black midi – cavalcade

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Immaginate di approcciare una ragazza. «Ehi ciao, hai sentito il nuovo singolo dei Black Midi? S’intitola Chondromalacia Patella». Se vi va di sfiga e la tipa mastica il latino, avete appena servito su un piatto d’argento la migliore scusa per farvi rilasciare un due di picche da manuale. «Si dice Chondromalacia Patellae, è un genitivo della prima declinazione». Ma anche se siete fuori target per chi ha fatto il liceo o si è laureato in medicina, quale appeal pensate possa avere un tentativo che sottende un non-detto del tipo «Vuoi salire da me a vedere la mia collezione di dischi di prog-jazz»?. «No guarda, non posso, sto andando a sentire un amico che suona in una tribute band dei Måneskin».

Insomma, sembra che nel 2021 ci siano tutti i presupposti affinché ritorni in auge una dinamica antica quanto il rock, in grado di minare la vita sociale dei consumatori di musica leggera. La mia generazione è piena di appassionati di musica considerati da adolescenti degli sfigati perché legati ai retaggi dell’Elektric Band o dei Weather Report mentre tutto il mondo si spostava sotto il palco dei Duran Duran. Corsi e ricorsi storici. E così, oggi, “Cavalcade” è un nuovo esempio di quei dischi da ascoltare da soli, chiusi in casa, e di cui è meglio ometterne il possesso con gli amici per non destare preoccupazioni, per non parlare di chi è riuscito a mettere le mani sulla versione a tiratura limitata comprensiva dei flexi-45 giri con i rifacimenti – alla Black Midi – di canzoni che spaziano da Taylor Swift ai King Crimson.

Il fatto è che è impossibile non mettere a confronto “Cavalcade” con “Schlagenheim”, sarebbe ingiusto verso tutte le band che esplodono con un disco d’esordio epocale e poi si cimentano con il secondo album, universalmente riconosciuto come il più difficile della carriera. Il primo lavoro dei Black Midi poteva infatti essere frainteso come un disco da sfigati di cui sopra, ma la significativa componente post-punk, frutto di un “cantato” (cantato molto tra virgolette) degno di John Lydon con i PIL, riportava l’album in quota musica sì di nicchia ma da alternativi fighi. Non caso, “Schlagenheim” ha fatto piazza pulita della concorrenza nelle classifiche del 2019.

Nel frattempo, il chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin si è preso una pausa per problemi di salute e il suono della band di South London si è arricchito (ma qualcuno dice appesantito) di cose come il sax e violino. In più, il retrogusto no-wave ha lasciato spazio a qualche scelta di maniera alla funky-noise-Primus, per capirci, spostando il baricentro verso la tecnica a scapito dell’estro, il che cambia sicuramente le carte in tavola e obbliga l’acquirente a sintonizzare meglio la predisposizione all’ascolto.

Ma non è solo questo il plot twist di “Cavalcade”, considerando che nel disco trovano spazio anche il mood da Burt Bacharach di “Marlene Dietrich”, la fusion un po’ fighetta di “Slow”, il corpo sinfonico di “Diamond Stuff”, il prog di “Ascending Forth”. Il disco va seguito lungo uno slalom stilistico che, aggiunto alle traiettorie strampalate dovute ai continui stop and go, salti di tempo e cambi di riff, porta l’esperienza a un appagante stremo fino a un epilogo felicemente estenuante. Si fatica ma la sensazione finale è piacevole, come quando si supera a pieni voti un esame laboriosissimo o quando si rientra dopo un allenamento super-intenso e fanno male tutti i muscoli.

