banksy

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Ho un giovane collega molto preparato – ha una laurea in scienze della formazione alla Cattolica a cui ha fatto seguire un master in sostegno, conseguito presso lo stesso ateneo – a cui mi rivolgo quando non so a quale teoria psico-pedagogica ricondurre le esigenze pratiche che mi trovo ad affrontare in classe. Mi fa sentire meno speciale sapere che c’è una collocazione universalmente consolidata a cui associare un problema a cui la mia incompetenza non riesce a dare una risposta. A scuola è impossibile standardizzare procedure didattiche perché ogni bambino e ogni adulto con cui si sviluppa la relazione sono differenti – e la gamma stessa delle dinamiche delle relazioni è pressoché infinita – ma poi, alla fine, un po’ per poter tracciare i dati come si fa nelle aziende quando occorre certificare qualche processo, si riesce a emettere un codice (attenzione, è una metafora) da stampare su un’etichetta (attenzione, è una metafora) e lasciare il fascicolo (attenzione, è una metafora) in uno scaffale ben preciso (attenzione, è una metafora) a disposizione di casi analoghi.

Il mio giovane collega mi consiglia di fare così e cosà e la cosa in effetti funziona, al netto del rischio che la relazione, nel frattempo, non abbia già preso una forma diversa da quella che credevo. I tempi di intervento delle persone e delle strutture che dovrebbero fornire sostegno a scuola e famiglie per i casi difficili sono così inadeguati da risultare ridicoli e paradossali. Con le organizzazioni pubbliche addirittura segnali il rischio di un disturbo dell’apprendimento o anche un problema più eclatante in seconda e, a essere ottimisti, ottieni una certificazione in quinta. Potete immaginarne l’efficacia in una fase della crescita e dello sviluppo così imprevedibile, come nei bambini. Ma, ripeto, io sono un copy con la passione per i Cure, per questo mi rivolgo costantemente a chi ne sa più di me, cioè chiunque.

Continuano però a sorprendermi certi metodi a dir poco d’urto che si adottano in caso di situazioni in cui la sicurezza dell’alunno problematico e, di conseguenza, di chi gli sta intorno, è a rischio, sostanzialmente perché la risolutezza di intervento è un meccanismo che non è proprio nelle mie corde. Non sono mai pronto a fare la cosa giusta quando ho poco tempo a disposizione, questo in generale, perché ho bisogno di riflettere a lungo per valutare, e purtroppo in natura è un approccio non ammesso. Senza contare che sbaglio sempre, indipendentemente da quanto ci metto ad agire. Se fossi una preda sarei già stato il pranzo di qualcuno una tacca sopra di me nella catena alimentare da un pezzo.

Ho una collega che è un vero e proprio marcantonio e, per annientare le smanie autodistruttive di un suo alunno, uno scricciolo di terza, gli monta letteralmente sopra bloccandogli le braccia con le ginocchia e sedendosi sulle sue gambe. La sua classe è proprio a fianco alla mia e mi è già capitato di venire chiamato in soccorso per intercettare le sue fughe e impedirgli di fare dei danni. Quando succede, poi sto male tutto il giorno perché è facile far leva sulla forza, con un bambino, ma mi rendo conto immediatamente che si tratta di un’arma sovradimensionata.

Anche il collega esperto in pedagogia che vi ho introdotto prima non è da meno, quando lo vedo rispondere senza tanti complimenti agli assalti ciechi del suo asperger a bassissimo funzionamento. Lui ha anche un altro alunno arrivato da poco – un bambino che sarebbe come tutti gli altri se non gli fossero capitati in sorte due genitori a dir poco distratti – e che ora è in affido presso un’altra famiglia, per il quale adotta spesso soluzioni drastiche. Gli impartisce castighi esemplari d’altri tempi. Se si comporta male a pranzo lo sposta in un banco da solo all’altro capo della mensa e lo fa sedere voltato di schiena rispetto ai suoi compagni se l’ha combinata grossa. A quel punto gli vengono certi lacrimoni che, se fosse un mio alunno, mi metterei in ginocchio al suo fianco implorando le sue scuse e cercando di consolarlo nel modo più efficace. Come vedete, come educatore non valgo una cicca. Il mio collega dice di lui che ha una stima di sé bassissima perché ha la tendenza ad auto-infliggersi punizioni. Quando succede, gli dice che non deve farlo perché l’insegnante è lui (il mio collega) e che, per ristabilire l’ordine delle cose, una persona è sufficiente.

Ora sentite questa. Ieri l’altro andavo a zonzo per i vicoli della mia città preferita, probabilmente il centro storico più grande in Europa, un luogo d’altri tempi che, malgrado Airbnb e la gentrificazione, pullula ancora di spacciatori, microcriminalità, tossici e prostituzione. Non sto a dirvi quanto mi abbia sorpreso leggere scritto con lo spray sul muro di uno degli edifici fatiscenti di quei bassifondi la scritta “ilmiocognome merda”. ilmiocognome è il mio cognome, che non scrivo per ovvi motivi di privacy, e vi assicuro che non è così tanto diffuso. Ho abitato a qualche centinaio di metri da lì, più di venti anni fa, e un graffito così fresco non saprei come giustificarlo. In passato so di non essermi comportato bene con qualche persona, ma si tratta più che altro ex fidanzate con le quali non ho saputo chiudere senza perdere la dignità, mentre ora davvero cerco in tutti i modi di assumermi le mie responsabilità o, se proprio ho paura, mi sottraggo ai conflitti e ammetto di avere torto proprio per non alimentare inimicizie.

Sono stati i carissimi amici con cui mi trovavo in quel momento, veri esperti del quartiere, a tranquillizzarmi. Escluso che si potesse trattare di me, abbiamo formulato qualche ipotesi sulle cause dell’omonima nel graffito: un regolamento di conti tra pusher e clienti, una delazione, o più probabilmente un membro delle forze dell’ordine che non è andato tanto giù per il sottile con qualcuno della zona. Di certo, con questa merda, siamo parenti, in qualche modo. Io, ve lo giuro, non ho fatto niente, e poi da più di vent’anni vivo a duecento km da lì. Ho scattato però una foto alla scritta “ilmiocognome merda” perché non capita tutti i giorni di beneficiare di visibilità di questo tipo e l’ho messa come immagine della testata di Facebook. Non so se c’entri con la stima di sé, in questo caso di me, e con il discorso dell’infliggersi auto-punizioni, ma mi sembra tutto sommato il punto più basso di qualcosa che non so definire.

mercurio

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L’effetto del vapore che sale dall’asfalto quando le temperature sono insopportabili ha un nome che non ricordo più. I vecchi da noi non sono adatti al caldo che fa e se fossero un po’ più giovani e un po’ più ricchi farebbero armi e bagagli e raggiungerebbero i paesi del nord dove vanno i detrattori dell’estate più recidivi, quelli che la menano con l’Irlanda e restano candidi per scelta, per intenderci. La narrazione dell’attuale governo impone però l’Italia a tutti i costi, con le sue bellezze, il suo cibo, i suoi litorali a pagamento e i suoi borghi tutti uguali. Persino i cani randagi non si vedono più, vittime della sostituzione etnica ordita da cinghiali, orsi e lupi. I telegiornali sono zeppi di cronaca nera e intrisi di violenza e morte. Il dibattito politico è ridotto alle provocazioni di sempre, insomma ci siamo capiti. Sono aumentati gli sbarchi, il patriarcato è fuori controllo malgrado Barbie e la benzina è un lusso. Oggi e domani saranno i giorni peggiori, così dicono, e chi ha anticipato le ferie ed è già rientrato si morde le mani e poi lo scrive sui social. Pensavamo di averla scampata, questa volta, ma il tempo, anche nel senso del tempo che fa, è tiranno.

