenzialità bevendo sambuca, e poi le abbiamo viste entrare, comprare delle caramelle – era evidente che si trattava di una scusa – e allontanarsi. Quindi sapevano dove quelli come Marco e il sottoscritto si incontravano? Ci avevano seguito? Che cosa volevano esattamente? Tra l’altro era la prima volta che le vedevamo alla luce e entrambi avevamo notato certe imperfezioni che, vuoi la sbornia vuoi la vita notturna ci erano sfuggite. Non che fossimo due adoni, io e lui, quindi evitatemi la paternale perché sono perfettamente consapevole dei miei limiti e delle mie possibilità. Voglio solo sottolineare che quella che sembrava avere il suo destino perpendicolare al mio vista di giorno e non in abito scuro sembrava un po’ tarchiata. La ragazza che spettava a Marco invece secondo me era proprio sgradevole e non certo fisicamente, Marco però nella sua immensa sensibilità coglieva cose nelle persone che io proprio non vedevo nemmeno al microscopio. Tra l’altro Marco è già comparso altre volte su questo blog ma sotto falso nome, e oggi mi chiedo (e chiedo anche a voi) se c’è bisogno di dare diverse identità o di mantenere l’anonimato quando si raccontano episodi della propria vita che riguardano altre persone. Perché poi la cosa che ricorreva sempre nella mia vita con Marco è che storielle come questa ce ne sono capitate a decine ma dovessi dire non ricordo assolutamente come sono andate a finire, perché dopo che le due ragazze sono uscite dal bar, terminata la sambuca e ascoltata l’ultima traccia di “In utero” probabilmente ne abbiamo iniziata un’altra, di storiella, che si è mescolata con il finale di questa.

a parlare sono capaci tutti

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L’idea di mescolare tv e radio insieme che hanno avuto alcune emittenti approdate sul digitale terrestre confonde un po’ le cose, impone a chi ci lavora di osservare un dress code più studiato considerando che ti vedono in tutto il mondo ma, ed è qui che la trovata fa la differenza, ti fa capire che gli speaker esistono realmente e fanno il loro show in diretta. E, soprattutto, si vede come lo fanno. Indipendentemente dal fatto che troviate interessanti o meno le cose che dicono, io sono del partito degli “o meno”, ho scoperto che gli speaker radiofonici stanno in piedi e si muovono come i presentatori in tv. La differenza è che non guardano le telecamere ma tengono gli occhi su un monitor o su degli appunti che hanno davanti. D’altronde pensateci un attimo: quando ascoltiamo la musica su che cosa si soffermano i nostri occhi? Io non osservo nulla, è come quando sei a pranzo da solo o quando rifletti su qualcosa e lo sguardo ti si perde nel vuoto tanto che, a chi ti sta vicino, gli viene da agitarti il palmo delle mani davanti per vedere se ci sei ancora o sei altrove.

Certo, rimane il dubbio se prima dell’avvento di questo format multi-canale gli speaker radiofonici stessero stravaccati su un divanetto e la produzione gli ha imposto di mettersi in piedi per non dare l’idea al pubblico e agli sponsor pubblicitari che il lavoro che svolgono è uno di quelli che quando lo dici in giro la gente ti chiede “ok, ma che lavoro fai veramente?”. Un po’ come l’idea che gli anchorman dei telegiornali stiano seduti alla loro postazione in giacca e cravatta ma sotto sono in mutande o, per fare un esempio più vicino a noi comuni mortali, quando fate una video-conferenza da casa e la webcam è puntata sull’unica parete presentabile del vostro studio mentre tutto quello che non si vede è sommerso da cumuli di roba da stirare e pile di stoviglie sporche, e voi avete l’unica camicia pulita ma dalla vita in giù indossate ancora il pigiama e le ciabatte.

