un altro Sanremo senza new wave

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L’edizione del Festival di quest’anno va annoverata tra quelle in cui è stato facile individuare la canzone vincitrice al primissimo ascolto. Era già successo la volta in cui al primo posto si è classificato “L’essenziale” di Marco Mengoni e quella di “Occidentali’s Karma” di Gabbani, i primi due che mi vengono in mente. Brani la cui capacità di rimanerti attaccati immediatamente è superiore, proposti in una scaletta di motivi magari anche belli, ma non all’altezza. Era chiaro fin dall’inizio che “Brividi” si sarebbe confermata sul gradino più alto del podio. Solo Elisa avrebbe potuto tenergli il fiato sul collo, mentre la canzone di Morandi, oggettivamente, si è piazzata lì dove si è piazzata grazie all’endorsement di Jovanotti durante la penultima serata, quella delle cover. A proposito, la scelta generale dei brani da reinterpretare ha definitivamente fatto virare il Festival di Sanremo verso il format dei talent, quello di X Factor su tutti. Che ci azzeccano “Baby One More Time” o “Be My Baby”, pur eseguite in modo ineccepibile la prima e con un arrangiamento molto interessante la seconda, con le nostre canzonette? Pur essendo una trovata interessante, quella di cantare brani famosi, spesso molto più del resto della manifestazione, corre il rischio di banalizzare la gara. Mi pare che, anni fa, la scelta fosse circoscritta al repertorio di brani presentati nel corso delle edizioni precedenti di Sanremo. Tornerei a questa formula, la trovo più in linea e in grado di differenziare il Festival dal resto dei programmi canori che accompagnano il palinsesto sociale della modernità. Ecco quindi qualche appunto sui pezzi che si sono succeduti nel corso della serata conclusiva.

Matteo Romano: a vederlo così striminzito sul palco a cantare, prima, e a parlare, poi trasmette un’umiltà rara. Ha anche una faccia simpatica e sarebbe bello sapere chi sia. La sua canzone è carina e si merita un 7 anche se, di tutta la kermesse, forse è la meno virale, a dispetto del titolo.

Giusy Ferreri: una scelta strana, la sua, quella di presentare un brano di quelli che non decollano mai. Come altre interpreti della nostra canzonetta pop, ha una voce pazzesca ma la affibbiano sempre canzoni facilmente dimenticabili, al netto del reggaeton estivo. Una di quelle canzoni che aspetti tutto il tempo che si apra e invece resta imbrigliata in un’andatura da chitarra sulla spiaggia, un po’ come “La descrizione di un attimo” dei Tiromancino, per capirci, ma molto meno bella, con l’aggravante di un vestito che le sta malissimo. E poi mi spiegate il senso di quel cazzo di megafono? Voto 6.

Rkomi: boh, l’unica cosa che ho capito è che il suo vero nome è Mirko, basta fare quel gioco che si fa da bambini con ionico ripetuto senza soluzione di continuità. Mi era piaciuto la prima sera. In quella finale si è un po’ perso per poi ritrovarsi al termine dell’esibizione, con i ringraziamenti e i saluti. Mi dicono comunque che sia un discreto manzo. Voto 7

Iva Zanicchi: se ho fatto bene i calcoli ha 82 anni e se non si fosse candidata per Berlusconi ne potrei anche scrivere bene. Il pezzo è molto meglio di altri, un classicone che cantato da qualcuno uscito da Amici, magari con un arrangiamento moderno, prenderebbe di più di un 6.

Aka7even: questo, come quello del suo amico Sangiovanni, sarà uno di quei pezzi che spaccherà tra gli under 10 e che i miei alunni mi chiederanno durante l’ora di musica. Per compensare gli do un 6 stiracchiato. E poi è troppo alto per la sua voce. E lui assomiglia a Nicholas, il mio ex parrucchiere. Sarà un segno.

Massimo Ranieri: da anziano sembra Vecchioni da anziano. Un brano che non resta in testa nemmeno con il vinavil. Le città non bruciano più. Voto 6 ma per la carriera.

Noemi: la sua voce si è assottigliata come la sua figura e lei, conciata così, sul palco sembra la tipa di Roger Rabbit. Il pezzo ha buon ritmo. Si merita un 7, si sente che c’è di mezzo Re Mida Mahmood.

Fabrizio Moro: È grillista e si merita 2 anche per il plagio dell’Inno alla gioia di Beethoven che emerge da sotto. Bella la citazione di “Bella” di Jovanotti con la chitarra steel.

Dargen D’Amico o come si chiama: due anni di Covid e ci piace anche questa. Voto 8 ma dimmi che cosa c’entra il governo.