Alla tele passa spesso lo spot dei libri in miniatura, avete visto? Come fai a leggerli mi chiedo, il prossimo step sarà quello dei romanzi in ceramica che non si possono nemmeno aprire ma fanno la loro figura nella vetrinetta in soggiorno. Il bello di fare l’insegnante non è tanto nei cinque mesi di ferie ma nel fatto che il rientro non è niente male. Massima solidarietà a chi torna in ufficio alla mercé di colleghi, fornitori, clienti. Poche ore dopo ferragosto sono arrivate le prime e-mail della dirigente, il collegio docenti di settembre – quello che voi chiamate il kick-off ma noi lo facciamo in aule magne senza aria condizionata mentre voi a Las Vegas o chissà dove – è dietro l’angolo con tutte le sue scartoffie. Per restare in tema con la scuola, ho visitato diversi musei e siti archeologici gratuitamente anche quest’estate, grazie alla mia professione. Ti presenti in biglietteria e mostri sul telefono un PDF che potrebbe avere una qualsiasi intestazione inventata tanto quanto la firma in calce del preside e che attesta che sei un docente. Non c’è nessun controllo. Pensate che bello, invece, se fossimo provvisti di un badge con un codice a barre o un QR code che riporta un numero di matricola univoco – che poi sul cedolino esiste, questo numero – collegato a un data base nazionale a disposizione di tutte le strutture culturali al cui ingresso a zero costi abbiamo diritto. Ho visto cose bellissime ma è inutile raccontarle. Sono partito presto, quest’anno, e già in giro non si vedeva nessuno. A dirla tutta, anche oggi non c’è anima viva. L’impressione è che si stiano squagliando tutti, altrimenti non si spiegherebbe questo vuoto di persone, di parole, di pensieri e di gesti.

maxirata finale

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Salvatore alla fine ha deciso di tenerla. La vita, dico. Alla fine Salvatore ha deciso di tenerla. La formula gli era stata prospettata come la più adatta al suo profilo di essere umano: hai un bene che ti godi a spanne per un’ottantina d’anni, sempre che non ti capiti qualche incidente. E se sei uno che non ama i cambiamenti, gli aveva detto il venditore della concessionaria, non ti verrà mai in mente di restituirla dopo appena quattro anni come fanno tutti oggi. Versano un acconto – poche lire -, pagano una rata sostenibile per 96 mesi e poi la riportano indietro, tanto il contratto prevede la supervalutazione garantita dell’usato. A quel punto scelgono che fare. Possono sostituirla con un nuovo modello e ripartire da capo e continuare a fare così per tutto il resto del tempo che gli rimane. Una sorta di leasing, per chi ci tiene ad avere sempre una nuova possibilità. Oppure versare la maxirata finale e diventare proprietari. A Salvatore, invece, la vita serviva per il motivo per cui tutti, bene o male, ne abbiamo almeno una, nuova o usata che sia. Si era informato, aveva simulato tutti gli scenari possibili, ma poi era giunto alla conclusione che tanto valeva comprarla subito, come si faceva una volta. Come avevano fatto i suoi genitori, i suoi nonni, e tutte le generazioni di persone che si erano avvicendate prima che qualcuno si inventasse che era necessario dare una svecchiata. Le ha tirato il collo – dovreste vedere le cifre sul cruscotto – ma poi, a quella che doveva essere l’ultima revisione, non se l’è sentita di darla indietro per un nuovo modello, considerando che il destino di quel catorcio era segnato. I parametri europei non lasciano scampo, e il rischio era di non poter più mettere il naso fuori di casa senza beccarsi una contravvenzione. Le rate le aveva finite da un pezzo, e un po’ ci si era affezionato. L’ha messa nel box e l’ha tirata a lucido, con l’impegno a metterla in moto e concedersi qualche sgasata la domenica mattina come fanno quei fanatici con le auto d’epoca che le muovono solo per partecipare ai raduni. A quell’età, Salvatore non ha bisogno di altro. Ha stampato decine di foto, i momenti in cui a bordo della sua vita insieme a lui ci sono le persone più importanti con cui ha condiviso un pezzo di cammino, e si è fatto preparare qualche album da uno di quei siti in cui puoi impaginare le immagini come preferisci. Poi va giù in garage e si siede sul sedile del passeggero, quello che per la maggior parte della sua esistenza è stato occupato da una persona molto importante. Si accende una sigaretta, mette le sue canzoni preferite, e ripercorre, foto dopo foto – senza fretta di arrivare – tutti i giorni che gli va.

sound check

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Ivano lavorava di più con la bella stagione e mi chiedeva di accompagnarlo se pensava che le iniziative potessero interessarmi. Non voleva mai che lo aiutassi. Tutt’al più, una volta montato tutto, mi incoraggiava a muovermi lungo le file di sedie o sulle gradinate. Metteva della musica e voleva il mio parere. «Si sente bene e uguale da tutte le parti?», mi chiedeva quando rientravo sotto il gazebo dove manovrava il mixer, non appena la vicinanza ci permetteva di dialogare. Il tecnico del suono era lui, e lo accontentavo in tutte le occasioni in cui cercava di coinvolgermi in qualche modo perché pensava che mi annoiassi a stare lì, senza far niente. Era la fine di maggio e, quella sera, c’era uno spettacolo teatrale, un attore con un passato da cantante che leggeva cose di altri. Sembrava tutto a posto, i primi spettatori stavano già porgendo i biglietti all’ingresso e avevo preso due birre fresche al chiosco mobile da bere insieme quando lo vidi varcare il cancello del teatro all’aperto. «Ivo», dissi al mio compagno. «Che c’è?», mi chiese porgendomi l’accendino dopo aver acceso la sua, di sigaretta. «Guarda. Quello lì.» Gli feci un cenno soffiando il fumo della prima boccata nella direzione da seguire con lo sguardo. «È Walter. Il mio collega. Quello di cui ti parlo sempre.»

Walter non mi riconobbe subito, come succede quando ci capita di incontrare qualcuno al di fuori dell’ambiente che si frequenta insieme. All’aperitivo con le altre del corso di pilates mi ci vuole sempre un po’ prima di capire con chi sto parlando, abituata a vederle in tuta. Walter, con il suo passo dinoccolato, procedeva lentamente verso la platea scambiando qualche commento sul contesto con una donna alta quasi quanto lui, che gli stava quasi aggrappata al braccio. Walter indossava la t-shirt di un gruppo musicale, lei aveva un vestito corto e dei sandali. Mi colpì il fatto che fosse esageratamente bella e fuori luogo per lui, e che sembrasse anche molto più giovane. Di certo, ciò che vedevo non corrispondeva all’idea che mi ero fatta della vita privata di Walter, da come la raccontava a me e alle altre colleghe. Sposato, con una figlia all’università. Piuttosto dimesso nell’abbigliamento, ma a scuola conviene venire vestiti comodi. Alla primaria, gli insegnanti più giovani mettono addirittura la tuta da ginnastica, del resto a stare in classe o in mensa non c’è così tanta differenza con la palestra e le ore di motoria. Si avvicinò per nulla sorpreso di incontrarci in quella situazione così anomala. Avevo pochissime informazioni sullo spettacolo a cui stavo per assistere. Walter, al contrario, aveva acquistato il biglietto diverse settimane prima e mi confidò la passione che lo aveva condotto lì. Vera – così si presentò la donna con cui si accompagnava senza aggiungere dettagli sul loro legame – invece si dimostrò entusiasta sullo spazio in cui la serata era stata organizzata e sul quartiere, aggiungendo diversi consigli sulle altre iniziative contenute nella stessa rassegna. Mi lasciò un programma ma non andammo oltre. Si precipitarono a prendere posto, l’affluenza stava aumentando e restando lì a chiacchierare con noi avrebbero compromesso il vantaggio dell’anticipo con cui erano arrivati per assicurarsi due sedie in prossimità del piccolo palco. Si sedettero, e poco dopo notai Walter avvicinarsi al punto in cui era posizionato il microfono per fotografare la scenografia – scarna ma decisamente caratterizzante – di contorno, da postare su un social network spinto da un irresistibile desiderio di testimoniare la sua presenza all’iniziativa di quella sera.