Se è vero che, a fare le cose un po’ improvvisate e di pancia come in “Schlagenheim” i Black Midi avrebbero corso il rischio di annoiarsi (lo dicono loro, eh), il proposito di affrontare lo sforzo compositivo con maggior rigore e più testa questa volta di sicuro è stato rispettato. L’indiscutibile varietà di atmosfere di cui si pervade il disco va così a colmare proprio quella lacuna di genuinità che si riscontra sovrapponendo i due primi capitoli della band di Geordie Greep. Nell’insieme, comunque, “Cavalcade” resta un’opera monumentale e lascia l’impressione che sia solo il preludio di qualcosa di ancora più estremo.

blasfemia

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Nel video di “7 miliardi”, un brano da 17milioni di visualizzazioni, il cantante Massimo Pericolo, nell’ordine:

  • brucia la sua tessera elettorale
  • fa un riferimento esplicito al consumo di droga
  • fa un secondo riferimento esplicito al consumo di droga
  • esprime un concetto ampiamente offensivo per il genere femminile, a parole e con un gesto eloquente
  • insulta le forze dell’ordine
  • istiga all’abuso di alcolici
  • esprime un secondo concetto ampiamente offensivo per il genere femminile
  • fa un terzo riferimento esplicito al consumo di droga
  • parla di suicidio
  • bestemmia
  • dice fanculo accompagnato da un gesto dal significato analogo
  • fa un quarto riferimento esplicito al consumo di droga
  • mostra nel video un quinto riferimento esplicito al consumo di droga
  • fa un sesto riferimento esplicito al consumo di droga
  • esprime a parole e a gesti un terzo concetto ampiamente offensivo per il genere femminile
  • incita all’antipolitica

Di tutto questo, l’unica cosa occultata e censurata nel video è la bestemmia. Ma anche se cercate il testo su Google.

voce del verbo rockare

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Chissà se Renato Serio e Romolo Siena, autori di “Ti rockerò”, successo di Heather Parisi pubblicato nel 1981 e classificatosi al settimo posto dei singoli più venduti dell’anno, sono consapevoli di aver composto l’unica vera risposta plausibile a “We Will Rock You” dei Queen. La questione sembrava averla già chiusa Eugenio Finardi con l’album “Roccando Rollando” nel 1979, anche perché il film “Rocco e i suoi fratelli” del 1960 giocava un altro campionato, ma è evidente che coniugare il verbo rockare con la sua coniugazione non è cosa semplice.

una cantonata

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Devo ammettere che quest’anno, con Sanremo, ho preso più di una cantonata. Una débâcle che suona come un campanello d’allarme per uno che fa vanto della sua capacità di cogliere al primo ascolto una band o un’artista promettente e un brano di sicuro successo come il sottoscritto. Se date un’occhiata ai giudizi che ho messo a caldo quest’anno avrete capito di cosa sto parlando. Nei venti minuti scarsi di auto che separano casa mia da scuola non passa viaggio sia di andata che di ritorno in cui non senta almeno due volte, facendo zapping con la radio, “Voce” di Madame e “Musica leggerissima” di Colapesce e Dimartino. A differenza di quanto accade le altre volte, la sovraesposizione mi ha permesso di apprezzare le qualità di entrambe le canzoni e mi suona strano averle bistrattate, nel corso delle serate del festival. Non voglio andare a rileggere che cosa ho scritto ma sono sicuro di averle stroncate senza pietà. Anzi, fatemi una cortesia, leggete voi qui e qui per me e poi ditemi. Ora, è successo che ieri sera i Maneskin, non paghi della vittoria a Sanremo e degli svariati milioni di ascolti accumulati su Spotify, abbiano sbancato anche l’Eurovision o come si chiama. Sapete come funziona, vero? L’Eurovision accoglie i progetti più bizzarri dell’industria musicale. Questo perché i paesi europei, ma dalla tradizione musicale agli antipodi di quella europea, mandano band e artisti che dalle nostre parti, noi che siamo registrati su livelli qualitativi di ben altra scala, verrebbero a malapena impiegati nei siparietti comici delle puntate dedicate ai partecipanti esclusi dei talent show. Avente presente? Di conseguenza in UK non è che possono mandare John Newman. Al massimo iscrivono il fratello scarso, come quest’anno, quello che ha preso zero punti. È un po’ come alle olimpiadi, quando ci lamentiamo del fatto che non partecipa la nazionale di basket con i mostri dell’NBA. Questa è la ragione per cui, continuando con la stessa metafora, i Maneskin ci fanno la figura di Steph Curry e centrano il primo posto. Oggi mi sono così trovato a canticchiare sono fuori di testa ma diverso da loro più volte. Ed è per questo che ho pensato che, quest’anno, con Sanremo, ho preso più di una cantonata. Ma con i Maneskin non mi sono sbagliato.