A me la cosa che colpisce di più però è come parlano bene, che non si mangiano le parole come me e come la totalità delle persone che conosco, e che però, lasciando perdere i contenuti che è fuffa allo stato puro, hanno una lingua che se ce l’avessi io qui in ufficio colleghi e clienti mi rispetterebbero molto di più. Sarà una questione di esercizio? Io passo il tempo a scrivere stando zitto, non mi esercito e quando sono tenuto a spiegare qualcosa ho sempre tutto in testa ma non riesco a dirlo. Poi la domenica amo fare cose come girellare in bici nella periferia a scovare spunti sufficientemente deprimenti per scrivere post e fare foto ma non mi piace raccontarlo a nessuno. Vedo materassi abbandonati all’ingresso dei cancelli di fabbriche che hanno chiuso da anni, stranieri sgomenti che l’occidente sia davvero così mentre aspettano il tram sotto pensiline arrugginite e tutte pasticciate, tralicci dell’energia elettrica alti come grattacieli che campeggiano su campi incolti a ridosso di quartieri in costruzione e con insegne di discount sullo sfondo al tramonto, avventori di bar a gestione cinese così anziani che quando chiedono notizie sui loro amici che vivono in fondo alla strada e che non si vedono più da mesi sono pronti a qualunque tipo di aggiornamento, anche quello che può chiudere ogni conversazione definitivamente.

fumo solo per darmi arie nei polmoni

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Giorgio compra le John Player Special solo perché hanno il pacchetto nero e non stona quando lo estrae dalla tasca interna della giacca nera. È chiaro che non si tratta di una questione di brand. Quello, come altri, campeggia su certe auto da Formula Uno e lo si ritrova come sponsor di manifestazioni che lo snobismo di chi ascolta i Bauhaus considera su un altro pianeta. Io, per dire, della stessa marca ho un ombrello e uno di quei fazzoletti che la moda del mille-novecento-settanta-boh imponeva annodati stretti al collo. Per dire, ne ho uno uguale rosso della Coca Cola. La chiave di questa scelta anti-salutista non dev’essere nemmeno individuata nel tabacco. Le John Player Special fanno oggettivamente schifo ma nessuno, così schiavo degli abbinamenti cromatici, rinuncerebbe mai a far notare agli altri l’attenzione che ha posto anche in un dettaglio come quello.

Le Winston con il pacchetto morbido vengono invece da quella canzone dei Genesis in cui cigarettes fa rima con majorettes, ma diciamocelo, questa è più difficile che gli altri la colgano soprattutto ora in cui intanto Peter Gabriel si fa i fatti suoi e loro, rimasti in tre, si dedicano a certe ballate melense che non sto a raccontarvi. Ma non è solo la musica a determinare la marca di una potenziale condanna a morte, anche se il tempo degli annunci funebri sulla confezione è ancora lontano e in tv, a partire da Tribuna Politica per arrivare a qualsiasi intervista al TG, tutti si fanno riprendere con la sigaretta accesa in mano.

C’è pieno di amici che fumano MS o le Bis o le Diana perché costano sensibilmente meno, e da questo particolare capisci che non è più un vezzo per sembrare più grandi ma siamo già nell’ambito del vizio che poi non ti scolli più di dosso, figurati dai bronchi. Comunque tranquilli, alle Nazionali che rappresentano il fondo e che fumano solo i muratori nessuno c’è ancora arrivato. Le ragazze preferiscono invece quelle sottili come le Fine 120 o le Cartier, d’altronde sono state studiate apposta per loro e tutta la questione del diametro genera non poche volgari ilarità e doppi sensi nelle battute tra i maschi. Ci sono quelle che invece ostentano le sigarette alla menta, le Pack e le Marlboro verdi che si trovano solo in Costa Azzurra e si acquistano quando vanno in treno nelle discoteche di Juan Les Pins che mettono new wave. Io ho provato a fumarle ma il contrasto tra respiro caldo e sapore rinfrescante mi ha fatto vomitare al terzo o quarto tiro.