Lo spettacolo fu più breve del solito. Rientrammo presto, faceva già molto caldo. Ivano ed io ne approfittammo per rifare il letto e mettere le lenzuola nuove che avevamo comprato la mattina stessa al mercato. «Sono lenzuola magiche», così l’uomo della bancarella aveva convinto Ivano, un tunisino che la sapeva lunga su come prendere i mariti delle coppie che curiosavano tra i suoi articoli. Spalancammo la finestra, ci coricammo, spensi la luce e, chiudendo gli occhi, ripensai proprio a questo. A come noi insegnanti siamo diversi nella vita privata. Provai una sensazione di freschezza muovendo i piedi sul tessuto. Feci un sospiro. «Tutto bene?», mi chiese Ivano, voltandosi dalla parte opposta. Fu proprio in quel momento che la camera, la casa e probabilmente tutto il palazzo si inclinarono di novanta gradi. Le nuove lenzuola erano molto lisce, così scivolai lungo il letto facendo in tempo a posizionarmi con i piedi verso il basso ma continuando a tenere per mano Ivano che già russava. Provai a chiedergli se non si fosse accorto anche lui dei trattini azzurri che si vedevano sul soffitto come lucine colorate accendersi nel buio. Provai anche a dirgli che avrei voluto tornare ancora una volta in campeggio insieme, a dormire sotto la tenda cullati dal respiro del vento, magari proprio quell’estate stessa, ma non mi uscì alcun suono dalla gola.

Riuscii appena in tempo a scorrere a memoria, con la mano che mi era rimasta libera, il freddo stelo in acciaio della lampada sul comodino e a premere il pulsante della luce. Il palazzo, la camera e di conseguenza il letto invertirono la rotazione, tornando lentamente nella posizione di partenza. Il rumore delle fronde scosse dal maestrale cessò e, con esso, svanì la tenda in cui avevo immaginato di trovarmi. I trattini azzurri si precipitarono verso la finestra, rimasero in volo qualche istante per spegnersi di lì a poco, inghiottiti dall’alone dei lampioni della via di sotto e dal rumore dell’ultimo tram. Ivano non sembrò accorgersi di nulla. Pensai a Walter e a Vera e alla soddisfazione con cui li avevo visti applaudire insieme, durante lo spettacolo. Decisi comunque di lasciare, per sicurezza, l’abat-jour accesa.

cuore di pietra

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Le birrette da 33 sono una trovata infernale. Anzi, posso assicurarvi che là sotto c’è davvero un girone in cui lo stomaco del bevitore ce lo ricacciano indietro a forza di bottigliette che, circondati dalla fiamme o immersi nella lava, per la sete le finisci in un sorso e davvero i boccali da un litro te li sconsigliano perché si scalda subito. A me, qui nel paradiso, non è mai successo, potete state sicuri che li finisco prima. Il chiosco che qualcuno ha aperto nel minuscolo parchetto della circonvallazione ha esaurito i fusti alla spina e la coppia che sto per presentarvi si accontenta di due poco più che mignon di vetro di una di quelle svariate marche industriali che finiscono in -oretti. Domani Milano chiude per ferie e le scorte, nei bar, non si fanno più fino al rientro, a settembre. La birra comunque è ghiacciata anche se c’è nell’aria, e tra i due, un temporale con i fiocchi. Il cielo è scuro, tira un vento da cambiamento climatico e lui vorrebbe tagliare corto per tagliare del tutto ma è un uomo, non meno vile degli altri. Lavorano nello stesso negozio e un mattino – lui si ricorda benissimo il momento preciso – a lei è arrivato il messaggio, quello del corpo di lui, che c’era qualcosa che non andava. «Hai un che di diverso», continuava a dirgli sottovoce ogni volta che si incrociavano tra i reparti, per non farsi scoprire dai clienti, per la maggior parte turisti dell’est. Era cambiato tutto, lei aveva ragione da vendere insieme ai saldi estivi.

Ma la signora del chiosco manda segnali inequivocabili: è venerdì, è il 31 luglio, sono quasi le sette, si chiude ma con una di quelle chiusure che sembrano per sempre perché poi nulla ripartirà come quando è stato sospeso. I tavolini non sono veri tavolini ma una specie di bobine da filo di dimensioni gigantesche, nemmeno i clienti fossero quelli di una casa delle bambole. Lei è scomoda sulle sedie fatte con le strisce di plastica colorate, un’imitazione delle sdraio degli anni settanta, ricordate? Lui si dondola e dà l’ultima sorsata dell’ultimo aperitivo dell’ultima estate dell’ultimo anno che trascorreranno insieme.

Tocca a lei pagare – lui è sempre senza contanti e senza vergogna – e il vento si fa ancora più pericoloso. Volano i tovagliolini in mezzo alla strada, volano le speranze sotto il tram in arrivo. I due si avvicinano alla metro, non è un bel modo per separarsi me c’è poco da fare perché lei non la deve prendere, per tornare all’appartamento che divide con quella sua amica un po’ matta che la imita in tutto. Sotto il telefono non funziona e non correranno il rischio di strascichi a caldo su Whatsapp, quelle cose che fanno cambiare idea all’istante per poi pentirsi di essere tornati sui propri passi. Nessuno ha visto se si sono abbracciati, ma possiamo scommettere che lui le avrà offerto un bacio sulla guancia e lei si sarà tirata indietro, voltandogli le spalle. La scena riprende con lui che non gli rimane altra scelta che scendere e c’è un secchio rosso all’ingresso dei tornelli, messo lì a raccogliere dell’acqua da una perdita di un tubo. Vorrebbe fare una foto, ma poi l’annuncio delle limitazioni agli orari di agosto lo distrae.

scusate l’interruzione

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Non sarebbe un vero elenco delle cose che non ho portato a termine nella mia vita se non fosse parziale perché, nel caso, almeno una l’avrei finita e invece non voglio darmela vinta. Non ci sono mai riuscito, anzi, non mi sono mai impegnato abbastanza, continuo a rimproverarmi. E come certi litoranei intervallati da villette incompiute per non dover pagare chissà quale imposta sconveniente, dietro di me c’è una distesa di cose lasciate a metà, il più delle volte meno della metà, degna di un parco archeologico alla mercé di incuria e tombaroli, con un settore che addirittura è stato meglio transennare per tenere alla larga i curiosi e che è quello degli impegni non mantenuti.

