rispondetemi, è impo!!!1!!1!1!!!

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Quel robo di ricerca che deridiamo nei nostri socialini esclusivi, quel Yahoo Answers creato apposta per porre domande e ricevere risposte pret a porter che mettiamo spesso alla berlina per la prosa sgrammaticata e gli errori di battitura degli utenti, poi arriva un giorno in cui ti accorgi che ti serve davvero. Ora è chiaro che a quel genere di utenza non demanderei suggerimenti sulla posologia di un farmaco vitale o l’interpretazione di una legge per risolvere una diatriba. Però. Ieri stavo impazzendo perché non mi veniva il mente il nome di un gruppo, i Planet Funk. Capita no? Un caso che rientra in questo genere di cose qui, a un certo punto ti viene il black-out e proprio non c’è verso. Volevo far sentire un pezzo a mia figlia, che era “Inside all the people” e naturalmente non mi ricordavo neppure il titolo. E provavo a cercare su Google scrivendo le parole del testo, quelle poche che ricordavo, ma nulla. Potete immaginare il fastidio. Così mi sono giocato il tutto per tutto e ho digitato “come si chiama quel gruppo di musicisti napoletani con il cantante inglese”. E, malgrado i due punti interrogativi e l’apostrofo dopo la e anziché la e accentata, il miracolo si è avverato.

i’m not your steppin’ stone

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Di certo i Sex Pistols devono essersi divertiti a rifare un pezzo da così (la versione dei Monkees)

a così:

quello che reggo sono solo le parole

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Ai tempi d’oro dei cantautori a me i cantautori non piacevano granché. Il motivo del mio disinteresse era la scarsa cura degli arrangiamenti musicali delle loro canzoni, secondo il mio metro e i miei ascolti, naturalmente. Penso solo a quel modo di musicare testi irripetibili, addirittura perfetti tanto era la loro intelligenza e profondità, senza conferire altrettanta originalità alla componente strumentale. Ora senza addurre esempi di pezzi chitarra e voce, la classica ballad a impostazione dylaniana, in cui l’accompagnamento è volutamente scarno in virtù del processo compositivo stesso, in tutta l’abbondanza di riascolti dell’opera di Lucio Dalla che si è succeduta nell’anno della sua scomparsa, e soprattutto il suo periodo d’oro ovvero gli anni 70, mi sono accorto di riscontrare la stessa impressione di allora, pur mediata da una maturità e dall’intelligenza di collocare filologicamente il brano nel suo contesto storico quindi culturale e quindi estetico. Che poi è un po’ il peccato originale della musica italiana stessa, quello dell’essere imbrigliato da un linguaggio poco flessibile da adattarsi ad altri generi al di fuori di quello specifico della canzone d’autore. Ora è chiaro che certe speculazioni si possono fare solo a posteriori, ma non è difficile immaginarsi come alcune canzoni sarebbero riuscite se date in mano a uno come Gianni Maroccolo, giusto per fare un esempio impossibile se non altro da un punto di vista anagrafico, o a musicisti con altrettanto background e visione meno provinciale. D’altronde i turnisti e i virtuosi che popolavano l’entourage dei cantautori erano gli stessi che poi magari dovevano esercitare il loro mestiere con autori e interpreti meno nobili, quindi essere pronti a tirare fuori il meglio anche in registrazioni meno raffinate. Sempre per fare un esempio, musicisti del calibro dei componenti della PFM, che hanno arrangiato con un gusto sopraffino l’opera di De Andrè, hanno accompagnato anche molti dei peggiori prodotti musicali del periodo. E la PFM è uno dei rari casi di compresenza di gusto e tecnica, di esperienza internazionale ma di sapore italiano. Altrove, dare un brano nudo e crudo in mano a mestieranti scafati e supertecnici generava rivestimenti sonori sicuramente tagliati su misura ma tali da omogeneizzare qualunque canzone nel calderone della sovraproduzione artistica, condannandola all’oblio nei secoli dei secoli. Affidare la responsabilità di colorare una linea melodica a virtuosi con le mani e la testa zeppe di ascolti unicamente monodirezionali, il jazz o la fusion tanto per citare due degli elementi che in ambito pop nemmeno dovrebbero essere ripresi nei booklet dei cd, è stato enormemente riduttivo. Nel 1979, anno di uscita di  Lucio Dalla che possiamo considerare un album perfetto anche solo considerando la tracklist, nel resto d’Europa la musica si muoveva in tutt’altra direzione e se è difficile immaginarci un brano come “Anna e Marco” con la produzione di Brian Eno è solo perché il nostro imprinting sonoro è lo stesso che hanno i componenti degli Stadio che hanno registrato quel brano. Se posso generalizzare con una battuta, metti un pezzo rock o anche funky in mano a gente che suona troppo bene e il rock e il funky miracolosamente spariscono nel nulla. E a supporto di questa tesi, anzi del suo contrario, ascoltate la versione in studio di “Musica ribelle” di Finardi, che è una delle rare eccezioni di quanto ho scritto sopra in cui addirittura la batteria emerge a un volume straordinariamente alto considerando anno e nazione di uscita, il tutto registrato da alcuni membri degli Area in aggiunta ad altri musicisti italiani “anomali” come Alberto Camerini.