Le Camel e le Lucky Strike le comprano solo quelli che vogliono fare i duri, i metallari e quelli che fumano poche sigarette e tante canne, ma non vi nascondo che il logo delle Lucky che ricorda il bersaglio tricolore dei Mods è quello che mi piace di più. Infine c’è la nicchia che si gonfia la bocca in tabaccherie di cose come le Dunhill rosse o le Peter Stuyvesant solo perché si sente la pubblicità alla radio con quel jingle che non te lo togli più dalla testa. Fine della storia.

Oggi, e parlo dell’oggi vero, del 2015 insomma, chi fuma è trattato – giustamente o no – come un appestato, vedo ragazzetti in terza media con la sigaretta in bocca mentre vanno a scuola e spero davvero che mia figlia non prenda mai il vizio. È sempre più diffusa l’usanza di usare il tabacco sfuso, chi la segue ti dice perché così risparmia e fuma di meno per via dello sbattimento di farsi la sigaretta anziché trovarla pronta. Non so, qualche anno fa in un brevissimo rigurgito di ripresa del vizio facevo anche io così, e devo dire che, senza filtro, è l’unico modo per gustarsi appieno il tabacco, se ha senso farlo. Perché anche io ho iniziato in terza media – era l’estate del 79 – e ho smesso nel 94 durante una manifestazione contro il primo governo Berlusconi. Camminavo tra le bandiere rosse e ho preso il pacchetto ancora pieno e l’ho gettato via. C’erano già tante cose che facevano male al morale che ho deciso che, almeno il corpo, era meglio preservarlo sano.

nuovi modelli caserecci di ritorno al futuro in concomitanza con l’imminente anniversario

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Se vi esorto a riprodurvi (in quantità controllata se no il pianeta esplode, anche se il procedimento per farlo è pur sempre un bel momento) è perché non vorrei privarmi del piacere di rivedere le vostre facce un po’ incartapecorite ancora una volta giovani se non addirittura fanciullesche come un tempo. È una bella esperienza, sapete? Una specie di ritorno al futuro, proprio in questi giorni in cui il 21 ottobre 2015 che ci sembrava così remoto oggi è così a portata di mano. Ma non servono macchine di lusso da far taroccare dal vostro amico scienziato, lo stesso che elaborava il carburatore del Garelli in cantina per accattivarsi le simpatie della bella del quartiere con le sue impennate. Il mio paesello natio, per dire, sembra essersi ibernato al 1985. Vado a spasso e rivedo adolescenti dai lineamenti famigliari e mi verrebbe da fermarli uno per uno se non rischiassi di esser preso per lo scemo di turno. Che già il fatto di non riuscire a non fissarli per ricondurre i volti e le espressioni al ricordo di qualcuno è rischioso, un maschio di mezza età che dimostra interesse ai ragazzini di questi tempi marca male. Allora lasciatemi esprimere qui la gioia di rivedervi tutti, amici o conoscenti o gente con cui ci siamo frequentati o ragazze con cui ho flirtato o comunque chiunque abbia visto da giovane che in un paesotto di cinquantamila abitanti alla fine ci si conosce più o meno tutti. Rivedervi però come eravate allora nei visi dei vostri figli, perché se è vero che l’incrocio dei geni con il vostro/a partner ha mischiato un po’ le carte alla fine la matrice è facile da riconoscersi. Non ho nessuna difficoltà a chiamarvi tutti per cognome.