Elisa: nulla da dire sulla canzone. Candidata al podio malgrado il vestito, nell’insieme un paio di tacche sotto i due vincitori. Voto 9.

Irama si presenta vestito da Ponte Milvio con tutti i lucchetti sulla giacca. Raramente si sente un pezzo così brutto, nemmeno nel periodo buio del Festival degli anni settanta con Jo Chiarello e il suo brutto affare. Voto 2

Michele Bravi è invece una specie di Scialpi ma senza “No East No West, we are the best” e con un rampicante sulle dita. Stavo per stroncarlo poi mia moglie mi ha detto che ha una brutta storia personale. Canzone nella media, anzi un po’ di più. Voto 7.5.

Rappresentante di Lista: sembrano usciti da Candy Crush ma il pezzo spacca, un vero brano da 10, il vero tormentone dell’edizione venti ventidue e gli unici con il reprise fuori programma. Non capita tutti i giorni.

Emma: la Ferilli le augura buon lavoro perché la sua resterà, nella storia, la canzone del triangolino che ci esalta e della Michielin che dirige. Io però più di 6 non riesco a darle, lei mi sembra la versione femminile di Claudio Villa.

Mahmood e Blanco. Vincono loro. Il fantasanremo o come cazzo si chiama gli è sfuggito un po’ di mano con le bici sul palco. Il fatto è che in due concentrano l’80% della bellezza sanremese e forse il 99% dell’intuito pop della musica italiana. Sul pezzo nulla da dire, lasciamo parlare i miliardi di streaming che seguiranno. Il voto è un 10 meritato. Bella la doppia citazione nell’arrangiamento, all’inizio e durante il brano, di “Breathe” dei Pink Floyd.

Highsnob e Hu: le facce impiastrate con le scritte (a questo punto sarebbe più redditizio tatuarsi uno sponsor e farsi pagare vita natural durante) hanno rotto il cazzo ma loro sono molto più docili di quello che vogliono mostrare. Comunque nessuno mai aveva messo in un testo “ho perso la testa come Oloferne” e a farlo rimare con verme. Malgrado questo si meritano un 6, lei canta come Madame al netto delle sedute dalla logopedista.

Sangiovanni: il solito giro del pop-trap-rap di Malibu e non riesco a dargli più di 4, tanto ci penserete voi a premiarlo. Quando dice “sei una boccata d’aria” lo pronuncia così biascicato che si capisce “sei una mucca d’addaria” che, oggettivamente, non ha senso. Il tema di synth alla “Leave in silence” dei Depeche Mode è però orecchiabile. Salvo solo questo.

Gianni Morandi: se non ci fosse Jovanotti di mezzo non sarei così prevenuto. Lui per fortuna è un tipo alla mano, finché non se le compromette. La sua canzone subito sembra “Stasera mi butto”, anzi no, mi ricorda “Shake A Tail Feather” di Ray Charles con un inserto scopiazzato dagli archi di “Eloise” di Barry Ryan, a cui si aggiunge un crescendo che ammicca a “Il triangolo” di Renato Zero. Mai visti così tanti tributi concentrati in una manciata di minuti. Voto 6.

Ditonellapiaga e Rettore: l’ennesimo caso di artiste penalizzate nel naming. Una modesta rivisitazione di “Physical” di Olivia Newton-John nel ritornello. 6 politico per via di Donatella che, ancora, non vuol farsi chiamare così.

Orietta Berti: non è in gara ma forse avrebbe dovuta cantare “Finché la barca va”, a bordo della Costa Crociere.

Yuman: chiede un pugnetto alla Ferilli e canta la canzone peggiore se non ci fossero altre canzoni peggiori. Non so che voto dargli. Anche questa, nell’inizio, cita “The Great Gig In The Sky”.

Achille Lauro: ecco un nuovo cantore della domenica, una tradizione che va da Valentino, come Lauro in quota Vasco Rossi, ai Subsonica passando per Venditti. Per la terza volta porta lo stesso pezzo, gli do comunque 6 perché mi è simpatico. Caro Achille, il prossimo anno mantieni il look ma cambia format per piacere. Dai che ne mancano solo quattro e poi posso andare a dormire.

Ana Mena: c’è un po’ di Nina Zilli, almeno nel titolo, e un po’ di “Amandoti” dei Cccp e io ci sento anche un po’ di Ghali quando canta di voler bene all’Italia. Il target è il terzo mondo culturale dell’Eurofestival, con un ritmo tutto in levare d’altri tempi. Il voto è un 4 ed è un peccato perché la ragazza, esteticamente, ha un suo perché.

Tananai: è un incrocio tra Rkomi, Irama e Fabrizio Moro che canta come Achille Lauro ma stonato e con la giacca da camera. Il ritornello ricorda “Suburbia” dei Pet Shop Boys e gli archi nella strofa “Speedy Gonzales”. Ma io ho sonno e gli do 5.