come si intitola quel pezzo di quel gruppo che incomincia con quel riff di sintetizzatore

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A una certa età la maggior parte delle discussioni sono introdotte da domande di questo tipo, non si fornisce all’interlocutore nessun indizio perché nella propria memoria c’è il vuoto e si pretende dagli altri una risposta immediata come se fosse semplice cercare tra i file in cantina della nostra mente. Cose come “hai visto quel film di quel regista con quell’attore” o “hai letto quel libro di quello scrittore che aveva fatto anche la sceneggiatura di quell’altro film che aveva la colonna sonora di quel gruppo” sono all’ordine del giorno ed è per questo che invito voi lettori delle giovani generazioni a non avercela con noi persone di mezza età che a fatica siamo in grado di affermare con cosa abbiamo fatto colazione questa mattina. Questo per dire che erano settimane che avevo in testa un riff di sintetizzatore che chissà come mi era venuto in mente e non riuscivo a trovare nessuna collocazione. Lo cantavo agli altri ma nulla, addirittura uno sbarbatello era certo si trattasse degli Europe, ma ti sembra che uno come me possa avere una eco di un pezzo di quei tamarri lì in testa. Non avete idea di quanto abbia sofferto. Poi giusto questo weekend con gli ennemila canali video di Sky a disposizione dei miei genitori, che vi ricordo poi passano il tempo su Tele Padre Pio o sui programmi di esibizioni delle orchestre di liscio piemontesi, per puro caso si è manifestato questo pezzo e così finalmente la sinapsi si è accesa. Roba del 1978 che non ricordo di aver mai più ascoltato da allora, da quando cioè canticchiavo la chitarra elettrica facendo versi di distorsione e mimando con la mano sulla borchia della cintura dei jeans a ritmo, ma che mi aveva colpito proprio per la parte iniziale di tastiere che, a parte essere ripresa a metà pezzo, non c’entra nulla con il resto del brano. Così, direttamente dalle mie elucubrazioni sonore, ecco a voi gli Sweet con “Love is like oxygen”.