Perché se il conservatorio o il corso di giornalismo o quello di musicoterapia abbandonati, tutto sommato, visti da qui possono avere un che di folcloristico – be’ dai comunque a qualcosa quel poco che hai imparato ti è stato utile – altri progetti lasciati avvizzire per una graduale perdita di entusiasmo a scapito delle persone con cui erano partiti – band, riviste online e collaborazioni varie – meglio destinarli all’oblio della storia.

Per trasformare la stortura dell’inaffidabilità in un punto di forza ho pensato così di ridurre le aspettative. Riesco ad arrivare all’ultima pagina dei libri, e non vi dico la sensazione di compiutezza che provo quando li riporto in biblioteca. Sono in grado di resistere fino alla scena finale dei film che mi disturbano, perché ho imparato a convincermi che sono attori, quelli, mica persone in carne e ossa. Scrivo storielle che stanno in una paginetta, e per i romanzi sarà per un’altra vita. Per questo, la scuola primaria è perfetta per me. Dicono che la soglia dell’attenzione nei bambini non superi i 20 minuti e chi sono, io, per essere meglio di loro.

come Anders in banca

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Al maestro Tobia qualcuno (o qualcosa) staccò la spina all’improvviso. Ma, come per gli alimentatori dei portatili, una lucina rimase accesa per un paio di secondi durante i quali la testina del riavvolgimento cosmico si posizionò a caso proprio sul momento meno importante della sua vita.

Nessuna traccia quindi del primo bacio dato alla futura moglie durante la proiezione di Jules e Jim che, si sa, non è certo un’apologia della coppia ma che fino ad allora si era comunque dimostrato un film sufficientemente propiziatorio. Stessa sorte per l’indimenticabile istante in cui sua figlia gli aveva stretto l’indice con la manina pochi minuti dopo il parto anche se, dietro il vetro della nursery, qualche ora più tardi si era confuso nell’indicare la neonata giusta ai suoceri, tra quelle decine di culle e relativi contenuti tutti uguali. Nessun flashback di quando, durante una terribile pandemia che aveva costretto tutti a casa, era riuscito a far installare da remoto la piattaforma per la DAD ai genitori della sua alunna egiziana, quella che quando non faceva i compiti di matematica, per farsi perdonare, gli portava in classe i dolcetti preparati dalla mamma.

Contro ogni previsione, la pallina del giro finale di roulette si fermò sullo zero, il numero perfetto per un ricordo di questo rango. Il maestro Tobia è bambino e siede sul ciglio di un prato in cima alla collina su cui sorge la sua casa di campagna, all’ora del tramonto di un venerdì sera di luglio. L’erba è umida, gli insetti fastidiosi, l’aria sempre più fresca, è piena estate e non c’è una nuvola in cielo. Tobia scruta il nastro asfaltato della provinciale, giù nella valle, nell’attesa di scorgere la Ford Taunus marrone dei genitori che fanno ritorno dalla città per trascorrere il fine settimana insieme. Al suo fianco le due sorelle quasi adolescenti che chiacchierano di cose che non capisce, la nonna con lo scialle che lo intrattiene in dialetto, il cane Bill. Poi una forma familiare tra le tante automobili sbuca sul primo tratto di strada visibile. È un puntino colorato, piccolissimo e lontano, ma Tobia non ha dubbi.

 

maltempo

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Io sono fatto così. Appena sveglio clicco sulla lente di ingrandimento e, alla voce documenti, avvio la ricerca di una preoccupazione che mi sovrasti. La trovo e, come si fa con i croissant surgelati nel microonde, la tengo al caldo durante le operazioni di routine – la doccia, la barba, la colazione – in modo da assaporarne la fragranza quando salgo in macchina per andare al lavoro. Per fortuna si tratta di piccole cose. Devo chiamare Tizio, devo rispondere alla mail di Caio, mi tocca sollecitare Sempronio e via così. E quando non individuo nulla o la preoccupazione, nella sua fase di scongelamento, si è sgonfiata rivelando la sua inconsistenza – diamine, ero sicuro di averle prese ripiene al cioccolato – seguo le ramificazioni di qualche nota che mi sono appuntato per le giornate in cui il palinsesto di ansie è vuoto. Martedì scorso però qualcosa è cambiato e i più superstiziosi di voi penseranno che me la sono tirata o che c’entra qualcosa o il karma perché, al risveglio, ho trovato un bel po’ d’acqua sul pavimento del salotto. Durante la notte c’era stato un discreto temporale con piogge torrenziali. In più, il mio condominio è nel pieno dei lavori di ristrutturazione – il famoso 110% – e con un tempismo perfetto si trova al massimo della vulnerabilità per alcuni interventi strutturali. Al quarto piano ci sono state vistose infiltrazioni, e così, una volta accertato che per fortuna non avevo subito danni agli arredi, mi sono guardato un po’ in giro per rintracciare sui muri l’origine della perdita senza trovare alcunché. Ho pensato immediatamente alle immagini delle vittime delle alluvioni che passano al TG ogni autunno da quando il clima, in Italia, è radicalmente cambiato mostrando l’inadeguatezza del nostro territorio alle conseguenze del surriscaldamento del pianeta. Gente che, munita di secchi, stracci e badili, svuota i propri ambienti sommersi dai fiumi esondati. Il mio umore, in verità, non è più lo stesso da quando il palazzo in cui si trova il mio appartamento è oggetto dei lavori di riqualificazione energetica. Quando mi appresto a rientrare lo vedo sventrato, infermo, quasi privato della sua anima, e credo che qualunque specie animale provi lo stesso sgomento osservando la propria tana violata. Sono molto affezionato alla casa che ho acquistato insieme a mia moglie perché da vent’anni mi offre riparo. Non credo che me ne andrò mai, che mi sposterò in centro come piacerebbe a mia figlia per poter vivere più in prossimità dei suoi amici, che un giorno cercherò qualcosa di più piccolo o di più grande. Dopo aver asciugato la pozza che si era inspiegabilmente formata tra divano e libreria senza però bagnare nulla – forse nella notte si è allagato il balcone ed è entrata dell’acqua dalla porta finestra, non saprei dare altre spiegazioni – mi sono recato come sempre al lavoro, consapevole di ciò su cui avrei riflettuto ascoltando la radio, lungo il tragitto. È stato sufficiente adocchiare i manifesti elettorali al primo semaforo, lungo il percorso, per ottenere una rielaborazione della scala delle priorità. È subentrata, infatti, una preoccupazione ancora più grande della casa in cui vivo, esposta a rischio allagamento. Quella di appartenere a uno stato e a un tempo guidato da una premier e da una maggioranza post fascisti. Il mio pensiero è andato immediatamente al regime, alla guerra, agli appartamenti delle persone come me bombardati e alle peggiori condizioni di vita che mai avrei pensato si potessero verificare.

certificato di proprietà

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Secondo la signora Cinzia i tavolini all’aperto del Bar del Dom sono il più bell’angolo del paese e quando lo dice alla sua amica che fa la cameriera lì sfonda porte aperte. Certo, in giro non c’è granché e quindi ci vuole poco a proclamare leader dal punto di vista paesaggistico il locale in cui sto trascorrendo la pausa pranzo in attesa del tecnico che venga a spostare un access point dal secondo piano della scuola alla palestra. In quei pochi metri quadri di dehors a ridosso dell’ingresso è riconosciuta, a detta degli unici avventori oltre a me, in prima istanza la posizione sulla direttrice di un corridoio ventilato che proviene dalla campagna circostante e che ha reso gradevole i pasti lì anche durante il caldo porco delle scorse settimane. In più, l’anomalo angolo che il marciapiede forma consente una privacy senza confronti rispetto alla piazza che è poi il centro del paese.