Giovanni Truppi. L’unico intellettuale di quest’anno anche se si presenta in canottiera. Il titolo gonfia le aspettative, il brano è superlativo ma è pretenzioso e fuori contesto. La pelata è indubbiamente espressiva e le facce mentre suona e canta sono le stesse di Saturnino. Probabilmente esibirsi senza capelli porta a quel tipo di mimica. Il voto è un 9 anche solo perché non ricorda nessun’altra canzone.

Le Vibrazioni: volevano essere i Maneskine ma restano sempre immensamente loro, con quel pennellone che suona il basso, il batterista che sembra un cartone animato e il cantante che come se la tira lui nessuno mai. Il pezzo, però, è imbarazzante: 2, e ha solo il valore di essere l’ultimo. Anche quest’anno è finita.

ecco cosa mi ha detto Franco Battiato al telefono

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Se avete seguito il commovente tributo realizzato da Pif in occasione del concerto dedicato a Franco Battiato dello scorso settembre all’Arena di Verona, trasmesso su RaiTre ieri sera, sarete rimasti sorpresi da come amici, colleghi e collaboratori del maestro lo abbiano descritto. Non mi sarei mai aspettato che Battiato fosse un giovialone e un amante delle barzellette, per dire. Le sue liriche mi hanno sempre trasmesso austerità, speculazioni filosofiche, a tratti persino supponenza tendente a prendersi gioco dell’ascoltatore medio attraverso i celebri nonsense sui quali la critica, da sempre, si dibatte a spremere significati. Mai avrei pensato che potesse andare d’accordo con gente del calibro di Jovanotti o Morgan o Celentano, per dire. E lo so, sono ignorante e solo ieri ho scoperto che hanno a lungo collaborato insieme ma, come sapete, io con gli ascolti ero fermo a “L’arca di Noè” e poi avevo ripreso, decenni dopo, con i vari “Fleurs” che, comunque, già mi avevano stupito per il fatto che uno come Battiato si mettesse a reinterpretare composizioni altrui.

A parte questo, il programma di Pif mi è piaciuto tantissimo, e se ve lo siete persi potete recuperare su RaiPlay. Anche il disco pubblicato a seguito del concerto non è niente male. Si intitola “Invito al viaggio”, è uscito da qualche settimana e, se non volete comprarlo, è disponibile su Spotify. Nell’album ci sono diverse tracce che non sono state trasmesse durante il programma in tv e che, invece, a parer mio, avrebbero meritato più di altre. Forse è stata data la preferenza all’intensità del rapporto tra chi le ha reinterpretate e Battiato, o forse c’erano dei problemi di diritti. Vai a saperlo. Per esempio “Strani giorni” cantata da Cristina Scabbia e Davide Ferrario, o “Aria di rivoluzione” rifatta da Maroccolo, Aiazzi, Chimenti e Brotto, “Io chi sono” di Alice (peraltro, trattandosi dell’artista forse più vicina a lui, due pezzi suoi ci stavano alla grande), “Oceano di silenzio” cantata di Finardi, e soprattutto “Summer on a solitary beach” di Luca Madonia. Se era un problema di tempo avrei omesso l’inutile Jovanotti, Morgan con tutti i suoi ego o gli stonati Colapesce e Di Martino.

Non solo. Mai avrei pensato che Battiato fosse uno che chiama al telefono una come Emma Marrone, un concorrente di una trasmissione del livello di “Amici”. Ma, in generale, non credevo che Battiato fosse uno che ti chiama al telefono tout court. Eppure in molti, anzi quasi tutti, hanno dichiarato di aver ricevuto chiamate da Battiato la mattina presto o a qualsiasi ora del giorno e della notte, ricevendo inviti a raggiungerlo a pranzo, a cena, in spiaggia, nella sua casa al mare. Mi è venuta persino in mente quella volta in cui bevevo una birra con il mio amico che suona la batteria con Roberto Vecchioni e ha avuto l’idea di telefonare a un nostro comune vecchio amico, fan di Vecchioni, dicendogli che gli avrebbe passato al telefono Roberto, cioè io che mi chiamo Roberto, perché erano diversi anni che non ci sentivamo. Ma il nostro comune amico non pensava che fossi io al telefono ma, appunto, Roberto Vecchioni. Così quando ha capito che invece ero io ci è rimasto male e ci sono rimasto male anch’io, perché comunque erano anni che non ci sentivamo e il fatto che sia rimasto deluso perché ero io e non Roberto Vecchioni vabbè, insomma, ci siamo capiti.

