Le canzoni dell’episodio 2 dell’ottava serie di Grey’s Anatomy andato in onda ieri sera su La7.
Benjamin Francis Leftwich – Atlas Hands
Emma Louise – Jungle
Big Scary – Thinking About You
Le canzoni dell’episodio 2 dell’ottava serie di Grey’s Anatomy andato in onda ieri sera su La7.
Benjamin Francis Leftwich – Atlas Hands
Emma Louise – Jungle
Big Scary – Thinking About You
Le canzoni dell’episodio 1 dell’ottava serie di Grey’s Anatomy andato in onda ieri sera su La7.
Eric Hutchinson – Watching You Watch Him
Delay Trees – Gold
AM – Boundaries
Box of Stones – Benjamin Francis Leftwich
New Cassettes – Bite Your Lip
Tra tanto pop emerso grazie alla laboriosa industria musicale italiana, che su quel fronte non si può certo dire sia mai stata con le mani in mano, anzi, stupisce il fatto che un gruppo come i Delta V non abbiano mai raggiunto vette di popolarità per le quali avevano tutte le carte in regola e qualcosina di più. Anzi, le ragioni di questo vanno forse proprio ricercate nell’eccessiva raffinatezza per i palati anestetizzati del pubblico di riferimento e di alcune anomalie alle quali il nostro mercato non era sicuramente pronto. Intanto l’assenza di una cantante fissa, ne hanno cambiate tre per cinque album. Poi il fatto di puntare spesso su cover come singolo radiofonico, un prodotto di elevata qualità ma dal ciclo di vita brevissimo perché poco rassicurante, lo sapete che rapporto di odio-amore hanno gli italiani con il loro passato. Tutto bello, ma meglio passare ad altro. Quindi il fatto di strizzare l’occhio al circuito underground, troppo “choosy” per mescolarsi con la semplicità armonica delle loro composizioni, e lungi da me qualsiasi accezione negativa di ciò. E so che in molti storcono il naso a sentire solo parlare di loro, mentre a me sono sempre piaciuti molto soprattutto per la componente elettronica, per la scelta dei pezzi da rivisitare – su tutti “Un’estate fa” in quella bellissima versione semi drum’n’bass – e per il gusto che hanno sempre dimostrato. Poi chissà cos’è successo, peraltro l’ultimo disco “Pioggia Rosso Acciaio” offriva numerosi spunti interessanti ma è passato praticamente inosservato. Non mi stupisco, visto il posto in cui abitiamo. Così, cari Bertotti e Ferri, da qui lanciamo un appello volto al vostro ricongiungimento. E, se devo scegliere una delle tre cantanti, insisterei su Lu Heredia, ma non me ne vogliano le altre due, entrambe superlative. Questa è una delle loro composizioni che preferisco. Sì, lo so, sono un po’ commerciali, ma non si vive di solo indie.
Questa delizia di merchandising fai da te che farei qualunque cosa per averla mi ha fatto venire in mente quella volta in cui a tredici anni e rotti, nel pieno della popolarità del reggae e della cultura rasta diffusa tra i giovani di allora – e quando parlo di cultura rasta mi riferisco anche a quella cosa lì che pensate tutti – soffrivo le pene dell’inferno perché alcuni dei miei amici avevano i fratelli grandi che già viaggiavano per concerti nelle grandi città e portavano come souvenir ai fratelli più piccoli il copricapo in lana a strisce verde, giallo e rossa, l’inconfondibile effigie dell’appartenenza al movimento di quelli con il ritmo in levare. Ed erano cappellini bellissimi fatti a cupola perfetta, che sulle teste ricce stavano da dio se poi i boccoli facevano capolino sulla fronte, sulle orecchie e sulla nuca. Ma nelle cittadine di provincia come la mia non c’era speranza di trovare quelle delizie di lana colorata, così, mosso dall’invidia e dalla disperazione, puntai tutto, pur di non sfigurare con gli amici, sulle abilità sartoriali di mia nonna che passava le serate in poltrona a sferruzzare triangoli di lana colorata da cucire poi tutti insieme in coperte patchwork che ne ha fatte talmente tante che avremmo potuto risparmiare il gelo a un’intera popolazione di terremotati, forse ai tempi c’era stato quello del Friuli. Mia nonna accolse di buon grado la richiesta del suo nipotino preferito, le mostrai il modello da copiare e andammo persino insieme a scegliere la giusta gradazione dei colori, che soprattutto sul verde e sul rosso era facile sbagliare. Dopo qualche giorno mi presentò l’opera fatta e finita, e lì capii il perché mia nonna si ostinasse a realizzare triangoli. Non era molto ferrata sulle linee curve, e il berrettino rasta sembrava più il copricapo di una ipotetica rappresentativa di sci alpino giamaicana, questo molto prima di Cool Runnings. Il cappello faceva un difetto in cima ergendosi con una punta sulla testa, una cosa tipo quei berretti che oggi sono in auge presso i fricchettoni ma ai tempi li avevano solo gli sfigati o i ricchi che si potevano permettere la settimana bianca. Non ebbi però il coraggio di affrontare il problema con mia nonna, che intanto aveva ripreso i suoi triangoli felice di aver interrotto la serie con il mio diversivo, che poi non lo è stato per nulla vista la forma del risultato. Chissà se le avessi chiesto un maglione che cosa sarebbe riuscita a produrre.