La signora Cinzia si accompagna con due giovani adulti dalla parlata dell’est Europa. Sono troppo dimessi per essere albanesi ma non per questo mi ricordano l’idraulico a cui avevo venduto la Ford Escort SW quasi vent’anni fa. Erano bastate un paio di telefonate pochi minuti dopo l’annuncio che avevo pubblicato su un sito di compravendita di seconda mano e, il giorno dopo, il mio acquirente si era presentato con una mazzetta di contanti – evidente frutto del suo operare in nero – che così spessa non l’avevo mai vista. Anzi no. Avevo dismesso un appartamento in affitto in cui vivevo da solo, poco prima di sposarmi. Non c’ero mai e gli addetti alla lettura del gas – mica esistevano ancora i contatori smart e tutte quelle diavolerie lì, almeno nel terzo mondo in cui avevo la residenza – non riuscendo a trovarmi in casa non potevano far altro che registrare letture approssimate agli standard di utilizzo che avevo segnalato alla firma del contratto. Solo che, di gas, ne consumavo molto di meno. Chiusa l’utenza, l’impiegato allo sportello della municipalizzata mi aveva rimborsato l’intera cifra di quanto avevo versato in più rispetto ai consumi. Mi ero trovato così tra le mani una busta piena di banconote – non ricordo quanto ma erano più di un milione di lire – ed è da allora che nutro una forte repulsione per il cash che mi fa pagare con le carte di debito o di credito anche le cose che costano meno di 50 centesimi.

Comunque l’affare della Ford Escort si era concluso nel migliore dei modi. C’eravamo rivolti a un’agenzia a poche centinaia di metri da casa mia, quattro firme, una stretta di mano e chi si è visto si è visto. Alla signora Cinzia non è filata così liscia. Le circostanze del convivio che si sta consumando a pochi metri dalle mie trofie con zucchine e speck sono identiche alla storia che vi ho appena raccontato. Da quello che percepisco è l’italiana a vendere e i muratori dell’est a comprare. Basta guardare oltre la siepe del dehors e si vede il centro automobilistico da cui si stanno servendo.

L’intoppo è comune a tutti quelli che improvvisano questo genere di transazioni. Il certificato di proprietà, che fino a poco tempo fa era su un documento separato rispetto al libretto, non si trova più e quindi i tre, per chiudere l’affare, sono costretti a rivolgersi ai Carabinieri, fare la denuncia, tornare all’agenzia – che alle 13 ha chiuso, giustamente – quindi finalmente a ufficializzare il passaggio del bene.

Dalla conversazione che sento risulta che il più giovane dei due uomini ha lasciato che l’altro sposasse sua sorella, una concessione che in certe culture bisogna andarci con i piedi di piombo. Quello che è quindi suo cognato a tutti gli effetti ha preso una birra media e tanto, da quel che sembra, non pagheranno loro. La signora Cinzia intanto si informa sui postumi dell’operazione a cui si è sottoposta la sua amica cameriera, uno di quegli interventi in cui ti asportano un pezzo di qualcosa che ti permette di dimagrire all’istante. Io non voglio sentire i dettagli così mi adopero per finire la seconda bottiglia da mezzo litro di acqua gassata, fa caldo e il non aver bevuto nulla in mattinata – per giunta dopo la corsetta all’alba – mi ha provocato una sete epica. Come se non bastasse, la cameriera indossa una specie di sottoveste ma forse sono io che non sono al passo con i tempi in fatto di moda.

La signora Cinzia non è giovanissima ed è visibilmente sovrappeso, per questo non ritengo corretto che la cameriera insista a convincerla a imitare la sua scelta. Secondo lei basta sottoporsi per un mese a una dieta radicale – parla di petto di pollo alla piastra e verdure grigliate ad libitum – per essere pronti a entrare in sala operatoria. Anche i due muratori intervengono. Il più giovane se la cava bene con l’italiano, la discussione comporta la conoscenza di una terminologia di un certo livello e noto una certa disinvoltura. L’altro fuma, beve la sua birra, spippola con lo smartphone e costruisce qualche frase stentata ma di sicuro effetto.

Mi sembra evidente che i tre si sono trovati a pranzo per ingannare l’attesa della riapertura dell’agenzia automobilistica. La signora Cinzia si rammarica una seconda volta di aver smarrito il certificato di proprietà fino a quando, da uno di quei raccoglitori in plastica che conserviamo nel cruscotto insieme al manuale del veicolo e che non si capisce come ma, nel corso della vita della nostra auto, ci finiscono interi decenni di tagliandi di assicurazioni, bolli auto e dichiarazioni di constatazioni amichevoli, il certificato di proprietà miracolosamente salta fuori. Quel pranzo obbligato avrebbe potuto non svolgersi mai. Anche se alla signora Cinzia piace chiacchierare i compagni di tavolo probabilmente ne avrebbero fatto a meno. Quando mi alzo per pagare, loro che erano già lì quando sono arrivato stanno ancora aspettando l’amaro. A mangiare da soli nei locali pubblici siamo sempre troppo veloci, e a nessuno è ben chiaro il perché.

sequencer, campionatori e puttanate varie

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Una delle prime raccolte di racconti che ho scritto si chiamava “Sequencer, campionatori e puttanate varie”, un titolo indiscutibilmente alla portata di una unica categoria di persone, gli addetti ai lavori dell’ambiente musicale, che deriva dal modo in cui un cantante sassofonista con cui ho condiviso il palcoscenico diverse volte in un periodo circoscritto della mia vita demonizzava il rapporto tra tecnologia e musica.

I sequencer e i campionatori sono state tra le prime macchine ad affermarsi nel settore come ausilio per chi suona, nel corso degli anni ottanta. Non sto a spiegarvi nei dettagli la loro funzione perché ha un ruolo meno che marginale in questa storia. Potete però immaginare il sequencer come un hardware dedicato da collegare alle tastiere e ai sintetizzatori, sul quale è possibile memorizzare linee di note e accordi da inviare come input per pilotare e far suonare gli strumenti da soli, mentre i campionatori – più evoluti – permettono di registrare suoni (della durata variabile a seconda della memoria di cui sono provvisti) per poi riprodurli tali e quali o modificati. Oggi tutto questo è stato soppiantato dal computer, per questo posso affermare che la persona che si riferiva alla tecnologia musicale banalizzando l’evoluzione del settore attraverso dispregiativi ed epiteti generalizzanti ci aveva però visto lungo, perché sottintendeva il fatto che, prima o poi, le macchine avrebbero fatto piazza pulita del ruolo umano nella musica.

E, se ci pensate bene, è andata proprio così. La trasformazione digitale ha spazzato via l’industria musicale in un modo così ingegneristico da far sembrare ciò che è accaduto frutto di una metodicità senza precedenti, una sorta di soluzione finale, una vera e propria opera di pulizia artistica. L’evoluzione tecnologica, tra i numerosi impatti nel settore che ha generato, ha svilito la musica rendendola così facilmente fruibile e ordinaria e così a portata di mano da far risultare superfluo ogni tipo di intrattenimento basato su di essa, aspetto che invece prima costituiva un’eccezionalità che un ascoltatore o spettatore era disposto a pagare in quanto momento d’incontro tra domanda e offerta, proprio come nelle dinamiche di mercato di un qualsiasi altro processo produttivo ed economico che comporti la creazione e la conseguente vendita di un manufatto.