Durante il programma in tv mi sono invece chiesto che effetto possa fare ricevere una telefonata da Battiato. Adesso mi cagherei addosso, come tutti voi, perché sembrerebbe una puntata di “Ai confini della realtà”. Anzi, sapete che vi dico? Quando era in vita doveva essere un’esperienza forse ancora più metafisica di ora che Battiato non c’è più.

non guardo la tv

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Nel corso della semifinale di X Factor Manuel Agnelli ha ripercorso le esibizioni dei Bengala Fire snocciolando, autore per autore, le loro cover presentate nel corso delle puntate come se suonare in un talent mainstream canzoni degli Interpol o dei Fontaines D.C. fosse una cosa che succede tutti i giorni. Qualche settimana fa Emma Marrone ha scelto, per il concorrente Gianmaria, “Io sto bene” dei CCCP, resa peraltro in una versione davvero azzeccatissima. Mentre non ho dubbi sul fatto che Agnelli e i Bengala Fire annoverino, tra i loro ascolti, le band che hanno suonato, sono sicuro che Emma e il suo giovane talento – che sarà sicuramente il vincitore della nuova edizione del programma – non avessero idea di chi fossero i CCCP prima che i consulenti artistici della squadra pensassero per Gianmaria il celebre brano di punk filosovietico. Gianmaria stesso li ha chiamati CCP, omettendo una esse cirillica, e non credo che Emma, considerando il background che le ha aperto le porte di Amici e che la collaborazione più alternativa l’ha vista al fianco di gente del calibro dei Modà, li avesse mai ascoltati prima. Avete notato l’artificiosità con cui la giudice leggeva il copione alla sua postazione al momento di presentare il pezzo? Ma comunque il fatto che ora la sua collezione di dischi includa anche “Affinità e divergenze” non può che farmi piacere. Possiamo ringraziare X Factor quindi di aver contribuito a scardinare l’approccio popcentrico della musica in tv e di aver acceso la curiosità del pubblico (e degli addetti ai lavori nazionalpopolari) verso mercati non tanto sommersi – nel senso di underground – ma considerati superflui da una formazione musicale generalista che impone un’accezione della trasgressione e del rock esclusivamente secondo canoni consolidati. Quelli – per dire – che ci fanno gridare al miracolo con i Måneskin.

idles – crawler

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“Crawler” è pervaso dalla voglia di sperimentare, in alcuni punti riuscita, in altri solo in potenza. Risulta comunque un’evoluzione compositiva, una maggiore varietà di format rispetto al consueto girare al massimo la manopola dei toni forti, urlati, sguaiati e senza ritorno.

“Ultra mono” era una pallonata rosa in faccia. “Crawler” ancora peggio. È un carro armato che ti stira e, ingranata la retro – ammesso che i carri armati ne siano dotati – dà una seconda passata per assicurarsi che, davvero, non sia rimasto nulla.

Ogni riferimento ai trasporti eccezionali potrebbe risultare paradossale in un album che, a quanto sostiene Joe Talbot, nasce da certe riflessioni scaturite dall’essersi trovato a pochi centimetri e pochi istanti da un incidente che probabilmente gli avrebbe precluso la possibilità di fare altri dischi. Un motociclista che, una notte, gli è volato vicino, ai duecento all’ora, mentre si trovava in macchina. La fragilità della vita e la casualità del tutto. Ben altra cosa rispetto a David Bowie, lui che invece si scontrava sempre con la stessa automobile, girando all’infinito nel garage di un hotel in preda a chissà che cosa. Una metafora al servizio di tutto quello che ci spinge a commettere gli stessi errori, di continuo. Come biasimarci, noi esseri umani.

Non che qui, in “Crawler”,  non ci siano tracce di problemi con le dipendenze. È un disco, intanto, ed è stato composto da gente con trascorsi mica da ridere.

Ma è anche un segno che la pandemia, la stessa che ha portato la salute mentale e fisica collettiva del pianeta al punto di rottura, ci offre un modo tutto nuovo di vedere le cose, di osservare noi stessi. Una riflessione indulgente, empatica e comprensiva. Responsabili delle nostre azioni, c’è comunque lo spazio per prendere un respiro e perdonarci. Se la vita è piena di bivi e non è detto che ci sia Google Maps a farci arrivare sani e salvi – non c’è un’app per prevenire gli incidenti, per ora solo riporta quelli già accaduti e che generano code – è lecito riderci su. Umorismo nerissimo, sia chiaro. Tutto questo va a formare il nucleo narrativo del quarto album degli Idles in altrettanti anni, nonché seguito di uno dei dischi più belli del 2020.