se non hai i soldi almeno tramanda ai tuoi figli il meglio di te

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La recrudescenza del fenomeno di certe band che proprio non ne vogliono sapere di cambiare mestiere e che, di riffa o di raffa, tra uno scioglimento o uno che se ne va e poi ritorna comunque continuano a sformare dischi con più o meno assiduità da trenta, quaranta e, ma mi pare sia un caso unico, cinquant’anni, ha anche i suoi lati positivi. Caterina e Matteo di anni ne hanno poco meno di venti e si sono conosciuti sotto il palco di un concerto di un gruppo che, quando sono nati, era già in piena parabola discendente. Matteo è un fan fidelizzatissimo e con lo stesso atteggiamento nerd che contraddistingue quelli della sua generazione. Ha tutti i cd ma poi si è ricomprato tutti i vinili e, se la tecnologia glielo consentisse, acquisterebbe anche le cassette originali. Alimenta un canale su youtube in cui ha raccolto tutte le testimonianze video disponibili in rete, partecipa attivamente a forum e alle numerosissime pagine Facebook dei tipi come lui e così via. Anche Caterina è sul pezzo, non con questa metodicità ma con analoga serietà. Conosce molti dei testi delle loro canzoni a memoria, non è una sprovveduta in fatto di aneddoti sui membri della band e non è certo la prima volta che spende fior di quattrini per un loro concerto.

Caterina e Matteo vivono a una ventina di km di distanza e non si erano mai incontrati fino a quando, davanti alle transenne oltre le quali accedono solo gli addetti alla sicurezza, i fotografi, gli spettatori che si sentono male per il caldo e i paraculi, sono stati compressi dalla ressa e si sono trovati appiccicati in una posizione così intima che sarebbe stato un vero peccato non sfruttare. La loro – diciamo – storia d’amore è ancora acerba e quindi c’è ben poco da scrivere, ma c’è di più. Parlando delle reciproche vite viene fuori che la mamma di Matteo e il papà di Caterina erano amici ai tempi dell’università. Il fatto che entrambi amassero lo stesso complesso che ora è seguito dai figli è un dettaglio che potete considerare un’ovvietà, d’altronde da qualcuno dovevano pur prendere. Ma il bello è che i due genitori ai tempi avessero flirtato senza concludere, e se ci aggiungete che oggi sono separati e liberi sentimentalmente potete immaginare come va a finire la storia.

Questa cosa che unisce musiche, destini e passioni e le convoglia alla faccia delle barbarie e degli scempi che il tempo esercita sulle persone la trovo veramente poetica e, per dirvi quanto, sappiate che ho rinunciato a una metafora più prosaica per rappresentare il concetto. Mi stavo immaginando infatti questi fattori (musiche, destini e passioni) come cavi che, per puro scopo protettivo, vengono inseriti in canaline per tutto il percorso della storia fino a destinazione, come si fa per i cablaggi degli impianti e per fare ordine nelle connessioni, ma poi ho pensato che così avrei rovinato tutto. Faccio quindi solo un cenno a una cosa in tema che è capitata anche a me. Lo scorso sabato mia figlia ha voluto, come calzature per affrontare la stagione a venire, il suo primo paio di anfibi neri, e vi giuro che né mia moglie né il sottoscritto ne abbiamo caldeggiato la scelta. Se ci aggiungete il fatto che il suo look sta virando sempre più verso il nero potete avere un assaggio del mio stato d’animo. Da una parte c’è il cieco orgoglio di aver trasferito certe caratteristiche (completamente inutili per una realizzazione personale adulta, sia chiaro) senza il minimo sforzo educativo, voglio dire non è che a cinquant’anni vado in giro ancora conciato come Robert Smith, quindi si tratta di un’esigenza di espressione della sua personalità tutto sommato genuina. Dall’altra c’è il timore che poi questo vezzo nell’abbigliamento alla lunga non solo porti alla nausea del nero (a me era successo proprio questo) ma complichi anche i criteri di apprezzamento cromatico e non solo per quel che riguarda pantaloni o giacche o scarpe. Ma ogni tanto tutti noi subiamo qualche rigurgito che chissà da dove viene. Di questi tempi, in cui Dr. Martens alte e basse e persino le Creeper sono tornate prepotentemente alla ribalta (pur avulse del significato culturale che avevano quando le indossavamo noi), vederne il tripudio in tutte le vetrine dei negozi di scarpe mi ha fatto venire un certo languorino.