Justice – New Lands

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bravo, bis

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Diciamo NO a chi balla fuori tempo ai concerti, muoversi non rispettando il ritmo può essere deleterio e causare scontri involontari con chi invece segue la canzone con gli stessi battiti, questo indipendentemente dalla propria coreografia. Non devi essere Nureyev per non schiacciare i piedi o spalmare il sudore addosso a chi ti sta vicino. Diciamo NO a chi acquista i biglietti ma va solo per accompagnare l’amata/o con il solo scopo di limonare il più possibile, prima dell’inizio, durante il gruppo di supporto e dopo l’inizio vero e proprio. Già il fatto che un gruppo come gli Stadio abbia dedicato una canzone al fare l’amore durante un concerto rock è significativo circa l’inopportunità di tale pratica. Diciamo NO anche ai gruppi di supporto, che a parte i Bloc Party prima degli Interpol non ricordo di aver mai ascoltato con pazienza la band apripista della serata per la quale ho pagato fior fior di quattrini. Soprattutto in ambito locale: se già trovare un concerto di un artista italiano valido è una rarità, figuriamoci se chi apre la serata è all’altezza. Per esempio, ieri sera al concerto di Caparezza a Sesto S. Giovanni, che già pur con il bene che gli voglio si è trattato di un momento artistico di qualità ma comunque sempre molto calato nel nostro metro quadro di italianità, non vi dico l’inutilità dei Rezophonic dei quali pur apprezzando il valore dell’iniziativa, musicalmente sono abbastanza una merda che ti sembrano i gruppetti di cover nei quali hai smesso di suonare a vent’anni. Diciamo NO a quelli che non conoscono i pezzi e che tutto sommato non gliene fotte niente nel concerto, ci vanno perché ci devono andare e assistere a Sting o a Biagio Antonacci è la stessa cosa. Ne parla il web e allora devono presenziare. Poi si mettono fermi come statue e passano il tempo a chiedersi che cosa ci fanno lì e a rispondersi che comunque devono divertirsi. Diciamo NO a quelli che conoscono i pezzi e li cantano ma sbagliano le strofe e le parole, un classico che a trovarseli di fianco ti viene da farti rimborsare il biglietto. Diciamo NO anche a chi ti fuma vicino anche se il concerto è all’aperto, e soprattutto a chi ti fuma vicino e non offre. Diciamo NO ai forzati del pogo, così chiudiamo il cerchio con quelli che ballano male e fuori tempo. Quelli che pogano a ogni bpm, sia che il gruppo sul palco stia suonando un pezzo a media velocità che un brano velocissimo. Il pogo per loro è una forma mentis, esprimere il corpo con il movimento è solo spintonare i presenti nel proprio raggio di azione, complice il tasso alcolico. E diciamo NO ai concerti dopo i 40 anni, va. Che a vedere tutti ‘sti nemmeno ventenni che si divertono senza tanti problemi uno si rovina anche la serata.

clima africano?

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Ecco un po’ di musica che si adatta alle condizioni atmosferiche. Da Pitchfork via Soundcloud (dove trovate anche la tracklist) un nastrone mixato fresco fresco, anzi caldo caldo da tUnE-yArDs con una infilata di brani world che più world non si può. Se la temperatura vi toglie il sonno, che almeno la notte vi faccia scoprire cose nuove.

se ami qualcuno lascialo libero (almeno così dicono)

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Avete presente quando due si lasciano, e voi siete uno dei due, diciamo quello che è stato scaricato ma non necessariamente. E più del fatto di essere stati abbandonati non vi capacitate che il vostro ex partner si sia messo immediatamente dopo, o anche trascorso un periodo di tempo variabile, con una persona completamente diversa da voi. A me è successo e la prima naturale cosa che ho pensato e che pensano tutti è che l’ex partner non ne potesse davvero più di me per mettersi con uno agli antipodi. E agli antipodi di me, come potete immaginare, ci sono quei tipi rozzi e ignoranti che leggono Libero, guidano Smart o gipponi o le mini modello olgettina, praticano sport estremi e si ricordano a memoria le battute de “Il signore degli Anelli”. Fermo restando che ci vorrebbe una legge a tutela della dignità dell’essere umano tale che gli ex, terminata l’esperienza che li ha resi ex di qualcuno, non instaurino nessun rapporto successivo con nessuno altro per qualche decade, proprio per non ferire l’altrui ego con inutili comparazioni. Ma questa è un’altra storia, perché quello che succede è che analoghe dinamiche si sviluppano anche negli ambienti dei gruppi musicali.