Partiamo dalle disavventure su strada, che nel nuovo lavoro del quintetto di Bristol ci sono per davvero. La traccia introduttiva, che rende un tributo irriverente alla superbike “MTT 420 RR” proprio nel titolo, è un nervoso benvenuto pensato con uno di quegli escamotage in cui ci sono fill di batteria che non vanno da nessuna parte e, anzi, lasciano con un pugno di mosche a rimandare l’orgasmo a momenti migliori. C’è poco da dire invece circa la metafora di “Car Crash”, così didascalica da non lasciar dubbi.

“Crawler” è pervaso dalla voglia di sperimentare, in alcuni punti riuscita, in altri solo in potenza. Risulta comunque un’evoluzione compositiva, una maggiore varietà di format rispetto al consueto girare al massimo la manopola dei toni forti, urlati, sguaiati e senza ritorno. Vi sarete accorti dell’approccio soul di “The Beachland Ballroom” e di quello darkwave di “When the Lights Come On”, in cui la voce si trattiene a stento dalla smania di scappare via, di alzare i toni, come in quei disturbi in cui la gente non riesce a trattenersi. Ma, molto più che negli album precedenti, ci sono diversi spunti che fanno degli Idles una sorta di Killing Joke dei nostri tempi – forse l’unico grande mostro sacro del post-punk che ad oggi non è stato ancora emulato. Provate a cercarli in brani come “The Wheel”, “Stockholm Syndrome” e “Crawl”, fino all’esplosione al contrario, quando la tensione arriva al limite oltre il quale non ci può più essere nulla. Ed è qui che si materializza “Progress”, un pezzo che sarebbe da isolare dal resto per fare finta che Joe Talbot canti sempre così e che, da solo, vale tutto il disco.

Gli “Idles” ci assicurano che il disco parla di come affrontare esperienze traumatiche e tornare in vita. Ok, va bene, ma a quali condizioni? Perché sono proprio loro a dimostrarci che, per risultare ancora più pessimisti, ci vuole poco. Un paio di canzoni completamente avulse dal proprio stile e dal contesto, magari con un filo di elettronica – bella la citazione dell’inizio di “Angel” dei Massive Attack proprio nell’incipit del disco – oppure il suono svuotato della violenza che gli ascoltatori più affezionati si aspettano, oppure ancora chiudere tutto con una traccia che si intitola “The End” e che, in quanto tale, fa lo stesso rumore di qualcosa che lasciamo cadere in un abisso buio e senza fondo. Il nulla o, come dicono loro, “In spite of it all, life is beautiful”.

a nastro

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Dopo la moda del vinile stanno tornando in auge le cassette e la cosa non può che farmi tirare un sospiro di sollievo. Colleziono dischi dalla seconda media (era il 1979 o giù di lì) e non ho mai assistito a un hype così clamoroso come quello degli ultimi mesi, in cui non si trova un vinile appena pubblicato a meno di ventiquattro euro su Amazon, per non parlare dei negozi di dischi e del vinile usato e vintage, con prime stampe a prezzi da capogiro. Qualche giorno fa mi sono imbattuto in una copia di “Fantastic Planet” dei Failure a 1600 euro, per dire. Il vinile (e i giradischi) sono la moda del momento e solo una sana bolla di musicassette, mangianastri e walkman può distrarre la massa e far tornare la gente con i piedi per terra e i collezionisti come me con il sorriso di un tempo.

Nella mia vita ho acquistato non più di un paio di musicassette originali e me ne sono subito pentito. Si consumano molto più velocemente di tutti gli altri supporti e i dispositivi di riproduzione necessitano di manutenzione continua. Le cassette le usavo come voi, solo per fare le compilation. Molti artisti, soprattutto alternativi, stanno tornando a commercializzare nastri, per questo oggi è considerato molto cool. Se quindi non resistete e volete darvi a questa nuova ossessione, vi consiglio di acquistarle e non scartarle nemmeno dal cellophane. Tenetele lì in bella mostra e continuate a usare Spotify o gli mp3 come sempre, così non si rovineranno e non perderanno il loro valore.

facciamo prima a dire che cosa non è restato

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Qualcuno si ricorda che cosa stava combinando alle 00.01 del primo gennaio 1990? Io no perché non pensavo fosse una data speciale, altrimenti mi sarei segnato – come l’11 settembre 2001 – qualche particolare utile alle celebrazioni che si sarebbero succedute negli anni a venire. Come potevamo immaginare che, esattamente l’1/1/1990, saremmo stati testimoni oculari della nascita della nostalgia del trentennio appena finito. I sessantasettantaottanta. Tre blocchi temporali diversissimi tra di loro che però, aumentando il tempo e assottigliandosi la memoria, si sono saldati in un tutt’uno che ora non significa altro che musica per vecchi di merda come me. Un’operazione commerciale per raccogliere, in un unico target facilmente individuabile e raggiungibile con lo stesso prodotto, la malinconia per un’era che non esiste più.