le barricate in piazza le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso

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Io spero che da morti ci sia la possibilità di portare con sé, qualunque sia la destinazione, i propri dischi preferiti. Allo stesso modo mi sentirei davvero al sicuro se i cantautori che non ci sono più sentissero, nell’empireo in cui si trovano ora, il calore dei loro sostenitori sulla terra. De André, Ivan Graziani, Lucio Dalla, Claudio Lolli e, da qualche ora, Franco Battiato, ma sono sicuro di averne dimenticato qualcuno. Più delle rockstar, più dei Bowie o dei Kurt Cobain, i cantautori sono ambasciatori nell’aldilà della società che abitiamo dal vero ogni giorno, nelle nostre piccole città della penisola. A casa, per le strade e nelle piazze, sul posto di lavoro, a scuola, nei quartieri dormitorio, nei centri storici, nella vita privata e in quella pubblica. Questo perché, a differenza di Prince o di Amy Winehouse, i cantautori parlano la nostra lingua, vivono i nostri sogni, ci prestano il modo di dire al nostro prossimo più vicino che siamo tristi, siamo felici, amiamo qualcuno o qualcuno ci ha tradito, vorremmo cambiare ma non ce la facciamo, siamo cambiati ma poi tutto è tornato come prima.

Il fatto è che non sempre ce la raccontiamo giusta, perché i martiri del rock straniero sono tentacolari in quanto impersonano il posto in cui avremmo voluto vivere la nostra storia personale, e ci mancherebbe. Londra, Seattle, Berlino, New York. Ma come la storia del camaleonte che si insegna a scuola, alla resa dei conti, senza la saetta rossa disegnata sulla faccia, la maglia a righe orizzontali, la Stratocaster incendiata sul palco o distrutta contro l’ampli, dovremmo tornare ad accettare noi stessi, i vicoli di Genova, le piazze di Bologna, i borghi dell’Italia centrale, la provincia, la Sicilia.

Per chi è cresciuto quando i cantautori erano gli interpreti della vita di tutti, un cantautore morto si porta via una parte non da poco. Anche se, negli anni d’oro del cantautorato, si ascoltava tutt’altro. Perché le canzoni dei cantautori erano dappertutto. Erano come il battito del cuore delle nostre madri, quello che sentiamo per nove mesi mentre tutte le nostre cose vanno al loro posto. Un universo sonoro che viene fuori ogni volta che ci serve una frase fatta, un verso, un modo per esprimere qualcosa che sia compreso da tutti. Per questo quando un cantautore muore si cancella qualcosa, anche per chi i cantautori li ha ascoltati poco. E non è solo il fattore umano. Ci consola il fatto che, a fronte della perdita di un esponente centrale per la nostra cultura, in cambio ci resta un capitale condiviso, una ricchezza che non si esaurirà mai.

prima di andare al mare

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Da qualche tempo gira su Youtube questa versione di “Vamos a la playa”. Divulgata come la prima registrazione demo di Johnson Righeira da solo e precedente all’arrangiamento italo-wave che vendette milioni di copie in tutto il mondo, il brano suona come un acerbo quanto convincente anelito post-punk. Quelli che, come me, si considerano tra i più documentati studiosi del celebre tormentone dell’estate 83, ci sono rimasti molto male per il fatto che la demo sia stata messa in circolo solo ora. Avendo riconosciuto nella versione ufficiale numerosi richiami alla new wave elettronica del periodo, siamo tutti consapevoli del fatto che, se invece quell’estate fosse uscita nell’arrangiamento originale, sarebbe stata non solo una hit da juke-box ma un vero punto di riferimento per gli ascolti di allora e di tutto quello che è seguito nella musica alternativa italiana. Siamo arrivati persino a pensare che la pubblicazione della demo sia l’ennesima trovata magistrale dei Righeira, un revamping pensato per cavalcare la retromania electro-wave in auge di questi tempi, l’ultima geniale diavoleria per sbancare ancora una volta l’industria musicale e balzare ai primi posti di tutte le top ten del mondo.