Ma non voglio metterla su un piano etico, non mi sembra questo lo spazio adatto. Di certo, quando sequencer e campionatori (e puttanate varie) non costituivano ancora una minaccia a un mestiere più che dignitoso e assumevano ingenuamente solo le sembianze di apparecchiature di ultima generazione in grado di facilitare l’esercizio di una professione, quello del musicista era un lavoro come tanti altri. Certo, per arrivare al successo ci voleva molto studio, sacrificio, talento, determinazione, una gran faccia tosta spacciata per carisma e un pizzico di fortuna. Invece era sufficiente un po’ di tecnica e di serietà per poter essere ingaggiato in un gruppo ed esibirsi – pagato in nero o con regolare contratto e contributi versati – nelle sale da ballo, nelle manifestazioni come le sagre di paese e vari festival dei partiti politici, fino ai locali con intrattenimento dal vivo e i pianobar, o i ristoranti e gli alberghi che organizzavano eventi come matrimoni, veglioni di fine anno e feste di vario tipo.

Questo sottoinsieme di semiprofessionisti dello spettacolo era costituito da figure riconducibili alla categoria degli operatori dei servizi alla persona di strutture ricettive e turistiche, lavoratori accomunati ad altri come il personale di sala e i camerieri, a partire nell’utilizzo delle divise da lavoro fino al fatto di avere turni coincidenti con il tempo libero altrui, al servizio cioè di persone in momenti in cui chi fa un lavoro ordinario ricerca lo svago con i suoi cari. In generale, un fattore lesivo della dignità del musicista, aggiunta di competenze specifiche in campo artistico finalizzate al divertimento e all’esperienza emotiva (possibilmente piacevole) dell’utenza finale.

Ma questo non costituiva un problema: l’importante era portare a casa, a fine serata e indipendentemente dal genere musicale richiesto ed eseguito, il compenso pattuito con gli organizzatori. I gruppi con almeno quattro o cinque elementi erano identificati come orchestre, e i loro componenti definiti addirittura orchestrali proprio come quelle signore in abito da sera o quei signori in giacca e papillon che calcano il palcoscenico dei teatri con qualcuno che li dirige e non chiedetemi il perché. Si suonava principalmente musica da ballo – liscio, dance, latino/americano – e, in casi particolari, canzoni da ascolto attivo, da meditazione o da sottofondo neutro per altre attività.

Gli spettacoli prevedevano una sigla iniziale e una finale e, malgrado i membri fossero poco meno che mercenari pronti a cambiare casacca per un ingaggio superiore e condizioni più convenienti, ci si arrogava dignità proponendosi con un nome in grado di trasmettere l’essenza e la vision stessa del progetto in sé. Nel corso di circa dieci anni ho suonato:

  • nel Pentagono (costituito cioè da cinque elementi)
  • nell’Equipe dell’Allegria (che doveva recare spensieratezza attraverso il ballo)
  • nei Veterani del Folk (ottuagenari con qualche occasionale giovane rincalzo in caso di decesso dei membri fondatori)
  • e negli Idea Fissa (gente di mezza età che dovrebbe occuparsi di attività come tutte le persone normali ma che, invece, ancora si sbatte ossessivamente mossa da una passione malata e compulsiva per la musica per trovare date e mostrare la propria tecnica virtuosistica o, peggio, il proprio talento, a un pubblico totalmente disinteressato),

al netto di decine di combinazioni ed ensemble temporanei. Le formazioni variavano così a seconda della specializzazione e altri fattori, ma in genere comprendevano una sezione ritmica, tastiere (con puttanate varie a corollario, ça va sans dire), fisarmonica, chitarra, uno o più strumenti a fiato, in un caso ho trovato in formazione addirittura un violinista in pensione – un malato di mente che si conciava da ufficiale nazista in missione nel deserto – una o più voci femminili e una o più voci maschili.

Agli albori lo presi come un lavoretto per pagarmi gli studi all’università ma poi, acquisita dimestichezza, esperienza e soprattutto assuefazione ai soldi facili, mi ci sono dedicato fino ai tempi della mia prima vera occupazione in parallelo, come forma aggiuntiva di arrotondamento per il magro stipendio ufficiale e l’obiettivo di dare maggiore sicurezza alla mia indipendenza, ancora acerba. Rientravo dalle serate poco prima dell’alba e alle nove ero in ufficio, pronto a macinare codice software.

Ed è stato proprio il leader fondatore del Pentagono, la prima delle orchestre di musica da ballo in cui ho militato, l’artefice dell’attacco luddista che ha ispirato diverse storie tra cui questa, una farneticante crociata contro i dispositivi rei di retrocedere in secondo piano lo spessore artistico del musicista. Nei battibecchi frequenti in cui ci siamo confrontati prima e dopo le esibizioni – ammettevo spudoratamente la provvisorietà e la precarietà di quel primo impiego mentre lui, nella vita reale un venditore ambulante di abbigliamento di un paio di generazioni più grande di me e appassionato di canzoni dialettali, intendeva l’orchestra come una sorta di missione – di rimando pensava di ferirmi soffiando sul fuoco del senso di colpa di suonare le tastiere con una mano sola (la destra) e temeva, molto probabilmente, che il mio approccio asimmetrico e poco tradizionale allo strumento fosse propedeutico all’introduzione di un supporto tecnologico in grado di provvedere, in modo automatizzato, alle parti mancanti. Gli anni ottanta erano quasi alla fine ma evidentemente, a causa della sua presunzione – tipica di chi fa i distinguo tra generi di serie A e generi di serie B – si era perso tutta la cultura synth-pop e la relativa estetica del decennio oramai agli sgoccioli.

Nonostante questo, a fine estate, anzi proprio dopo aver smontato strumenti e impianto di amplificazione dell’ultimo spettacolo della stagione con lui e la sua orchestra prima di partire per una piccola vacanza con Ornella – avevo già avvisato con dovuto preavviso del fatto che avrei archiviato, dopo l’esecuzione della sigla finale di quella sera, la mia prima esperienza di orchestrale per motivi che non vi sto a spiegare, anche perché, detto tra noi, non li ricordo nemmeno io – mi aveva ugualmente anticipato la paga (si guadagnavano almeno centomila lire a esibizione che venivano corrisposte al termine di quella successiva) in modo da chiudere i conti e consolidare il budget a disposizione per il mio viaggio romantico.

Ornella ed io avevamo prenotato un treno notturno con destinazione Lago di Garda per quella notte stessa in cui mi ero accomiatato dagli altri orchestrali. A vent’anni si sceglievano i luoghi da visitare per sentito dire o perché ci si era già stati da piccoli con i genitori. Non so cosa cercassimo Ornella ed io nel Lago di Garda se non il fatto che c’era l’acqua, una finta casa di Catullo e altra paccottiglia da tedeschi in campeggio. Non ho idea nemmeno di come avessi fatto a trovare l’albergo, senza Internet. Probabilmente scartabellando le pagine gialle locali del centro SIP pubblico più vicino e facendo innumerevoli e costose trattative in interurbana per poi confermare la scelta alla struttura con il miglior rapporto numero di stelle-prezzo.