E fa sorridere il fatto che gli anni novanta siano ancora considerati una cosa da giovani per via dei Nirvana, dei Prodigy e tutta quella roba che suona ancora terribilmente attuale. Ma “Nevermind”, ricordiamolo, è uscito solo l’anno successivo al primo gennaio 1990, eppure non si spiega la differente percezione del prima o dopo di uno spartiacque che poi in realtà non esiste.

Comunque in una festa sessantasettantaottanta stanno sullo stesso palco i Righeira con Umberto Tozzi e gli Abba e gli Europe e Samantha Fox, per dire. Ed è successo proprio così lo scorso sabato sera su RaiUno nel corso di una serata dedicata ai sessantasettantaottanta, trasmessa dall’Arena di Verona e condotta da una maestro delle cerimonie come Amadeus che, da un podio con tanto di postazione da DJ, lanciava uno dopo l’altro i mitici successi dei sessantasettantaottanta che mandano in estasi i vecchi di merda come me che hanno nostalgia dei sessantasettantaottanta.

In realtà c’era poco sessanta in quel contenitore, immagino perché gli artisti sopravvissuti iniziano a scarseggiare, fino a quando è salito sul palco Edoardo Vianello, classe 1938. Il re dell’estate ha cantato quello che il popolo dei sessantasettantaottanta vuole da lui. “Abbronzatissima”, “Guarda come dondolo” e cose così. Poi è stato il momento dei “Watussi”, un brano sul quale la furia iconoclasta della cancel culture non si è ancora abbattuta nel modo parziale che meriterebbe. Nel 2021, in un programma in onda sulla principale rete pubblica italiana in un sabato sera di fine estate o inizio autunno, si possono ancora cantare in coro i versi di una canzonetta sciocca che comprendono un appellativo ai tempi in uso ma, oggi, dichiaratamente razzista.

Il fatto è che cambiare quel pezzo di testo che dice “Ci sta un popolo di ne**i” mantenendo la metrica è facilissimo. Io, per esempio, lo sostituirei con

c’è quel popolo africano
che ha inventato tanti balli
Il più famoso è l’hully gully

Ci sono problemi ben più gravi? Può darsi. Io vi dico che se la gente assistesse a una rivoluzione epocale come un cambio di parole in una canzone strafamosa come “I Watussi” qualche considerazione se la porrebbe e, magari, penserebbe che se c’è arrivato uno come Edoardo Vianello, classe 1938, sul palco dell’Arena di Verona con le ballerine intorno che ballano l’hully gully (che poi come si balla l’hully gully non l’ho mai capito), a sferrare un gesto di rottura con gli schemi possiamo provarci anche noi.

il dubbio

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Non ho mai capito perché la canzone “Jesahel” dei Delirium, la band che ha messo in luce le straordinarie doti di Ivano Fossati, pur essendo un brano dalla melodia smaccatamente soul con sconfinamenti addirittura nel gospel (vedi i botta e risposta tra voce solista e coro parodiati persino negli inni degli ultras da stadio), aspetti che fanno del pezzo più famoso del gruppo genovese un brano di black music potenziale a tutti gli effetti, sia stata composta con una ritmica così moscia e inadeguata. I battiti forti sull’uno e sul tre ne irrigidiscono la fluidità e ne ammazzano il groove. Lo ascolti, vorresti muoverti e partecipare a ritmo ma tutto è fermo, impacciato, quasi surreale. Una successione regolare di colpi inesistente in natura, che inibisce il trasporto – tipico della musica, soprattutto del sound di quei tempi – e allontana l’emozione di pancia, relegando la bellezza della composizione come prerogativa della componente melodico-armonica che, pur straordinaria, lascia il desiderio inappagato.

Prova ne è che, poco dopo, “Jesahel” fu oggetto di un revamping da parte di Shirley Bassey, una che di rhythm and blues e di soul se ne intende. Chiaro che la sua cover, agli antipodi in quanto a carnalità, esaspera i timbri della black music com’è giusto che sia. A me piacerebbe ascoltare una sana via di mezzo, con Fossati e tutta la sua ghenga sul palco di Sanremo che battono le mani sul due e sul quattro, come dovrebbe essere per tutta la musica.

Passpartù – Premiata Forneria Marconi

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Metti insieme un passe-partout e Re Artù, i disegni di Andrea Pazienza, qualche retaggio di rock sinfonico, la tradizione popolare e tutto quello che lo tsunami del 77 ha appena portato a galla. Il risultato? Una PFM in cerca di identità alle prove con il nuovo che avanza.