moriremo tronchi

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Doveseifinitamore
Comenonciseipiù
Etidicochemiman
Sevuoitidicocosamiman
Cadessochenoncisonopiù
Adessocheridonodime
Adessochenonciseipiù
Non so se
Tiricordidime
Quantèbellabbracciar
Persentirtiunpoacas
Saràbellabbracciar
Dirtimiseimancat
Inunboscodime
Ceunrumorincessan
Telofacciodapar
Tuseilamiavosc

Squid – Bright Green Field

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I posteri parleranno del periodo storico che stiamo vivendo come il momento in cui la musica e il modo di fare musica hanno finito definitivamente di coincidere. L’essenza delle cose che smette di abitare nelle cose stesse. Succede con le lingue, per esempio, tra scritto e parlato. Provate ad ascoltare i dialoghi costruiti per un film e poi recitati da attori o doppiatori. Nessuno si esprime nella vita di tutti i giorni così, se non nei libri o ovunque risulti necessario organizzare il pensiero dentro la griglia di un sistema strutturato. La gente, invece, parla e comunica con un altro idioma. Impoverito, barbarizzato, semplificato, imbrattato dai social media e tutto quello che volete. Sta di fatto che dobbiamo conviverci.

Nel nostro caso, possiamo ricondurre questa scollatura tra la musica e il modo di fare la musica al fatto di aver digitalizzato la musica (come tutti gli altri aspetti del nostro sapere), di averla processata e destrutturata (pensate a cosa è successo all’arte visiva e alla letteratura dopo anni di meme e di citazioni sui social) e di averla consegnata in pasto ai millennials e alle generazioni che, non conoscendone l’uso tradizionale, hanno dato vita a nuovi modelli che poi sono stati sviluppati e personalizzati da chi suona gli strumenti tradizionali. Gente che non conosce il rock (in tutte le sue accezioni) ma ne ha sentito parlare dalle intelligenze artificiali che lo hanno raccontato a modo loro, scevro dalle teorie tradizionali e dalle scuole di pensiero che lo hanno regolamentato fino alla sua dissoluzione. Potremmo banalizzare dicendo che qualcuno ne ha hackerato il codice, nessuno si pone più il problema di come si faceva prima e i testimoni oculari si sono quasi estinti del tutto. Artisti che ne assemblano le componenti a piacimento perché il manuale utente è andato perduto, chissà dove.

Per gli Squid la musica funziona così, come ci tengono a rimarcare fino allo sfinimento nelle undici tracce del loro disco di esordio. Ci sono chitarre, basso, persino sintetizzatori e strumenti a fiato. Ci sono armonia, melodia, ritmo, rumore. Voci e suoni. Ci sono persino delle indicazioni e dei riferimenti per fornire al mercato le coordinate per collocare commercialmente il prodotto: il math-rock, il post-punk, il noise. Ma l’avvertimento è chiaro: per i boomer, inoltrarsi in “Bright Green Field” senza un navigatore satellitare o una guida a come vanno le cose, aggiornata al 2021, potrebbe rivelarsi fatale.