Il treno notturno per Peschiera del Garda era stipato all’inverosimile di ragazze e ragazzi che andavano in quella direzione e, ancora oggi, non saprei dare una spiegazione della presenza di tutti quei giovani. Non credo proseguissero per Venezia – una meta ancora meno in target della mia – e non era certo quella la direttrice per raggiungere altri luoghi ben più ambiti come Amsterdam o Londra. Forse era una vacanza trendy. Anche la scelta stessa di viaggiare di notte si rivelò tutt’altro che intelligente, e l’avremmo pagata il giorno successivo dopo esser stati svegli in un vagone gremito di gruppi di coetanei che, a differenza nostra che eravamo due fidanzatini che scimmiottavano in versione cheap le coppie di adulti, stavano cogliendo in pieno i vantaggi del loro status anagrafico.

Ornella ed io soggiornammo in una camera fatiscente (Ornella perdonami, io la ricordo così) per nemmeno una settimana, i soldi non erano granché. Non saprei dire come riempissimo le giornate in un luogo turistico così scadente e anonimo, come ci muovessimo per visitare le località turistiche sul lago più prossime o dove e cosa mangiassimo. Ci documentammo però per trascorrere una serata in discoteca. Da qualche informazione raccolta presso gente del posto individuammo quella che doveva essere la più adatta alle nostre esigenze che, in fatto di musica, non erano certo facilmente accontentabili, sotto questo punto di vista sono stato sempre intransigente. La discoteca si chiamava Ics e la vedevi da distante perché, dalla sua pista all’aperto, si levavano alti verso il cielo due fasci di luce a formare la lettera suggerita dal nome. Un vantaggio per chi, come noi, doveva raggiungerla a piedi dal centro della cittadina, che compensava solo in parte il disagio, a fine serata, di affrontare il lungo percorso a ritroso al buio, a notte inoltrata, lungo strade extraurbane tutt’altro che sicure percorse da automezzi che sfrecciavano a tutta velocità, questa volta non guidati da alcun riferimento luminoso.

Il dj aveva aperto con la Batdance di Prince, fresca di pubblicazione, che ritenemmo accettabile ma solo perché eravamo in vacanza, ma per il resto ricordo che avevamo valutato più che insoddisfacente il seguito della selezione, giudizio che ci fece percepire inadeguato l’esoso costo del biglietto d’ingresso. Delusi, verso la fine della serata assistemmo però all’esibizione involontaria di un avventore tutto vestito di bianco e completamente pelato, non più giovanissimo, appartato a ballare da solo, incurante dei curiosi, come se lo stesse facendo unicamente per un intimo compiacimento. I fari avveniristici del locale mettevano in risalto il vapore che irradiava dalla sua testa lucida come una palla da biliardo.

Trascorremmo addirittura la vigilia del rientro a casa in un parco aquatico nelle vicinanze, provvisto di servizio navetta dalla base del nostro soggiorno. Il tempo non era dei migliori ma, malgrado il cielo coperto, tutte quelle ore senza un riparo a sfruttare al massimo le attrazioni del posto mi costarono un’insolazione con i fiocchi. La notte, nel letto, i brividi e i consueti deliri da febbre alta mi tolsero il sonno. Quella sarebbe stata comunque l’ultima estate insieme, per me e Ornella. In quel tempio del divertimento liquido colsi diversi segnali della sua smania di evasione dalla rigidità della coppia, tra la coda per la fruizione di uno scivolo acrobatico e un successivo tuffo nella piscina con le onde artificiali, a conferma del fatto che fosse tutt’altro che votata a un rapporto così esclusivo, almeno come lo intendevo io.

Un paio di anni dopo, conseguita la laurea rigorosamente fuori corso a causa anche del servizio militare portato a termine durante gli studi, la necessità di sbarcare il lunario in attesa della occupazione definitiva si trasformò in un’urgenza e fu allora che, per un breve periodo, mi convinsi che quella del musicista si sarebbe potuta dimostrare ancora una fonte di guadagno sufficiente a garantirmi uno stile di vita come tutti gli altri. A distanza di anni, non capisco davvero come sia stato possibile che abbia potuto pensare, anche solo per un istante, di vivere di musica e, soprattutto, di quel genere di musica. Riuscivo però a procacciarmi diverse serate a settimana con varie formazioni, a partire dalle esibizioni in duo nei pianobar. Sapevo però che, con le orchestre ben organizzate, le opportunità di guadagno erano superiori. Avevo persino ripreso a studiare pianoforte e fu proprio il mio insegnante, a cui ero stato indirizzato da un amico musicista per preparare l’esame di quinto anno al conservatorio, a propormi di entrare in pianta stabile nei Veterani del Folk, un’orchestrina di liscio guidata da suo padre.

Inutile dire che quella si rivelò una delle situazioni musicali più assurde in cui mi sia mai trovato in vita mia, e tutto per la mia scarsa determinazione a dire di no subito alle proposte quando non mi convincono appieno. L’età media dei membri superava abbondantemente i settantacinque anni. Il cantante si atteggiava a crooner di una volta ma sfoggiava una pronuncia inglese dal forte accento ligure. Al trombettista e al sassofonista non si poteva stare vicini, con tutte le schifezze che spruzzavano attraverso le tubature dei loro strumenti a fiato prima, dopo e durante i pezzi, che poi – non so se avete presente – è il lato meno romantico degli ottoni. Il batterista era sordo e fiaccato dai più diffusi problemi motori tipici delle persone anziane. In quanto membro più giovane, mi posizionavano al centro del palcoscenico anche se non ero certo il front-man e malgrado avessi tentato di convincerli che la specificità della loro formazione, quella di avere tutti un piede nella fossa, poteva costituire l’elemento di massimo richiamo da un punto di vista marketing per ottenere, di conseguenza, il maggior successo presso il pubblico.

Ai tempi stavo con Adriana ma alla fine poi ci siamo lasciati perché lavoravamo entrambi fino a tardi. Lei faceva la bar-woman in un locale che andava per la maggiore, che poi era anche l’unico decente della zona e tutti, giovani e meno giovani, si incontravano lì. C’era il pienone a cena, quindi gli avventori si spostavano di là nel discobar e arrivavano clienti da ogni dove. A parte la sera di chiusura si faceva sempre l’una o le due di notte, le tre o le quattro nel fine-settimana, e con il fatto che il locale era fuori dal centro abitato nessuno si lamentava per il baccano. I proprietari erano amici dei carabinieri del posto, ma, insomma, non c’era mai stato nessun problema. E lei se ne guardava bene dal muoversi da lì, l’ambiente non era male e, dietro quel bancone, ci stava volentieri.

Io, quando mi presentavo agli sconosciuti, dicevo di fare il musicista, ma i musicisti non è che possono scriversi la professione sulla carta di identità a meno di non essere musicisti con i fiocchi, altrimenti ti imbarazza avere quel marchio lì che poi quando te lo vedono non sai come giustificarlo. Anche io lavoravo fino a tardi, anzi più tardi, perché magari finivo una serata con i Veterani chissà dove e poi dovevo ancora rientrare. Ma c’era un bar che rimaneva aperto tutta la notte, in cui Adriana ed io ci davamo appuntamento. Eravamo amici del titolare, e trascorrevamo quelle poche ore residue prima dell’alba seduti nella penombra con le facce distrutte dal tenore di vita, circondati dall’undergound umano di provincia, fino alla colazione. Il giorno, invece, ce ne stavamo chiusi nelle rispettive abitazioni (vivevamo entrambi ancora con i rispettivi genitori) a riposarci e a fare altro, leggere, esercitarci nelle attività preferite, migliorare le nostre professionalità. Fare i cocktail, lei. Studiare pianoforte e imparare pezzi nuovi, io.