Sembra un paradosso ma “Passpartù”, per alcuni un vero buco nero nella discografia della PFM, è forse l’album della band che riflette di più il momento storico in cui è stato pubblicato, e non solo per l’artwork di un Andrea Pazienza agli albori della sua carriera. Un’epoca di ingenue ma significative sperimentazioni, crocevia di generi oramai superati e di fermenti pronti a esplodere di lì a poco.

Il disco, uscito nel 1978, costituisce inoltre la testimonianza di quanto il punto di forza della più celebre formazione del nostro panorama progressive si sia improvvisamente rivelato un limite, in un mondo e una società che si stava radicalmente trasformando. La Premiata Forneria Marconi è una delle poche band della storia della musica priva di un frontman, un leader carismatico, una primadonna, caratteristica in cui risiede una delle chiavi del loro successo. Negli album degli esordi, quelli che hanno reso la loro musica immortale, cantano tutti, e privare i fan di una figura di riferimento in cui identificare il brand sembra davvero l’ultimo dei problemi. Non importa se non c’è un Peter Gabriel o un Ian Anderson, un cantante vero e proprio che metta la sua faccia sulla carta d’identità del gruppo, qualcuno in piedi di fronte al pubblico pronto a farsi da parte con uno strumento in mano (o una grancassa di rappresentanza davanti, non amplificata per evitare pasticci con le parti già sin troppo elaborate di Phil Collins) nelle lunghe suite strumentali tipiche del genere musicale professato.

Nella PFM non milita nemmeno un Francesco Di Giacomo, con una voce e un timbro così particolare e una portata intellettuale da assurgere a elemento rappresentativo del gruppo. Nella loro prima fase artistica sono Mussida, Premoli e Pagani che si alternano – con ottimi risultati – al microfono e spesso è Di Cioccio a introdurre i brani dal vivo. L’assenza di un cantante puro lascia spazio a tutti, un approccio vincente totalmente in linea con la filosofia del progressive vero, in cui la musica e gli strumenti – voce compresa – sono gli unici protagonisti, senza tanti fronzoli.

Il successo internazionale ottenuto grazie alla riproposta dei loro primi album adattati ai testi in inglese di Peter Sinfield, già paroliere dei King Crimson, con versioni parzialmente ripensate per un gusto più angloamericano (i primi approcci oltremanica furono tacciati di eccessiva italianità dalla stampa britannica) favorisce l’incontro tra la formazione storica della PFM e Bernardo Lanzetti, un cantante con un passato negli Acqua Fragile che, grazie agli studi in USA, se la cava bene con la lingua del rock.

Succede però che i due album pubblicati con questa line-up, “Chocolate Kings” e “Jet Lag”, coincidano con la fine dell’epopea del progressive. Il primo suona tutt’ora sopra le righe, se paragonato ai primi lavori, mentre il secondo – a mio giudizio uno dei migliori della storia della PFM – spinge verso atmosfere jazz-rock, complice l’uscita di Mauro Pagani e l’ingresso del violinista americano Greg Bloch, un cambio di marcia che avvicina la PFM alle sonorità dei Weather Report. Nel frattempo è già il 1977 e il gusto del pubblico sembra virare agli antipodi.

La Premiata Forneria Marconi non passa indenne dalla damnatio memoriae nei confronti del rock sinfonico imposta dai fermenti sociali che dilagano in Italia, gli stessi che indeboliranno gli argini da cui tracimeranno fenomeni come il punk e i nuovi movimenti di autonomia culturale. Lanzetti sfoggia comunque una personalità artistica originale e di indubbia qualità – aspetti che emergeranno anche nei lavori solisti successivi – e, con la collaborazione del cantautore Gianfranco Manfredi, contribuisce a posizionare le nuove composizioni del gruppo entro i confini dei contenuti di quella che è la musica italiana del momento, un ruolo in cui il resto dei musicisti però non sembra sentirsi perfettamente a proprio agio.

“Passpartù” risulta così un ingenuo mix di canzonette intelligenti (“Se fossi cosa”) che strizzano l’occhio a quel che resta del progressive (“I cavalieri del tavolo cubico” e “Su una mosca e sui dolci”) e la musica popolare (“Viene il santo”), genere nel pieno di un vero boom di notorietà (pensate al Duo di Piadena che aveva partecipato pochi anni prima a Canzonissima). Senza contare la nostra canzone d’autore: non a caso “Passpartù” costituirà il trait d’union tra il background della PFM e il repertorio di Fabrizio De André, artista per il quale il gruppo aveva già prestato la propria tecnica strumentale suonando ne “La buona novella”. Gli arrangiamenti di “Svita la vita” e della titletrack sembrano anticipare certe soluzioni d’effetto con cui la PFM reinterpreterà – di lì a poco – canzoni come “Bocca di rosa” o “Il pescatore”, sulla carta veri e propri mostri sacri e intoccabili ma a cui la band di Mussida, sopra a ogni pronostico, riuscirà ad aggiungere un valore inestimabile.