Quando i gruppi si formano dovrebbero pensarci a non scegliere cantanti così, che poi decenni dopo le tribute band si trovano in grossa difficoltà a emularli.
Per noi nativi analogici, l’inserimento nei motori di ricerca delle parole chiave reality e musica restituisce solo un risultato valido, il mi sento fortunato ci porta dritto qui. Mi permetto una piccola madeleine: il pezzo che sfuma con la cadenza IV – I – II – I che non so cos’è, forse perfetta nella teoria musicale ma cinica nella realtà. Il momento dedicato ai lenti finisce, la braccia si sciolgono e le luci si fanno meno tenui. La ragazza si allontana, non si è concluso nulla, l’occasione è gettata alle ortiche e non si ripresenterà probabilmente mai più.
Oggi su FriendFeed si ricordava “Rise” dei Public Image Limited, uno dei singoli più conosciuti e orecchiabili della band di Johnny Lydon allestita dopo l’esperienza deflagrante quanto commerciale dei Sex Pistols. Il pezzo in questione, che rispetto al resto del repertorio dei PIL risulta piuttosto pop, fu registrato da musicisti che con il post punk davvero poco ci azzeccavano, come Steve Vai e Ginger Baker, ed è facile immaginare quale possa essere stata la loro esperienza con il più celebre demolitore e destrutturalista della musica degli ultimi decenni. Ma un aspetto che mi colpì molto nel 1986, alla pubblicazione del disco, fu il colpo di genio dadaista del titolo: Album per la versione su vinile e Cassette per la versione su nastro. Non ricordo se la versione Compact Disc risale ad allora o è postuma, ma a noi retromani della plasticaccia sberluccicante non ci interessa granché. Schiacciate il pulsante play per il video qui sotto che si intitola, credo, Video. Ma potrei sbagliarmi.
Spiegatemi perché il cantante di un gruppo decide di avviare una carriera solista parallela a quella della sua band producendo materiale assolutamente in linea con quello realizzato dalla band stessa. Mera questione di spartizione dei profitti? Voglia di solitudine? Necessità di dimostrare la propria autorevolezza artistica anche senza l’apporto dei propri compagni di avventura? Era già successo tempo fa con David Gahan, che ha pubblicato un paio di album assolutamente depescmodizzabili, e ora si ripete con Paul Banks che dà alla luce un album parzialmente omonimo che potrebbe essere il nuovo (e più riuscito del precedente) lavoro degli Interpol. Qui trovate l’intera tracklist in streaming, lunga abbastanza per riflettere sul problema che ho posto. Qui sotto invece un brano piuttosto interpolizzante, vedete voi.
Ho appena letto una bella storia nel romanzo che mi accompagna in questi giorni, Giochi d’infanzia di Lynne Sharon Schwartz, si tratta di un episodio irrilevante nell’economia della trama ma ricco di significato, così ho pensato di approfondire. L’aneddoto racconta di una canzone di protesta scritta dal famoso cantautore argentino León Gieco dal titolo “Sólo le pido a Dios”, del quale la dittatura di Videla aveva vietato la pubblica esecuzione in concerto, pena la pubblica esecuzione di León Gieco stesso, come direbbe Caparezza. A quanto sostiene la scrittrice, succedeva che, durante i concerti, fosse sufficiente che il cantautore desse il primo attacco di chitarra perché tutto il pubblico la cantasse in sua vece, sollevandolo così dalla responsabilità di aver contravvenuto all’imposizione della dittatura. Un bell’esempio di sostegno a un artista, vero? Mi sono immaginato lo stadio pieno, il cordone di militari armati fino ai denti tutto intorno al pubblico, dei musicisti sul palco fermi e muti e sotto migliaia di persone che cantano al loro posto. Il popolo unito giammai sarà stonato, al limite sarà stato difficile tenerli tutti a tempo. Purtroppo non ho trovato riscontro della veridicità di questo fatto commovente, nemmeno nella pagina dedicata al pezzo del sito Antiwar Songs, comunque ricca di particolari e comprensiva di tutte le traduzioni di cui la canzone è stata oggetto e altri dettagli sulla sua fortuna. Qui sotto una versione live di Mercedes Sosa, eseguita e registrata senza alcun pericolo per la sua incolumità, credo.
Noi abbiamo Morandi e Celentano, il resto del mondo Neil Young e i Rolling Stones. Per dire.