Vi faccio un esempio. Corteggi per qualche anno un bassista che guida una vespa con un adesivo dei Joy Division. Avete letto bene. Un bassista che non te la mena con Jaco Pastorius o con Sting o con Tony Levin e i suoi bassi assurdi a tre corde da suonare con le bacchette ma che strattona quel meraviglioso strumento sufficientemente da cani e con il plettro per poter accompagnare una band aspirante post-punk. Il colpo di fulmine è inevitabile. Trascorri qualche anno nell’idillio sonoro e poi le cose finiscono come da copione. C’è il cantante che vuole fare il solista, il batterista che tra i suoi quindici gruppi in cui milita decide che per te non ha più tempo perché occupi la sedicesima posizione, il chitarrista ritmico che ruba la fidanzata al chitarrista solista eccetera eccetera, insomma i cliché dello scioglimento di un gruppo. Vi faccio solo notare che dei tastieristi non si può dire nulla, da sempre sono le persone più serie e vi sfido a trovare un addetto alla macchine elettroniche testa di cazzo.

Comunque la fine della band in questione è segnata e il bassista rimane così traumatizzato che entra in una formazione di gente che fa cover dei Doors e dei Deep Purple e gira con le Harley Davidson tarocche. E si fa crescere pure i capelli. Poi ti chiama perché nel gruppo in questione nessuno è in grado di metter per iscritto una nota su un pentagramma ma ha bisogno di depositare una manciata di pezzi originali alla SIAE e tu in virtù degli antichi fasti ti offri di occupartene. Ti metti al lavoro a trascrivere le canzoni e ti rendi conto che non si può fare, non hai mai sentito una musica così di merda.

Non so, è come se – tornando alla metafora della storia d’amore – incontri la tua ex dopo un anno e la trovi dipendente da una droga potentissima e in pericolo di vita e così pensi che è un segno del destino e devi salvarla. Devi rapirla e portarla in un luogo sicuro e farla tornare pulita come prima. Così decidi di mettere in salvo il tuo ex bassista, che nel frattempo si è messo anche a studiare sodo per diventare uno che te la mena con Jaco Pastorius e Sting e Tony Levin, e ti presenti al concerto del suo nuovo gruppo mescolato tra la folla. Ed ecco cosa succede. Intanto c’è la folla, che ai vostri concerti post-punk non c’era mai. Poi l’abbondanza di pubblico femminile non depresso, idem come sopra. Non ti è chiaro quale sia il vero bene per lui, e pensi sia meglio prendere una birra e pensarci su. Magari dopo aver fatto quattro salti su Roadhouse Blues.

senza voce

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Ogni tanto i gruppi te li piazzano nella tracklist del loro ultimo album e un po’ ti trovi spiazzato le prime volte perché non capisci il senso di inserire un brano senza la voce quando il cantante spesso è tutto in una band. Mi riferisco ai pezzi strumentali. A volte ti lasciano quel sapore agrodolce di un’esperienza interrotta, l’impressione è quella che manchi qualcosa o addirittura si tratti di riempitivi per completare lo spazio a disposizione soprattutto un tempo, quando era necessario riempire i solchi del vinile. Poi gli strumentali sono diventati vera materia prima per i campionatori e i produttori di musica elettronica e rap, si potevano sfruttare parti già pronte all’uso per digitalizzarle, scomporle e ricicciarle per nuove canzoni. Ma gli originali i gruppi poi non li suonavano nemmeno dal vivo, o magari li utilizzavano come sigla di apertura. Ce ne sono molti ed è un’impresa ricordarli tutti. A me piace molto questo “Someone up there likes you” dei Simple Minds tratto da “New gold dream”. Atmosfere da pioggia in macchina, con i finestrini chiusi naturalmente, un bel giro di basso di bordone e poi un cambio-refrain per riempirsi di beatitudine e crogiolarsi in malinconia ad libitum.

due nuove canzoni dei blur

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