La notte di capodanno è stata l’apoteosi, potete immaginarlo. Lei aveva lavorato fino alle cinque, io avevo staccato un po’ prima perché avevamo trovato un ingaggio in un albergo frequentato da anziani come gli altri Veterani, di quelli tutti vispi ma che oltre le due proprio non reggono. Avevo smontato la mia parte di attrezzatura, avevo salutato i colleghi ed ero andato ad occupare la panca del solito bar notturno ad aspettare lei, più sfinito del solito, in più vestito da suonatore da capodanno. Usavamo delle camicie di seta di colori sgargianti, la mia era magenta, con una cravatta nera e pantaloni con le pinces. Adriana si presentò che quasi albeggiava, con il trucco sfatto e conciata da barista da capodanno. Ci trattenemmo lì per un po’, il solito cappuccino, e il proprietario del bar notturno, per festeggiare l’anno nuovo, ci scattò una foto di coppia, o almeno di quello che ne rimaneva. Poco dopo ci avviammo per trascorrere qualche ora nella mia auto, con il riscaldamento acceso, ma, trovato un punto appartato, ci addormentammo abbracciati pressoché all’istante. E al risveglio, guardandoci reciprocamente riflessi nel disfacimento altrui, ci rendemmo conto che basta, non si poteva andare oltre. È sopravvissuta nel tempo solo la foto, che è rimasta appesa per tanti anni in quel bar da nottambuli, in una bacheca con i saluti votivi di tutti gli amici del locale, e forse si può vedere ancora adesso. Tra tutta quella gente sorridente in eccesso e qualche bellezza locale ammiccante di alcool, non è difficile notare un ritratto un po’ meno appariscente, con due teste appoggiate l’uno all’altra, ma non era amore, era solo stanchezza.

Le cose, per fortuna, hanno preso poi una nuova forma con L’Equipe dell’Allegria. Lavoravo in una software house, vivevo finalmente da solo e facevo le cose altrettanto seriamente con Claudia. Per garantirmi maggiore sicurezza economica ci ero ricascato, con le orchestre, ma la formula era completamente differente rispetto alle esperienze precedenti. L’Equipe dell’Allegria era molto più strutturata rispetto ai gruppi in cui avevo militato prima, con tanto di impresario, furgone e autista. La nostra base era in provincia di Asti e il raggio di spostamenti era molto più ampio e copriva Piemonte, Lombardia-Milano e Liguria. Io avevo preso casa in affitto nel centro storico di Genova e potevo contare su un’automobile di proprietà che mi consentiva di farmi trovare nei punti di incontro con gli altri componenti per ottimizzare le trasferte. Avevo comunque un impiego più o meno sicuro con orario fisso da onorare, questo indipendentemente da quando rincasavo in caso di esibizioni infrasettimanali.

Ma la cosa più difficile era conciliare questo regime di vita con una situazione sentimentale estremamente complicata. Claudia non condivideva il fatto che avere un doppio lavoro potesse essere funzionale a un futuro di vita in comune, probabilmente perché non era interessata a un futuro di vita in comune. Il problema era che poter arrotondare, per me, era anche una risposta alle esigenze a breve termine, e non solo lavorare per il lungo periodo. Così, nonostante i due neo-sposini nostri migliori amici (e consulenti ufficiali di coppia) che frequentavamo spesso nelle classiche sortite in quattro – agli antipodi rispetto a noi sotto numerosissimi punti di vista – vedessero molto positivamente l’abnegazione con cui tentavo di costruire una base utile a sorreggere un progetto familiare, in diverse occasioni il mio entusiasmo per una condizione economica più agevole si trovava paradossalmente in contrasto con la sua accusa di non sfruttare quel benessere transitorio per migliorare la qualità della vita in comune nell’immediato.

Il problema era anche che L’Equipe dell’Allegria faceva sul serio, e il fatto che il batterista avesse piantato in asso la moglie per mettersi con l’avvenente cantante solista era la minore delle questioni. Il capo orchestra, un sedicente virtuoso della fisarmonica, aveva persino pubblicato un pezzo dal ritmo caraibico per sfondare nel mercato delle grandi orchestre di intrattenimento, per il quale si era persino resa necessaria la registrazione un videoclip. Il gruppo al completo in una sala da ballo noleggiata ad hoc, ripreso a suonare e cantare in playback il brano. Nel video ero stato inquadrato più volte e, malgrado Youtube non fosse stata ancora inventata e Internet risultasse appannaggio di pochi nerd smanettoni, il rischio di viralità tramite il passaparola fisico nell’ambiente esclusivo frequentato dagli amici di Claudia avrebbe potuto mandare in frantumi quello che restava della mia autostima. Ancora una volta lasciare scorrere le cose fu una strategia vincente. Pochi mesi dopo la prima messa in onda del brano in una tv locale accettai una proposta per trasferirmi a Milano per lavoro, un’occasione sufficientemente remunerativa per cambiare completamente vita. Un’ottima scusa per abbandonare definitamente il settore delle orchestre da ballo e fuggire da quello delle fidanzate snob e poco lungimiranti.

Mancano solo gli Idea Fissa, in questa storia il cui espediente narrativo è, lo avrete capito, abbinare orchestre e periodi di vita con esperienze sentimentali altrettanto disastrose a corollario. Ho fatto il mio primo concerto in terza media e, da allora, ho suonato ininterrottamente fino a qualche anno fa. Che di tutta la mia pseudo carriera musicale ci fosse solo una testimonianza video vestito con una camicia a fiori e intento a far finta di suonare una specie di salsa era sinceramente troppo. Non me lo meritavo. Della stessa convinzione erano altri due membri dell’Equipe dell’Allegria. In quei mesi precedenti alla mia fuga dalle sale da ballo ci convincemmo così che un gruppo di musica più seria potesse essere altrettanto redditizio. Decidemmo di dare vita a uno spin-off coinvolgendo un paio di altre vecchie conoscenze per cercare di suonare in giro musica divertente ma, allo stesso tempo, di valore. Non so perché ma diedi, come al solito, una disponibilità cieca e inevitabilmente impossibile da mantenere al concept. Facevo già il copywriter e il nome stesso fu farina del mio sacco. Smanettavo con Photoshop, con il quale realizzai anche il logo e i layout per il materiale pubblicitario che, spinti da non so quale smania di emancipazione, facemmo stampare ancora prima di mettere a punto il repertorio. Va da sé che gli Idea Fissa non trovarono nemmeno una data live. Il progetto si estinse nel giro di qualche settimana, principalmente a causa del mio improvviso disamoramento all’ambiente e a Claudia, ai compagni di avventura, a un passato che volevo gettarmi alle spalle, a una sovraesposizione a una passione così totalizzante da rendere necessario un percorso di riabilitazione successivo per rimettersi in sesto, ai trent’anni che avevo appena superato. Ricordo solo il rotolo di manifesti con il logo – una composizione delle due parole che formavano il nome – che la stamperia recapitò nel box che impiegavamo come sala prove. Un monogramma metà bianco e metà nero reso con un font di sistema in grassetto in cui si leggeva a chiare lettere che non c’era nulla, proprio nulla, che potesse funzionare.