In generale un album quasi completamente acustico, privo di chitarre elettriche e synth, con alti e bassi che conducono al pezzo di chiusura (“Fantalità”), una traccia da skippare senza pietà, se non per certe trovate che – a posteriori – ci ricordano curiosamente Elio e le Storie Tese.

“Passpartù” prima e il successo degli album live con De André, pubblicati nel biennio successivo, gettano anche le fondamenta per il nuovo corso che la Premiata Forneria Marconi inaugurerà a breve giro. L’esperienza cantautorale, una fase – vista da qui – tutt’altro che di transizione, renderà meno traumatico l’incontro della band di Di Cioccio con gli anni 80 e li renderà più resilienti al rock urbano (e lezioso) che li porterà ad album come “Suonare suonare” e “Come ti va in riva alla città”, prima di tornare a incarnare la loro essenza nel fenomeno di culto progressive di cui sono stati oggetto, nel nuovo secolo, in tutto il mondo.

la canzone scomposta

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Non mi piace citare me stesso – cioè in realtà mi piace molto ma sono troppo umile per ammettere di non essere umile – comunque tempo fa, in una recensione a caldo delle canzoni del Festival di Sanremo, ho definito il pezzo “Voce” di Madame una canzone scomposta. Un giudizio che mi è venuto di getto e che non saprei spiegare se come un modo di affrontare la creazione musicale non come somma di parti, da cui, appunto, la composizione, piuttosto come una sovrapposizione delle stesse che, messe come intralcio l’una dell’altra e non in sequenza, vanno a contaminarsi a vicenda nei punti in cui si soffocano reciprocamente. Sotto a “Voce” c’è una griglia tutta storta fatta di celle i cui bordi non coincidono, tanto che la geometria tradizionale della musica, quella che ci fa andare a tempo e che ci beneficia di schemi grazie ai quali riusciamo a prevedere ciò che succederà subito dopo, fa a farsi friggere. Il punto è che questo lavoro di destrutturazione sembra non essere avvenuto a posteriori, non credo che sia frutto di un arrangiamento pensato per eccellere in originalità. Sono convinto che gli autori della generazione di Madame abbiano proprio questa libertà artistica nella testa e, di conseguenza, nelle melodie, nelle armonie e nelle parole. Nessun essere umano riuscirebbe a rendere tangibile una metrica di versi come quella, a meno di non aver mai avuto influenze culturali da ciò che c’è stato prima. Per una volta i giovani artisti sembrano davvero liberi da tutto, anche quando fanno del poppettone melenso da classifica come quello e non musica a elevato tasso di complessità e difficile da sostenere. Noi invece li ascoltiamo alla radio o di strascico perché li ascoltano i nostri figli e finalmente possiamo non capirli più, abbandonarli al loro nuovo ordine mondiale e tornare al nostro passato fatto di cose che interessano solo a noi. Poi però succede che qualcuno cerca di appesantire questi nuovi fenomeni con delle zavorre di cui secondo me gente come Madame farebbe anche a meno. Spero infatti che l’esser stata insignita del premio Tenco come miglior canzone non le faccia né caldo né freddo ma viva la cosa come se una vecchia zia le avesse regalato un capo di abbigliamento vintage ricamato a mano ma destinato alle tarme, ai tempi dell’elastan e di Primark.

c’è un Armstrong più spaziale dell’altro

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Armstrong aveva uno stile intenso ed emotivo, radicato nel blues del Mississippi, e che raccogliendo dalla tradizione di New Orleans sembrava far parlare la tromba: i suoi assoli sembravano dei discorsi. Il suo modo di suonare era dirompente e nuovo anche per l’interpretazione frenetica del ritmo, mai sentita prima nel jazz e che da lì in avanti diventò imprescindibile: la cadenza del suo fraseggio, i tempi e le sincopi dei suoi assoli avrebbero rappresentato il fondamento dello swing, cioè il genere che avrebbe dominato la musica americana per i seguenti vent’anni.

Tutti imitavano Armstrong, non solo i trombettisti – Ellington diceva che voleva «un Armstrong per ogni strumento» – e tutti andavano a vedere i suoi concerti quotidiani con la band di Henderson al Roseland, sulla 52esima strada a Manhattan.

C’è questa bellissima biografia di Louis Armstrong su Il Post. Metto il link qui per non perderla e per ricordarmi di leggerla in classe, quando ricomincerà la scuola.