Se Fountains DC e compagnia bella la prendono alla leggera, i Black Midi trasudano ormoni punk-fusion da tutti i pori, i Black Country New Road introducono la componente psichedelica e post-rock e Idles, Viagra Boys e Sleaford Mods incarnano il filone più estremo, una rappresentazione su un piano cartesiano porrebbe gli Squid nell’esatto centro dei quadranti. La voce è indisponente e sgraziata (con l’aggravante che è un batterista a cantare) ma ogni tanto sconfina in proposte più accomodanti. Tra i brani trovano posto divagazioni da otto minuti ma anche contesti più facilmente riconoscibili. Le strutture sono spesso caotiche e schizofreniche ma lasciano spazio a modelli concilianti. Ne risulta un disco in cui, osservato da vicino e ascoltato istante per istante, pixel dopo pixel, difficilmente ci si capisce qualcosa. Solo al termine dell’ultimo brano, evaporato anche l’ultimo suono, ci si rivela in tutto il suo significato. “Bright Green Field” è un’opera complessa. Ci vuole pazienza, curiosità, concentrazione e disposizione ad accettare qualcosa di veramente diverso da tutto ciò che conosciamo.

Gli Squid vengono da Brighton e danno l’impressione di essere una di quelle band in perfetto equilibrio interno. Un’armonia in grado di far lavorare cinque menti come una unica per un prodotto che non ha eguali. Pubblicato dopo alcuni singoli e un EP che ha attirato molta curiosità sulla band (e l’attenzione della Warp, etichetta abituata a ben altri suoni) “Bright Green Field” risulta un album di portata e ambizione elevatissime.

Non lasciatevi ingannare, però, dal titolo dell’album e dal verde brillante dei prati in copertina. La relazione tra post-punk e le composizioni degli Squid è la stessa che vige tra un qualsiasi panorama bucolico e la natura decostruita teatro delle gesta dei Teletubbies. Una realtà completamente riscritta da capo e basata su architetture paradossali e distopiche. Una trasposizione dei nostri tempi al limite della vivibilità in un nuovo ordine soggetto all’incertezza e alla paura, in cui si sta scomodi e tutt’altro che a proprio agio, una pavimentazione sconnessa che ci costringe a un continuo adattamento. La musica degli Squid è spaventosamente profonda e si spinge giù fino ad un livello a cui non siamo più abituati. “Bright Green Field” è una vera e propria variante inglese al nostro incedere verso il futuro, una strada panoramica sull’infinito priva di protezione a valle e fuori da ogni percorso certificato dai motori di ricerca.

Per questo, quando gli storici tra qualche secolo si troveranno davanti da una parte degli spartiti con delle note scarabocchiate e dall’altra i file delle tracce di dischi come “Bright Green Field”, si chiederanno il perché dell’esistenza di una teoria e di una pratica della stessa disciplina così agli antipodi l’una dall’altra e si inventeranno chissà quali congetture per capire, intorno agli anni venti del ventunesimo secolo, che cosa sia realmente capitato al genere umano.

zona rossa

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Di tutte le grandi interpreti della canzone italiana a cavallo tra gli anni 60 e 70, e mi riferisco a Mina, Ornella Vanoni, Patty Pravo, Iva Zanicchi e Oretta Berti e a qualche altra che al momento non mi viene in mente e non me ne vogliate (anzi ricordatemelo qui sotto), Milva era di certo la meno banale di tutte. Era soprannominata “la rossa”, e se pensate che a Canzonissima 71 presentò “Bella ciao” e che ci a lasciato a ridosso dell’anniversario della Liberazione, si tratta di una qualità dalle numerose interpretazioni.

alta infedeltà

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È indubbio che certi album usciti negli anni 90 siano stati pensati per la fruizione digitale. C’era il vezzo, per esempio, di utilizzare samples della puntina sul vinile con i vari rumori annessi, a partire dai granelli di polvere a infastidire la riproduzione – gli stessi che mandano in bestia i cultori della perfezione di ascolto – per conferire un mood vintage ai brani. Avete letto bene: negli anni novanta si potevano cogliere già i primi vagiti di retromania del mondo in analogico. Addirittura, per “Dummy”, le parti di batteria sono state stampate su vinile per poi essere riutilizzate in loop o date in pasto al dj che accompagnava i Portishead dal vivo. Lo dicono loro stessi in un breve documentario che ho trovato su Youtube e che vi linko qui sotto. Sono in possesso di una copia della ristampa del loro esordio a 33 giri e, in effetti, benché l’abbia acquistata con la massima consapevolezza, non ha molto senso.